Sinodo e omosessualità: è possibile una discussione franca?
Articolo di Damiano Migliorini* pubblicato sul blog della rivista cattolica Il Regno il 7 ottobre 2015
Il dibattito culturale circa il riconoscimento delle relazioni d’amore omosessuale, in ambito teologico – sollecitato dalle risposte inviate da alcune conferenze episcopali alle domande del Sinodo[1] e dal referendum irlandese – si sta focalizzando attorno ad alcuni nodi teoretico-terminologici abbastanza precisi. Vorrei dunque cercare di enuclearli e di cogliere, seppur per cenni, le problematiche speculative irrisolte che fanno da sfondo alle decisioni pastorali che l’Assemblea Sinodale si appresta a discutere; provando anche a valutare – proprio a partire da questi nuclei – quali passi possano essere realmente compiuti dal Sinodo.L’invito alla parresia di papa Francesco, del resto, ci spinge a fare questo sforzo, a porci in ascolto in modo nuovo di quelle che – per molti – sono delle relazioni d’amore. Dobbiamo cercare di innestare criticamente questo dato nelle nostre categorie teologiche, e comprendere che tipo di aggiornamento ci richiede, se è attuabile o meno, e che paradigma emergerebbe da questa operazione.
Volendoli elencare in ordine alfabetico, dunque, i principali sono i seguenti:
Amore o amicizia? Il Sinodo dei vescovi dovrà decidere se compiere un passo importante: cominciare a considerare le relazioni omosessuali come una forma d’amore compiuta. Un’analisi scientifica priva di pregiudizi metodologici, epistemici e sociali mostra che l’amore omosessuale può essere una forma di relazione affettiva sana e umanizzante.
L’amore omosessuale non è immaturo, né narcisistico (l’omosessuale non ritira gli investimenti libidici dagli oggetti, bensì ama l’altro nella sua interezza); le persone omosessuali non sono più promiscue o psicologicamente instabili delle persone eterosessuali[2] e le “terapie riparative” si sono rivelate inconsistenti[3].
Vi possono essere delle difficoltà contingenti nella coppia – dovute a fattori ambientali e sociali – che tuttavia non sono determinate dall’omosessualità stessa della persona. Su queste basi, sarebbe possibile chiedere agli omosessuali (perché di fatto in molti già lo vivono, solo chiedono che sia riconosciuto) lo stesso “amore forte” che è richiesto alle persone eterosessuali, fatto di reciprocità, rispetto, fedeltà, donazione, sacrificio, solidarietà (cf. Deus caritas est, n. 6).
Questo non si configurerebbe come un cedimento all’edonismo o all’individualismo, bensì un consolidamento e un’esaltazione del modello cristiano di amore, che non intaccherebbe le radici della famiglia[4] e della società. Si tratta, piuttosto, di riconoscere che il mutuo aiuto di due persone in una coppia d’amore costituisce un prezioso appoggio per la loro vita (Sinodo 2014, Relatio post disceptationem, n. 52), quindi un valore da promuovere. Al contrario, non saper apprezzare questo valore, accomunando ed etichettando come immorali categorie di comportamento molto diverse, potrebbe alla lunga far perdere un po’ di credibilità morale alla Chiesa[5].
Bene possibile: è una nozione importante per la pastorale che richiede un approfondimento. In generale si tratta di capire come rivalutare una situazione di contingente imperfezione morale, e saper quindi proporre un ideale etico tenendo conto della gradualità con cui si arriva alla sua piena realizzazione (che ci consentirebbe di sfumare i giudizi perentori).
Nel caso specifico delle coppie omosessuali, la ricerca del bene possibile si traduce nella definizione di ciò che costituisce il bene proprio (l’ordine proprio[6]) di quello stato di vita innato (e della sua naturalis inclinatio corrispondente[7]). Considerando che: (1) la ricerca di una relazione d’amore nasce dallo sviluppo di un’immagine di sé positiva (è sana autostima, non orgoglio) e quindi è legata al riconoscimento – personale e sociale – e al completamento del proprio valore di persona; (2) difficilmente si può imporre un carisma (quello dell’astinenza perpetua) a milioni di persone indistintamente, perché ciò contraddirebbe l’idea stessa di carisma; considerando tutto ciò si potrebbe sostenere che, pur mancando il fine procreativo, la presenza del fine unitivo costituisce quel bene possibile che rende plausibile l’accettazione dei rapporti omosessuali qualora siano praticati in relazioni caratterizzate dall’amore fedele e oblativo[8].
Alla coppia omosessuale, dunque, potrebbe essere proposto di vivere una forma di castità coniugale[9]. La necessità della presenza del fine unitivo in un atto sessuale è ciò che a pieno titolo rientra nelle norme universali della legge morale naturale, rispettandone le caratteristiche formali. E questa è precisamente la razionalità (oggettività, la forma) dell’amore sessuale umano, anche omosessuale.
Complementarietà: la complementarietà in senso strettamente biologico è fondamentale per la procreazione, ma non sembra una caratteristica indispensabile per l’amore autentico tra due persone, perché l’amore nasce da una ricerca di una forma di complementarietà più ampia, che a volte coincide con quella biologica, altre volte no. Lo schema bipolare uomo-donna è insuperabile e imprescindibile per l’antropologia, ma quanto alla realizzazione di un amore umano integrale, esso sembra essere un caso paradigmatico (sicuramente maggioritario) ma che non può essere assunto a paradigma vincolate per tutti gli individui.
Affermare che l’unità duale biologicamente procreativa sia l’unico vero compimento dell’imago Dei (trinitaria), infatti, rischia di escludere molti altri stati di vita cristiani che – salvo peripezie argomentative – in tale paradigma non rientrano, come quello celibatario, verginale, o delle coppie sterili.
Un amore umano non-fecondo biologicamente, non essendo specchio della fecondità dell’amore intratrinitario, non sarebbe dunque vero amore? Se la risposta è “no”, possiamo ipotizzare un concetto di complementarietà ampio, che vada oltre la complementarietà biologica (senza negarla). Essendo la sessualità un fenomeno anche psichico, essa è in parte determinata dalle relazioni primarie avute nell’infanzia, che a sua volta condizionano il desiderio. Ciò che una persona scopre essere il suo “complemento” (a seconda di com’è strutturata bio-psichicamente la sua sessualità, nel combinato di mascolinità e femminilità che – come caratteristiche psicologiche in senso freudiano – possono sommarsi nell’individuo in modi molto differenti) può essere la persona dello stesso sesso, perché nella ricerca della parte complementare vi è sempre la ricerca – anche nell’omosessuale – di una persona nella sua interezza, somma di caratteristiche fisiche e psicologiche.
Una considerazione complessiva della sessualità umana, allora, potrebbe consentirci di ipotizzare una complementarietà che potremmo definire “personalistica”: la persona cerca il suo completamento in un’altra persona che, per il suo essere unitario di corpo e psiche, corrisponde a ciò che sente essere l’altra metà. Un “complemento” che, pur nella ricerca della persona dello stesso sesso, resta sempre un dialogo con l’assoluta alterità, in una reciprocità che non è mai fusione. Ogni persona, anche se dello stesso sesso, è un infinitamente altro da me, con cui devo instaurare un rapporto di reciprocità che passi per l’accettazione di tale differenza.
Differenza sessuale/alterità: secondo l’«argomento dell’alterità» riconoscere come lecito l’amore omosessuale significherebbe mettere in discussione l’antropologia cristiana circa la differenziazione sessuale, perché l’omosessuale cercherebbe solo ciò che è a sé identico, chiudendosi narcisisticamente su se stesso. Questa posizione sembra difficilmente sostenibile, sia dal punto di vista psicoanalitico che antropologico[10]. È necessario considerare che il riconoscimento dell’alterità sessuale – e di ogni alterità – non passa solo per la dinamica di attrazione sessuale.
Il simbolismo sessuale coniugale eterosessuale presente nel testo biblico è sicuramente paradigmatico, ma non esclude che vi possano essere altre forme di relazione sessuale buone[11].
La sacra Scrittura riconosce l’importanza del riconoscimento dell’alterità, e definisce l’uomo come l’essere capace di relazione e comunione tra alterità; tra queste vi è anche l’alterità sessuale, il riconoscimento della quale è essenziale per la persona, ma che non si palesa solo nel desiderio carnale.
Se le persone omosessuali sono psicologicamente sane, e se dunque l’Edipo è riuscito, si è risolta positivamente anche la relazione della persona omosessuale con l’altro sesso: le persone omosessuali non sono né misogine, né misandrogine.
Anzi, proprio le profondissime relazioni di amicizia delle persone omosessuali con le persone di sesso opposto mostrano come l’accettazione dell’alterità sessuale avvenga in loro in un modo diverso, ma che non la nega affatto: al contrario, queste amicizie mostrano come vi possa essere una relazione uomo-donna straordinaria – complice, di rispetto assoluto – anche laddove manchi l’attrazione sessuale. Da questo punto di vista, il riconoscimento della liceità dell’amore omosessuale è il frutto maturo dell’antropologia personalista cattolica (prima che si infilasse nelle strettoie argomentative dell’unità-duale[12]).
Gender: coloro che denunciano una presunta «teoria del gender» suscitano oggi allarmismi nelle parrocchie e nelle scuole (alludendo a presunte volontà di palingenesi sociale, impropri paragoni con i totalitarismi, funesti complotti gestiti da potenti lobby, apocalissi sociali…). È necessario, in questo caso, avviare un dialogo pacato e scientifico, che sappia cogliere ciò che di positivo c’è nelle teorie del gender[13] (per esempio, l’educazione al rispetto della diversità e la rimozione di stereotipi oppressivi legati ai ruoli di genere o all’orientamento sessuale) denunciando eventualmente se vi sono puntuali criticità, ma senza demonizzare e creare scontri ideologici.
Bisogna, cioè, isolare le posizioni più estreme (come può essere la teoria queer[14], che però è solo una delle più svariate teorie nate dai gender studies) di entrambi gli schieramenti. Questo dialogo servirà innanzitutto a chiarire i termini, poiché troppo spesso si nota una certa confusione nell’uso di concetti come identità di genere (nei suoi diversi aspetti: genetico, biologico e psico-affettivo), questioni legate ai ruoli di genere (stereotipati e discriminatori), omosessualità (che è legata all’orientamento sessuale[15]) e identità sessuale. Le teorie sociologiche e psicologiche del gender non ideologiche sono compatibili con il pensiero e la prassi ecclesiale. Il Sinodo potrebbe fare molto invitando all’approfondimento e al dialogo, contribuendo ad abbassare il livello di scontro ideologico, che si sta rivelando deleterio su ogni fronte.
Nuzialità: se davvero vogliamo intendere la nuzialità (o sponsalità) come categoria fondamentale di ogni aspetto del reale, dovremmo slegarla dal suo riferimento al dato biologico-sessuale: per essere un trascendentale, la nuzialità dovrebbe significare solo l’intrinseca relazionalità umana, a cui si collega la necessità – per ogni uomo – di realizzarsi nell’amore agapico, cioè nel dono gratuito di sé per un altro essere umano.
La nuzialità originaria di ogni uomo dice che «ogni essere umano è una persona comunionale, ontologicamente aperta alla comunione con l’altro, perché ontologicamente dipendente dalla comunione con il suo Creatore»[16]. Non dice che l’essere umano si realizza (o sia fecondo) solo nella coppia, e tantomeno nella sola coppia eterosessuale. Se l’imago Dei è la qualitas comunionale[17], potremmo scoprire che l’eros si fa agape in varie forme di amore sessuale.
Omofobia: questo termine – usato anche dal card. Bagnasco per stigmatizzare un fenomeno sociale intollerabile[18] – indica quell’insieme di rappresentazioni culturali, di credenze, di atteggiamenti e di pratiche sociali che invalidano, sviliscono o aggrediscono le identità e i comportamenti non eterosessuali (processo di esclusione/inclusione, di natura individuale, sociale o culturale). Lo stesso Catechismo invita a evitare alle persone omosessuali ogni marchio di ingiusta discriminazione (n. 2358).
La lotta contro l’omofobia, però, richiederebbe un intervento più attivo, una pastorale impegnata, che si traducesse in incontri formativi nelle parrocchie che aiutino a superare i pregiudizi e i drammi famigliari. Il Sinodo potrebbe invitare a percorrere questa strada: significherebbe educare la comunità cristiana al rispetto (anche e soprattutto linguistico), a stringersi intorno alle vittime dell’omofobia stessa.
Senso unitivo e procreativo (fecondità): secondo certe impostazioni, l’oggettivo ordine del desiderio sembra implicare che l’amor naturalis sia la tendenza al compimento che si realizza nella procreazione. Il desiderio d’infinito che muove nel profondo ogni desiderio umano, inappagabile nella semplice relazione con il partner, si colmerebbe nella procreazione[19].
Queste affermazioni aprono degli interrogativi: chi non procrea sarebbe destinato a non appagare mai il suo desiderio, qualsiasi forma di amore egli tenta di mettere in atto? Se la risposta è “no”, si tratta di ampliare il campo semantico del termine “procreativo”, fino a includere alcune forme di fecondità spirituale implicate dal significato unitivo.
La vita di coppia è già feconda nel suo darsi, perché il dono di sé per l’altro genera valore aggiunto: il noi emerge dall’io-tu come un nuovo ri-creativo stato di vita. Inoltre, se si definisse il senso unitivo come primario[20] – ancorché inscindibile – rispetto a quello procreativo, questo consentirebbe di vedere nei gesti sessuali che esprimono il livello relazionale del rapporto (l’impegno al ‘per sempre’) ed espressi in questo contesto, degli atti leciti, sebbene non potenzialmente procreativi. Sarebbe un approfondimento-aggiornamento dei dettami dell’Humanae Vitae (n. 12) che permetterebbe di superare varie incongruenze dottrinali e pastorali.
Sono tutte ipotesi, ed è difficile che l’attuale Sinodo possa sciogliere così tanti nodi. Di fronte alla complessità della questione – e la sua fluidità in ambito teologico, filosofico, scientifico e morale – questo Sinodo potrebbe però assumere una posizione distensiva e prudenziale, che eviti prese di posizione nette, o anatemi definitori, ma apra piuttosto a un periodo di franca, onesta e profonda (finanche libera) riflessione su questi concetti[21].
Premurandosi d’esortare i fedeli all’accoglienza, al rispetto, alla fratellanza, e indicando l’amore oblativo e fedele come la certezza cristiana di compiere la volontà di Dio in tutte le coppie. In futuro, una volta sciolti i nodi teoretici, si potrà pensare di sviluppare – con l’aiuto dello Spirito – dei modelli giuridici e sacramentali opportuni per il riconoscimento di queste nuove relazioni d’amore.
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* Damiano Migliorini, dottorando all’Università di Verona, autore del libro L’amore omosessuale. Saggi di psicoanalisi, teologia e pastorale. In dialogo per una nuova sintesi, (Cittadella 2014), con Beatrice Brogliato. L’articolo è stato pubblicato in Matrimonio: “In ascolto delle relazioni d’amore”, 40 (2015) 3, settembre, pp.10-17.
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[1] In particolare, il testo della Conferenza episcopale svizzera (http://www.ivescovi.ch/documenti /comunicati/dibattiti-presinodali- in-svizzera) e tedesca (tradotta in http://www.viandanti.org).
[2] Cf. American Psychological Association, Appropriate Therapeutic Responses to Sexual Orientation (2009), in www.apa.org; rimandiamo anche all’analisi da noi compiuta in B. Brogliato – D. Migliorini, L’amore omosessuale. Saggi di psicoanalisi, teologia e pastorale. In dialogo per una nuova sintesi, Cittadella, Assisi 2014.
[3] Cf. P. Rigliano – J. Ciliberto – F. Ferrari, Curare i gay? Oltre l’ideologia riparativa dell’omosessualità, Cortina, Milano 2012. Quanto sarebbe indispensabile e chiarificante una presa di posizione esplicita del Sinodo nel denunciare l’illusorietà di queste terapie!
[4] Personalmente, mi sembra che per affermare lo splendore della coppia uomo-donna, la sua necessità, il suo essere un esempio ineguagliabile d’amore umano, non serva sminuire o declassare altre forme d’amore umano, quasi che tale splendore possa irradiarsi solo a discapito di altri, per antitesi. È uno splendore che le è intrinseco! Affermare che alcuni valori della coppia eterosessuale si possono riscontrare anche altrove, non è sminuirla, ma farla splendere ancor di più nella sua grandezza.
[5] J. Clauge, “I valori morali dell’Europa: segni o ferite della civiltà?”, in Concilium 1 (2008), p. 49.
[6] V. Tombolato, Omosessualità. Un oggettivo disordine morale?, Alberto Brigo, Rovigo 2008.
[7] Cf. A. Vendemiati, San Tommaso e la legge naturale, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2011.
[8] G. Piana, Omosessualità. Una proposta etica, Cittadella, Assisi 2010.
[9] Propongo di intendere la castità coniugale in un senso ampio (si tratta, naturalmente, di una proposta aperta alla discussione): essa si caratterizza per uno sguardo casto – rispettoso, non violento, non predatorio – verso il proprio partner, e per la realizzazione degli atti sessuali all’interno di una relazione fatta di fedeltà, impegno, passione, apertura all’altro, oblatività, dono, fecondità spirituale (l’atto sessuale è un’espressione dell’affettività, la quale è premessa della fecondità spirituale; pertanto, l’atto sessuale può essere considerato un’espressione e un promotore della fecondità spirituale affettiva). Vivere in modo positivo, armonioso e gioioso gli atti sessuali nella coppia, implica la sobrietà, l’ascolto delle esigenze del partner, la continenza periodica, il dominio di sé (su come vivere la sessualità in modo armonioso, credo si possano ricavare spunti interessanti da X. Lacroix, Il corpo di carne. La dimensione etica, estetica e spirituale dell’amore, EDB, Bologna 2005, pp. 34-44 e 100-107). Per un approfondimento degli aspetti concernenti la virtù della castità cf. G. Dianin, Matrimonio, sessualità, fecondità, Messaggero, Padova 2005, pp. 241-259.
[10] Rimandiamo ancora al nostro testo, L’amore omosessuale…, cit., pp. 87-96 (omosessualità e narcisismo), pp. 158-162 (riconoscimento dell’alterità) e pp. 209-220 (antropologia e visione biblica della sessualità).
[11] E. Borghi, Donna e uomo, femmina e maschio, moglie e marito. Per interpretare la vita secondo la Bibbia, Messaggero, Padova 2007, p. 150.
[12] Riscontrabili, ad esempio in A. Scola, Il mistero nuziale. Uomo-donna, Lateran University Press 2005.
[13] Cf. G. Piana, “Sesso o gender. Davvero alternativi?”, in Rocca 8 (2015), pp. 30-32; C. Simonelli, “Dire la differenza senza ideologie”, in Il Regno-Attualità 1 (2015), pp. 53-65; Id., “Teologia, differenza e gender: un dibattito aperto”, in Studia Patavina 62 (2015), pp. 73-88.
[14] “Teoria queer” è un’etichetta provvisoria che utilizziamo per indicare un complesso e variegato insieme di teorie, le quali discendono dal pensiero decostruzionista (di Derrida e Foucault principalmente), elaborate negli ambienti del femminismo americano più radicale, nel quale spicca il pensiero di Judith Butler e di Eve Kosofsky Sedgwick (cf. E. Ruspini, Le identità di genere, Carocci 2009, pp. 58-59). Esse sono accumunate dal tentativo di superare la stessa dicotomia etero\omo: «La cultura queer insiste sul fatto che non esista alcuna specificità rispetto alla sessualità e mira a sviluppare una teoria sessuale che elemini ogni forma di marginalizzazione delle espressioni di sessualità che non si riconoscono nell’etero e omosessualità. L’espressione queer, coniata da Teresa de Lauretis […] sta a indicare ciò che è opposto a quello che comunemente è ritenuto “normale”, “legittimo” […]. Nella teoria queer, questa espressione dunque non ha un riferimento preciso ed è volutamente usata per riferirsi al comportamento sessuale senza attribuirgli alcuna essenza o identità. […] Non riferendosi ad alcuna specifica identità sessuale, la categoria queer è pertanto volutamente trasversale, e comprende indistintamente gay, lesbiche, e ogni altro soggetto sessuale percepito come “perverso”» (V. Tripodi, Filosofia della sessualità, Carocci 2011, pp. 63-64). Tra le opere più significative e sistematiche, ricordiamo: A. Jagose, Queer Theory: an introduction, New York Univ. Press, 1996; D.M. Halperin, Saint Foucault: towards a gay hagiography, Oxford Univ. Press, 1995. Le teorie queer, fluidificando il concetto di identità sessuale e di orientamento sessuale, sono oggetto di critica anche da parte della cultura omosessuale (per una breve discussione critica cf. B. Pickett, “Homosexuality”, in The Stanford Encyclopedia of Philosophy, E.N. Zalta (ed.), 2015.
[15] La persona omosessuale non rifiuta il suo essere biologicamente maschio o femmina (cosa che avviene invece nei transessuali, che in effetti provano un disagio patologico in riferimento al loro essere corporeo, causato probabilmente da fattori genetici e ormonali nelle prime fasi di sviluppo), così come non rifiuta di relazionarsi con la persona di sesso opposto.
[16] A. Scola, Il mistero nuziale, cit., p. 39.
[17] Giovanni Paolo II, citato in A. Scola, Il mistero nuziale, cit., p. 137.
[18] «Educare al rispetto di tutti, alla non discriminazione e al superamento di ogni forma di bullismo e di omofobia, è doveroso, lo abbiamo sempre affermato: rientra nei compiti della scuola» (card. A. Bagnasco, Prolusione, Conferenza Episcopale Italiana 68a Ass. Generale, Roma 18-21 maggio 2015).
[19] A. Scola, Il mistero nuziale, cit., pp. 130-131.
[20] Allentando così, almeno in parte, la morsa di un’ossessione procreativa che non trova fondamento biblico (cf. E. Borghi, Donna e uomo, cit., p. 41).
[21] D. Migliorini, “Sinodo 2015 e omosessualità. È ancora troppo presto?”, in Rocca 9 (2015), pp. 47-48; P. Gamberini, “Coppie omosessuali. Vivere, sentire e pensare da credenti”, in Il Regno-Attualità 2 (2015), pp. 129-136.