Siamo una coppia lesbica! Ecco perché voglio sposare la mia compagna
Testimonianza di Patricia Montley tratta da Marriage Equality: A Positive Catholic Approach, New Ways Ministry (USA), 2011, pp.20-21, liberamente tradotta da Pina
Sally ed io stiamo insieme da tantissimi anni. La gente ci chiede: “Perché il matrimonio? Non è già abbastanza un’unione civile?”. Non è abbastanza perché “unione civile” non ha lo stesso significato del matrimonio, ciò che noi definiamo “qualcosa che ci sta a cuore”. Non molto tempo fa, ero in ospedale per un intervento chirurgico. Quando il medico entrò in stanza gli presentai Sally come la mia compagna. Egli si mise a ridere (era a disagio? era cinico?) e disse: “Cosa siete voi due – compagne di crimini?”.
Ormai dovrei essere corazzata contro tale insensibilità, ma ancora mi sento ferita ogni volta che qualcuno sminuisce la nostra relazione. Se avessi presentato Sally come la mia consorte il dottore sarebbe stato meno indelicato? Avrebbe liquidato il nostro rapporto di 30 anni con una battuta? Non credo. Il matrimonio è considerato una cosa seria.
Per gli altri il matrimonio è un profondo e serio impegno per la vita, un’intimità emotiva e fisica basata sulla coppia. Per la coppia, è un rassicurante sollievo, un senso di sicurezza, una fonte di orgoglio, un senso di appartenenza non solo dell’uno verso l’altro, ma nei riguardi di una comunità più ampia. Due persone sposate diventano qualcosa di più grande: una famiglia.
Una famiglia è ciò che Sally ed io abbiamo fatto insieme ed un’unione civile non esprime questo.
Non significa la stessa cosa presentare Sally come mia “amica” o “compagna” piuttosto che come la mia “consorte”. Quando lo Stato ci nega il diritto di sposarci, invia a me e a Sally il messaggio che siamo cittadine di seconda classe in una relazione di seconda classe e invia lo stesso messaggio non solo agli estranei, come il medico, ma anche alle nostre famiglie.
Dopo essere stata coautrice di una lettera aperta sul Baltimore Sun nell’agosto 2009 difendendo i matrimoni tra persone dello stesso sesso, mia madre di 87 anni ha smesso di parlarmi.
Da quel momento, compresi i giorni dei compleanni e le vacanze, ha rifiutato tutti i miei sforzi di comunicare. Riattacca se chiamo, non risponde alle mie lettere e non replica ai miei regali. Non mi vuole a casa sua, né accetta i tentativi degli altri familiari di riappacificarci.
Dagli altri so che mia madre si vergogna profondamente di me per nessun altra ragione se non quella di essere una lesbica, costretta dalla coscienza a lavorare per i diritti civili miei e degli altri.
Da sempre è consapevole della mia omosessualità, ma l’averlo dichiarato in un forum pubblico ha fatto sì che anche tutti i suoi amici sapessero, quindi nel suo cuore è accresciuta la vergogna.
Mi vede come una peccatrice agli occhi della sua chiesa e come una cittadina di seconda classe agli occhi del suo governo. Gli insegnamenti dell’una e le leggi dell’altro hanno continuamente rafforzato la vergogna. Non importa ciò che dico o faccio, non importa che cerchi di vivere la mia vita con onore: niente è sufficiente a privarla di quella vergogna.
Mi sento impotente nel cambiare gli insegnamenti della Chiesa Cattolica, ma i cittadini del Maryland possono fare qualcosa in merito alle leggi dello Stato. Credo che la piena accettazione dei cittadini gay e lesbiche da parte del Maryland (compreso il diritto al matrimonio) chiarirebbe che il nostro status non è “meno di”, “inferiore a ” o qualcosa che giustifichi la vergogna.
Forse questo potrebbe cancellare il sentimento che mia madre prova. Forse mi permetterebbe di rientrare nella sua vita nella quale sono stata a lungo, così che possa cercare di prendermi cura di lei nei suoi ultimi anni.
.
Testo originale: Contributors Patricia Montley (PDF)