Si può trasmettere la fede?
Articolo di Giannino Piana pubblicato sulla rivista “Il Gallo” del Dicembre 2018
L’espressione trasmissione della fede è ambivalente. Essa può significare che la fede è resa possibile dal succedersi di una tradizione che risale alle origini e che ci è stata tramandata mediante l’istituzione ecclesiale, e in questa accezione risulta del tutto plausibile. Ma può anche significare — ed è questa l’accezione con cui l’espressione viene comunemente usata — che la fede è frutto di un processo comunicativo attraverso il quale si opera direttamente il passaggio dall’educatore a chi viene educato. In questo secondo caso l’espressione è impropria, perché sottende la possibilità di una consegna immediata di un bene che, in quanto è dono di Dio, può essere soltanto ricevuto dall’alto.
L’importanza delle precondizioni
Se questo è vero, non è meno vero che il dono della fede, che è di per sé offerto a tutti, suppone, per poter essere accolto, la presenza di alcune condizioni (o precondizioni), che costituiscono il terreno fertile nel quale il seme gettato può venire recepito e attecchire. In una società come quella del passato, caratterizzata dal regime di cristianità, queste condizioni erano offerte dalla cultura dominante e dalle istituzioni civili fortemente impregnate di valori cristiani o segnate dall’influenza del potere ecclesiastico, che esercitava una consistente pressione sulla conduzione della vita sociale e sulla legislazione che ne regolava lo sviluppo. La famiglia e le diverse agenzie educative risentivano di questo clima, che facilitava (e non poteva che facilitare) il compito della trasmissione delle verità cristiane e dei valori a esse connessi.
Oggi non è piú cosí. Il fenomeno della secolarizzazione, che ha assunto proporzioni sempre piú ampie fino a diventare secolarismo, ha intaccato l’ethos culturale di ispirazione cristiana, un tempo largamente condiviso, e le strutture tradizionali della vita civile che lo supportavano, introducendo criteri di lettura e di interpretazione della realtà che esulano, quando addirittura non si oppongono, a una visione religiosa dell’esistenza. La cultura scientifico-tecnica fa riferimento a indici di natura positivista, basati sul principio della verificabilità empirica — vero è ciò che è sensorialmente sperimentabile —; mentre, a sua volta, l’ideologia del mercato divenuto pensiero unico tende a ridurre la comprensione della realtà a parametri utilitaristi come l’efficienza produttiva e il consumo. Ma c’è di piú. La questione di Dio non è oggi soltanto accantonata in quanto non rientra nella logica soggiacente a questi parametri; è, piú radicalmente, sottratta alla possibilità di qualsiasi considerazione, per il fatto che il mondo del divino è del tutto ignorato, in quanto considerato anacronistico e irrilevante.
Quale impegno educativo?
A venir meno è dunque quel tessuto valoriale, che costituiva in passato l’insieme delle precondizioni della fede; o che rappresentava, in altre parole, il terreno fecondo nel quale il dono della fede poteva trovare accoglienza e svilupparsi. Valori come la gratuità, l’ascolto e l’apertura all’inedito e al non razionalizzabile sembrano essere del tutto accantonati: il che provoca un ottundimento delle coscienze, con l’impossibilità (o almeno con una consistente difficoltà) a disporsi a ricevere il dono della fede. Nella prospettiva cristiana, infatti, non siamo noi ad andare per primi incontro a Dio, ma è lui che per primo viene incontro a noi, e quello che conta è, di conseguenza, disporci a riceverlo, predisponendo le condizioni perché questo possa avvenire.
La fede cristiana è frutto dell’ascolto; ma perché si possa diventare uditori della Parola — come recita il titolo di un importante opera di Karl Rahner (1904 – 1984, gesuita tedesco, fra i principali teologi del suo tempo, ndr) — è necessaria la coltivazione di un’ascesi, fatta di povertà come abbandono dell’autosufficienza (e percezione della propria insufficienza), di silenzio, di ricettività — come già si è ricordato — che, lungi dal dover essere ascritta — come oggi spesso avviene – all’area della passività, è un’attitudine estremamente attiva, che mobilita le energie piú profonde dell’animo umano. Il compito educativo deve dunque avere come obiettivo la creazione dello spazio, perché queste attitudini possano essere ricuperate e producano in tal modo le premesse per l’accesso alla fede.
La necessità di un’attitudine misterica
Ma l’attitudine che piú di ogni altra esige di essere coltivata è il senso del mistero, una visione, cioè, aperta del mondo e della vita non circoscrivibile entro schemi predefiniti e onniavvolgenti. Come ci ha ripetutamente ricordato Gabriel Marcel (1889 – 1973, filosofo, esponente dell’esistenzialismo cristiano, ndr) due sono infatti gli atteggiamenti di fondo con i quali l’uomo si rapporta alla realtà: l’atteggiamento problematico e quello misterico. Il primo, oggi prevalente, che ha le sue radici nella cultura positivista dominante, è caratterizzato dalla presunzione di poter dare una spiegazione totale di ogni fenomeno umano e naturale — il problema può non essere ancora risolto, ma è ritenuto in ogni caso risolvibile — mediante la sua riconduzione entro schemi razionali o sperimentali. Il secondo implica, invece, un accostamento ai fenomeni ricordati sotto la forma della comprensione, cioè di una fusione di orizzonti diversi e inesauribili, la quale lascia aperta la porta a una ulteriorità, mai del tutto circoscrivibile.
Detto in altri termini, siamo qui di fronte — per usare le categorie di Emmanuel Lévinas (1906 – 1995, filosofo ebreo francese, ndr) — all’opposizione tra due forme di ragione: la ragione della Totalità e la ragione dell’Infinito. La prima è una ragione chiusa totalizzante — la razionalità ideologica che conduce ai totalitarismi e quella strumentale, per la quale la conoscenza si traduce in esercizio del potere manipolativo sulla realtà —; la seconda è una ragione aperta, che non pretende di esaurire in sé stessa il reale, ma rinvia costantemente oltre; è la ragione che fa spazio al mistero, e che apre dunque l’accesso alla trascendenza.
Il valore della testimonianza
La fede rimane dunque — è bene ribadirlo — una realtà intima e del tutto personale, che riguarda il rapporto dell’uomo con Dio e che implica pertanto una scelta esclusiva del soggetto, dalla quale discende uno stile particolare di vita. Questo significa che ciò che è possibile trasmettere non è dunque la fede; è, piú semplicemente un insieme di valori e di modelli di comportamento, che dicono riferimento ai contenuti fondamentali del messaggio cristiano e che consentono di acquisire la conoscenza del «che cosa credere» (di quella che gli Scolastici definivano come la fides quae), ma non possono invece suscitare l’atteggiamento di fede (la fides qua), il quale comporta un incontro con la persona Dei, che ha luogo nel sacrario della coscienza in maniera assolutamente irripetibile. La condizione che piú di ogni altra può influenzare (ma mai determinare) tale libera opzione è la testimonianza. Le conoscenze cui si è accennato acquistano carattere esistenziale nella misura in cui vengono confermate dalla condotta di vita di chi le comunica. Non è forse questo il segreto dell’educazione? Non si educa per quello che si dice, ma per come si agisce e, piú radicalmente, per come si è. L’assimilazione dei valori è frutto di un processo profondo che mobilita tutte le energie della persona: i valori non basta saperli, occorre sentirli, percepirli cioè come indispensabili direttrici che conferiscono un senso all’esistenza.
Questo non vale soltanto per i valori morali naturali, ma anche per i valori evangelici, la cui bellezza diviene trasparente nei vissuti di persone — quelle piú vicine in particolare — che trovano nella loro pratica la risposta alla propria realizzazione personale. La comunicazione di tali valori chiama in causa l’importanza del linguaggio — non solo di quello parlato, ma anche (e soprattutto) di quello gestuale — che esige di essere costantemente riattualizzato e risignificato. Le forme dell’ethos hanno immediatamente a che fare — come è risaputo — con la tradizione culturale e reclamano la disponibilità a un costante mutamento. Ma quello che conta è che non venga meno la forza del simbolo, che dà espressione alla verità senza la presunzione di possederla, ma rinviando costantemente oltre.
La rigenerazione di questo linguaggio, offuscato oggi dalla presenza di linguaggi chiusi e riduttivi, è, in definitiva, la condizione fondamentale per restituire piena credibilità — è questo l’apporto che i credenti e le comunità cristiane possono (devono) offrire a ogni uomo — all’annuncio evangelico.