Sono donna transgender: “Mi puoi amare come sono?”
Testimonianza n.20 di Salih*, un padre turco con una figlia transgender, tratta da Tell it out (Dillo ad alta voce), libro di testimonianze di genitori con figli LGBT+ di tutta Europa realizzato da ENP – European Network of Parents of LGBTI+ Persons (Rete Europea di Genitori di Persone LGBTI+) con il supporto editoriale della Tenda di Gionata ed il contributo del Consiglio d’Europa, pubblicato nel 2020, pp.37-39, liberamente tradotta da Diana, revisione di Giovanna e Giacomo Tessaro
Ho avuto un maschio dopo due femmine, ero il padre più felice del mondo. Abbiamo lavorato solo per l’istruzione dei nostri figli: corsi, scuole, esami, rapporti scolastici… Era come se avessimo ricominciato da capo la nostra istruzione, ci preparavamo insieme per gli esami, insieme eravamo in ansia, insieme congelavamo per il freddo del mattino. Ci alzavamo prima dell’alba per preparare una buona colazione per i nostri figli. Volevamo le scuole migliori per loro. Mia figlia maggiore entrò alla facoltà di giurisprudenza, e la minore a quella di ingegneria. Eravamo al settimo cielo.
Quando le sorelle lasciarono la casa per l’università, mio figlio aveva appena iniziato le superiori. Ora volevamo passare più tempo con lui. Ero solito aspettarlo in macchina davanti alla scuola perché non si bagnasse, altrimenti mi avrebbe sgridato: “Perché sei rimasto così lontano?”.
Ad un certo punto cominciò a voler andare a piedi sotto la pioggia, faceva di tutto per non incontrare nessuno dei suoi amici mentre eravamo fuori. Avrebbe cambiato strada, se ne avesse incontrato uno.
Per adeguarsi alle regole della scuola doveva tenere i capelli corti, ma diceva sempre che sarebbe stato curioso di vedere come stava coi capelli lunghi e che all’università li avrebbe fatti crescere, come quelli delle sue sorelle. Quando uno dei suoi insegnanti delle superiori insistette dicendo che voleva sempre sedersi vicino alle compagne, pensai: “È naturale, è cresciuto con le sorelle”.
Al termine delle superiori andò alla facoltà di interpretariato di una rinomata università di Istanbul. Avevamo raggiunto il nostro scopo. Finalmente tutti e tre i nostri figli erano all’università, ma il nostro pensiero andava costantemente a loro, perché non erano mai stati fuori Istanbul.
Finché il nostro ultimo figlio non lasciò la casa, non sapevo di essere così attaccato a loro. Ogni mattina mi alzavo con un senso di vuoto. Ogni notte sentivo una pressione al cuore. In tutti quegli anni non avevo mai compreso di essere così emotivo. Durante le vacanze li aspettavamo con ansia.
Cominciai a sospettare qualcosa quando mio figlio, al secondo anno di università, ci telefonò un giorno dicendo: “Papà sento la tua mancanza. Mi annoio molto al dormitorio. Puoi venirmi a prendere? Non voglio stare qui coi miei compagni. Voglio parlarti di una cosa questo fine settimana”.
Era da tanto che non veniva a casa. Quando arrivai alla stazione dell’autobus aveva i capelli lunghi, per la prima volta si era lasciato crescere la barba. Lo ricordo, perché non vedevo l’ora che mia moglie vedesse il nostro bel ragazzo.
Il giorno seguente, dopo la colazione, quando disse: “Papà devo parlarti”, i miei sospetti aumentarono. Di cosa voleva parlare nostro figlio? Cosa poteva dirci nostro figlio, che conoscevamo da così tanti anni, che noi non sapessimo già? Ero preoccupato, e non ero sicuro di voler sentire quello che aveva da dirci.
Finalmente fu il primo a parlare: “Papà, prima voglio spiegarti alcuni termini”. Poi cominciò a spiegarci i termini relativi al mondo LGBTI, che in futuro, quando avremmo frequentato l’associazione LİSTAG, ci sarebbero diventati famigliari.
Lo ascoltai senza dir nulla, e lui continuò a spiegare. Nel frattempo io e mia moglie ci guardavamo negli occhi, e vedevo che aveva i miei stessi dubbi. “Voglio che mi vediate come sono realmente, sono una donna transgender”. Eravamo raggelati, ci guardammo negli occhi, non riuscivamo a parlare. Era impossibile accettarlo, era nostro figlio da vent’anni. “Come mai?” dissi. Nostro figlio ci sfuggì dalle mani: “Ho pensato a molte cose per non turbarvi, ma non volevo lasciarti, papà”. Stavamo tutti piangendo quando disse: “Mi puoi amare come sono? Io vi amo come siete”.
Nella speranza che potesse guarire, andai subito dal dottore, all’insaputa di mio figlio. Ma alla fine imparai che era così dalla nascita, e non c’era niente da curare, perché non era malato. Con la guida di nostro figlio ci rivolgemmo all’associazione LİSTAG, e chiedemmo che cosa potevamo fare e se c’erano altre persone come lui.
Il gruppo CETAD ci sostenne, e su loro suggerimento cominciammo ad andare più spesso a Istanbul per stare coi nostri figli. Lo condividemmo anche con le sorelle. La loro reazione fu uguale alla nostra: “Non può essere. Conosciamo nostro fratello da vent’anni. Una cosa simile è impossibile, lo avremmo notato”. Vedendo che noi genitori stavamo al suo fianco con orgoglio, anche le sorelle, le prime a cui lo abbiamo detto, lo hanno accettato così com’è.
La laurea si avvicinava. Avrei preferito che indossasse i pantaloni, ma preferì indossare un abito femminile, dicendo che era la prima volta. Ma non si trovava a suo agio nei negozi, così provò a casa gli abiti delle sorelle. Poi ne scelse uno, e andò vestito così alla seduta di laurea.
Un giorno uscimmo per andare a Kadikoy. Lui avrebbe incontrato un’amica, e io sarei tornato in città. Stava così bene col rossetto rosso e i lunghi capelli neri. Camminavamo uno a fianco dell’altro senza guardarci. A volte come un padre col figlio, a volte come un padre con la figlia, a volte come un estraneo con un estraneo, ma eravamo sempre uniti col cuore, mai separati. Forse volevamo la stessa cosa, camminare per la strada senza preoccupazioni, respirare naturalmente, senza badare alla gente che ci guardava… Quando arrivammo alla stazione della metro, aumentarono le persone intorno a noi.
Proseguimmo senza badare agli sguardi, ma alla fine il mio bambino, stanco di tutti quegli sguardi, volle rifugiarsi tra le mie braccia. Fino a quel giorno non si era mai rifugiato tra le mie braccia. Si era completamente tramutato in una donna, per me era impossibile accettarlo. Inconsapevolmente tirai indietro il braccio. Mi guardò con occhi smorti, senza dir nulla, e si ritrasse. Lo seguii con gli occhi senza battere ciglio. I suoi lunghi capelli, il corpo snello si muovevano velocemente, e presto sparì nella folla.
Dopo di ciò non ci vedemmo più, tornai nella mia città. In seguito ricevetti un messaggio: “Non hai mai pensato perché tu ti vergogni e io no? Fin dalla mia infanzia hai abusato psicologicamente di me, non hai preso sul serio le mie idee, non mi hai ascoltato… come sono diventato così sicuro, solo coi miei sforzi, giusto? Perché tu sei un padre che vuole che i figli gli obbediscano. Non possono avere le proprie idee. Ogni volta che litigavamo chiedevi sempre a una terza persona: ‘Chi ha ragione?’. Come se tu non sapessi la risposta di quella persona.
“Naturalmente tu sei il capo, naturalmente penseranno che tu hai ragione. Mi dispiace per te… Non so come ti consideri, ma io ho la capacità di superare le tue idee. Tu e i tuoi avvocati avete giocato con la mia fiducia, la mia individualità. Mi hai trasformato nella vergogna della famiglia. D’ora in poi tieniti le tue idee. Se fossi in te anch’io mi vergognerei, ma non per mio figlio, piuttosto perché non lo capisco. Papà, non mi aspetto che tu comprenda i tuoi errori”.
Ho nascosto il messaggio come un segreto per giorni, non l’ho detto nemmeno a mia moglie. Ogni volta che mi veniva in mente leggevo la lettera, ogni volta piangevo, perché avevo imparato da diversi medici e dall’associazione CETAD che mio figlio era nato così, e non c’era niente da fare. Questo messaggio mi ha insegnato molte cose. Un giorno, durante una riunione del LİSTAG, lessi ad alta voce il messaggio. Altre persone conoscevano la storia, non solo io e mio figlio.
Oggi va meglio. Con l’aiuto di LİSTAG e CETAD non siamo più soli. Alla cerimonia di laurea di nostro figlio c’erano solo persone che avevamo incontrato al CETAD, e voglio ringraziarle per il loro supporto. Ora come famiglia stiamo meglio, le sorelle, che all’inizio hanno avuto problemi ad accettarlo, gli hanno comprato una borsa coi trucchi. Camminiamo tutti insieme: mia moglie, le mie figlie ed io. Le scatto una foto, mentre a passi tranquilli e fermi si reca alla stazione della metro.
* Traduzione dal turco in inglese di Arda Enfiyeci, storia tratta da “Gökkuşağından Hikayeler” (Ottobre 2018), raccolta pubblicata da LİSTAG, associazione turca di famiglie di persone LGBTI.
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