Si è concluso il Sinodo sull’Amazzonia, il Sinodo di tutte le uguaglianze
Riflessioni di Massimo Battaglio
In una basilica di San Pietro non gremita, si è concluso il Sinodo sull’Amazzonia. Una platea coloratissima ha popolato la navata ma i posti riservati al clero romano sono rimasti vuoti. Gli affezionati dei riti vaticani, per una volta che non si parlava di “valori non negoziabili” e cioè di morale sessuale e poco altro, sono rimasti a casa.
C’era un’aria di palpabile tensione. Da una parte, il coro della Sistina non ha rinunciato alle proprie esibizioni un po’ lugubri ed è riuscito a proporre un’aria “in stile barocco” persino per il Cantico delle Creature. Dall’altra, i costumi sgargianti e i sorrisi pieni di speranza di chi ha vissuto davvero il Sinodo erano eloquenti.
A chiarire da chi parte sta la Chiesa, quella universale, non romano-centrica, ci ha pensato il papa. Con una messa senza una parola di latino e con una ricca omelia. Omelia che, per certi tratti, interessa anche noi cristiani lgbt.
“Quante volte – ha detto Francesco riferendosi alla parabola del fariseo e del pubblicano – chi sta davanti innalza muri per aumentare le distanze”.
Si riferiva al disprezzo con cui vengono trattate le popolazioni amazzoniche ma, mi piace pensare, non solo a loro. Ancora più generale il passaggio successivo:
“La religione dell’io continua. Ipocrita, con i suoi riti e le sue preghiere. Ma tanti sono cattolici; si professano cattolici. Ma hanno dimenticato di essere cristiani e umani. Dimenticano il vero culto a Dio, che passa sempre attraverso l’amore del prossimo. Anche i cristiani che pregano e vanno a messa la domenica sono sudditi di questa religione dell’io”.
E’ stato il Sinodo di una minoranza etnica ma le conclusioni si adattano molto bene a tutte le minoranze. E infatti, ha dato fastidio. Tanto fastidio che qualcuno si è lanciato in anatemi e accuse di comunismo (quando si parla di giustizia e uguaglianza, lo spettro del comunismo è sempre comodo).
Altri sono andati anche più in là, oltraggiando le immagini della cultura amazzonica, offendendone l’arte e definendola idolatria. Il santo padre non ha ignorato queste assurde espressioni di dissenso. Già aveva stigmatizzato, durante i lavori, il furto delle statuette della Pacha Mama nella chiesa di S. Maria Trasteverina. Ora vi è tornato indirettamente:
Ha condannato chi “disprezza le tradizioni “ dei popoli indigeni “ritenendoli arretrati o di poco valore” e “ne cancella le storie, ne occupa i territori, ne usurpa i beni”. Bella questa catena: parte da una semplice presunzione di superiorità culturale e si conclude con l’usurpazione della terra.
Sarebbe interessante approfondire il tema dell’apporto delle varie tradizioni etniche al cammino della Chiesa. (Famiglia Cristiana, la scorsa settimana, ci ha provato). Scopriremmo per esempio che l’intera devozione mariana è profondamente debitrice delle culture religiose pre-cristiane. Resteremmo stupiti di come, davvero, Dio non si rivela solo ai fedeli di tradizione cattolica ma a tutti gli uomini, a partire da quelli apparentemente più lontani. E chissà che non chiami anche noi, persone omosessuali, a portare un nostro prezioso specifico.
Non credo che sia un caso che i protagonisti del furto di Pacha Mama siano gli stessi che, preoccupati di difendere una tradizione blindata e immutabile, continuano a vomitare ogni tipo di sentenza contro gay, lesbiche e trans. Ma fa lo stesso. Domenica mattina, loro, a San Pietro, non c’erano. C’era l’altra Chiesa: quella cristiana.