Siamo cristiani omosessuali. Perché restiamo nella nostra chiesa?
Testimonianza di Michal Anne Pepper* tratta da Whosoever Magazine (Stati Uniti) del Marzo/Aprile 1998, liberamente tradotta da Giacomo Tessaro
Provo un grande rispetto per un mio amico. È gay, caloroso, affascinante e affettuoso. È stato anche un membro attivo della nostra chiesa negli ultimi vent’anni.
Nella nostra chiesa c’è una maggioranza di eterosessuali. Nonostante la nostra chiesa sia diventata pubblicamente e ufficialmente inclusiva nei confronti delle minoranze sessuali alla metà degli anni ’70, ci sono ancora moltissimi di quei piccoli dissensi, offese, discriminazioni e ingiustizie che si trovano in tutte le istituzioni radicate nella nostra cultura eterosessista.
Con tutto ciò, il mio amico è stato fedele nel suo impegno con la nostra comunità di fede. Molte volte, durante la mia relativamente breve permanenza di quattro anni, ho voluto scappare dalla porta urlando e gridando. Quindi ho chiesto al mio amico come mai fosse restato tutti quegli anni.
E la sua risposta ha qualcosa a che fare con le relazioni. La sua relazione con Dio. La sua relazione con gli altri membri. La sua relazione con la moglie dopo ventidue anni di matrimonio. La sua relazione con la chiesa, da figlio di predicatore.
Recentemente ha rigirato la domanda e mi ha chiesto perché resto. Quando ho provato a rispondere ho avuto le sue stesse difficoltà. Certamente ho molte relazioni preziose nella chiesa.
E sono fiera di essere parte di una comunità di fede che cerca di fare qualcosa di buono per il mondo. Non è facile essere una chiesa inclusiva a Dallas, nel Texas (Stati uniti). Ma in qualunque gruppo non è facile essere una minoranza. Quindi perché resto? Recentemente abbiamo incaricato un giovane della nostra chiesa di una missione in Guatemala. Ha usato il seguente testo per il suo sermone:
E Paolo, stando in piedi in mezzo all’Areopago, disse: «Ateniesi, vedo che sotto ogni aspetto siete estremamente religiosi. Poiché, passando, e osservando gli oggetti del vostro culto, ho trovato anche un altare sul quale era scritto: Al dio sconosciuto. Orbene, ciò che voi adorate senza conoscerlo, io ve lo annuncio.
Il Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo; e non è servito dalle mani dell’uomo, come se avesse bisogno di qualcosa; lui, che dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa…
Essendo dunque discendenza di Dio, non dobbiamo credere che la divinità sia simile a oro, ad argento, o a pietra scolpita dall’arte e dall’immaginazione umana. Atti 17,22-25; 29 ( Nuova Riveduta )
Andò avanti a spiegare come questa scena sia stata usata spessissimo come modello per le missioni estere. Paolo è il missionario e gli Ateniesi sono coloro che si trovano sul campo di missione.
In realtà, il nostro missionario in erba non si trova a suo agio con questo modello di missione estera piuttosto arrogante. Molti Guatemaltechi si identificano già come Cristiani. Così descrisse, con dettagli orrendi e raccapriccianti, il dolore e la sofferenza dei Guatemaltechi causati dal loro stesso governo.
Parlò di persone che vengono trasportate in un campo militare, picchiate a morte, gettate dentro delle fosse e incendiate. Si chiese cosa potesse imparare da una gente che resta fedele in mezzo a una simile persecuzione. Concluse che lui è l’Ateniese e i Guatemaltechi sono Paolo.
Concordo con questo giovane missionario. La chiesa è il nostro campo di missione più grande. Nella misura in cui la chiesa è controllata e abitata da membri del gruppo dominate della nostra cultura: maschi bianchi ed eterosessuali, la chiesa è cieca al regno di Dio.
Quando solo i superprivilegiati della nostra cultura definiscono il Cristianesimo, scrivono le sue storie e la sua musica, creano le sue liturgie e le sue immagini, prendono le decisioni e predicano i suoi sermoni, la chiesa non ha alcuna opportunità di intravedere la comunità di Dio che sorge dalla sofferenza comune. I membri della chiesa scambiano la loro vita di privilegi per la realtà.
Scambiare una vita di privilegi per la realtà è chiamato idolatria. Anche quando porgono una mano ai bisognosi e ai disprezzati questo tipo di chiese li tengono accuratamente alla distanza di un braccio.
Le sofferenze indotte dal sistema continuano ad essere un’astrazione teorica più che realtà vissuta. I membri della chiesa restano al riparo nella loro zona protetta.
Come lesbiche e gay, il nostro più grande regalo alla chiesa è il dolore e la sofferenza nella nostra comunità. Il dolore che può aiutare gli occhi ad aprirsi davanti all’ingiustizia, risvegliare la gente dalla compiacenza auto giustificatoria e indicare la via oltre “ l’immagine formata dall’arte e dall’immaginazione dei mortali “, verso Dio.
Siamo missionari nelle nostre chiese. Come tutti i missionari “noi“ dobbiamo unirci a “loro” e diventare “noi tutti” per diventare chiesa. Diventare “noi tutti” è una lotta. Quando parlo della mia esperienza di lesbica Cristiana faccio a pezzi la visione del mondo delle mie sorelle e dei miei fratelli eterosessuali.
Loro si innervosiscono. Io divento ansiosa. Se ho esagerato e le mie sorelle e fratelli etero si innervosiscono troppo, mi sento al centro di critiche ( per esempio mi dicono che “mi occupo solo di quello”).
Per essere stimata da persone che rispetto sono spinta a stare in silenzio su questioni che trovo offensive e degradanti. Ma stare in silenzio vuol dire rifiutare la mia chiamata come missionaria per la chiesa. Diventare “noi tutti” è una lotta per tutti noi.
I miei più efficaci maestri sono sorelle e fratelli lesbiche e gay che condividono il loro dolore con me. Imparo dall’omosessuale il cui padre gli ha detto che la famiglia accetta più serenamente la sua diagnosi di AIDS che la sua identità.
Ascolto l’adolescente lesbica Ispanica violentata dal padre prima di essere cacciata di casa. Il mio messaggio è influenzato dalla credenza di un uomo gay che Dio non lo ama quanto ama gli altri.
La mia comunità è composta da persone che vengono abitualmente picchiate e accoltellate, licenziate dal lavoro, cacciate di casa, molestate dalla polizia e umiliate in chiesa e sul luogo di lavoro. Tutto questo accade giù in strada, alla porta accanto o nelle nostre chiese, non in un paese straniero.
Le persone come me molte volte annegano il dolore e l’odio verso se stessi nell’alcool, nella droga e nel sesso occasionale, attirandosi ancora di più disprezzo e incomprensione dall’intera comunità di chiesa.
Eppure la comunità gay mi educa e ho fiducia nel suo supporto. Trovo Dio nel servizio a lesbiche e gay. Sono onorata di essere parte della comunità gay.
La sofferenza nella nostra comunità gay alimenta il messaggio che porto in chiesa a sorelle e fratelli etero. In cambio imparo molto dalla comunità di fede. Imparo dal mio amico gay il significato della fedeltà. Imparo da un maschio bianco ed etero ( accipicchia ) l’immancabile supporto e nutrimento dei Repubblicani a folli stereotipi.
La pazienza delle sorelle e dei fratelli mi rende più umile,mentre mi dibatto nella mia enorme rabbia verso l’insensibilità delle istituzioni sociali. Come diacona, desidero enormemente lavorare per servire la comunione. Molte domeniche trovo Dio in quel servizio. Sono onorata di essere parte della nostra comunità di fede.
Perché resto? Come membro di un gruppo disprezzato mi trovo a mio agio con la rabbia verso il patriarcato. Trovo conforto nel vedere il gruppo dominante con diffidenza, sospetto e rabbia.
Nonostante non trovi la mia identità nella cultura maggioritaria ho un comodissimo ruolo da martire incompresa. Sono quindi a rischio di pensare che la mia esperienza sia la realtà.
Come gli Ateniesi rischio di adorare “un’immagine formata dall’arte e dall’immaginazione dei mortali“. Perché resto? Dove dovrei andare per confessare il mio peccato di idolatria? In quale altro posto mi potrei pentire?
* Michal Anne Pepper, psicologa, vive, lavora e frequenta il culto a Dallas nel Texas con la sua compagna di vita da 15 anni, Gail Rekers. Entrambe sono membri della Midway Hills Christian Church (Chiesa dei Discepoli di Cristo).
Testo originale: Why Do You Stay?