Sono il figlio gay di un ex pastore evangelico: “Dio ha liberato le mie emozioni”
Testimonianza di Stefano Demasi raccolta da Paolo, volontario del Progetto Evangelici
É una mattina di fine estate, la vigilia del mio trentasettesimo compleanno. Fa già troppo caldo per essere le 7:30 del mattino. Dopo essermi girato e rigirato più e più volte nel letto in una notte quasi insonne, con la speranza di vincere la sete, mi alzo e mi trascino al frigorifero col desiderio di scolarmi un’intera bottiglia di acqua.
Questa sarà l’ultima mattina che apro il frigo del vecchio Io. Una nuova consapevolezza è vicina, una consapevolezza che mi ha fatto uscire dal frigorifero emotivo in cui ero rimasto rinchiuso per anni e anni e che un giorno di fine estate apro così, senza chiedermi come e perché.
Mi chiamo Stefano, oggi ho 44 anni. Sono nato e cresciuto in una famiglia cristiana evangelica dei fratelli di Milano. Mio padre era stato responsabile (cosiddetto anziano) nelle chiese da noi frequentate per molti anni sin da quando ero piccino. Son quindi cresciuto col ‘timore’ del Signore ma anche con il peso della responsabilità che anche il figlio o figlia di un responsabile di chiesa deve sopportare nella propria condotta in quanto sotto i riflettori, giudicanti, di tutta la comunità.
All’età di 17 anni chiesi il battesimo. All’età di 21 anni mi trasferii in Inghilterra per lavoro in cui maturai a livello personale e a livello spirituale. Iniziavo proprio lì a costruire un individuale e autonomo rapporto con Dio, senza interferenze famigliari e frequentando le chiese protestanti locali.
Fu in questa occasione che osservai, fra le persone, quella vera libertà e personalità cristiana che nelle frequentazioni italiane non avevo mai notato. Per me quello era un elemento importante, perché se quell’amore libero e incondizionato che tanto veniva predicato in Italia era vero, io non lo avevo mai riscontrato pienamente, così come, invece, l’esperienza inglese me lo presentava quotidianamente.
Rientrato in Italia, riprendevo così il mio cammino cristiano fatto di frustrazioni e di sensi di colpa che mi schiacciavano con la consapevolezza che avevo, almeno, la misericordia di Dio a darmi un po’ respiro.
La mia riconosciuta e taciuta omosessualità, sin dal primo anno di scuole superiori, aveva fortificato negli anni quel mio senso di colpa, il quale veniva, a sua volta, nutrito dal contesto giudicante e opprimente in cui stavo crescendo.
Per questo incatenante e schiacciante senso di colpa, avevo represso e congelato per tantissimi anni la mia sfera emozionale. Non volevo farmi scoprire dalla mia famiglia e dalla mia chiesa di provenienza, per la paura del loro giudizio e per non esporli in cattiva luce agli occhi della società. La paura era ormai la sentinella armata del mio frigorifero emotivo in cui ero imprigionato.
Ricordo quegli anni di repressione emotiva con molto dolore, sofferenza e difficoltà, quelle di tanti di noi, per non poter esprimere liberamente ciò che nutriva il mio cuore nei confronti dei ragazzi che incontravo nel mio percorso di vita. La compressione e il congelamento erano ormai diventati insostenibili.
Fino a quando, in quella giornata descritta di fine estate, avevo incontrato l’uomo di cui mi ero innamorato perdutamente.
In assoluto quella era la mia prima volta in cui mi innamoravo di qualcuno, riconoscendo ineluttabilmente il sentimento dell’amore con la A maiuscola.
Finalmente ero uscito dal quel frigorifero emotivo in cui mi ero rinchiuso per anni. Ero io ad aver aperto definitivamente quella maniglia, a scongelare le emozioni grazie all’amore e, una volta fuori, quella sentinella armata non c’era più.
Tuttavia la relazione non era durata a lungo. Arrivava così per me, inevitabilmente, una crisi psicologica, non tanto per il mio ormai ufficializzato coming out, ma per la storia finita. Il dolore dell’abbandono e del non essere amato erano le narrazioni di quel mio crollo.
A ciò si era anche aggiunta una crisi spirituale perché i precetti di fede coi quali ero cresciuto mi si rivoltavano contro. Anche se mi ero innamorato di un uomo e avevo riconosciuto in modo parossistico la mia omosessualità, mi sentivo comunque figlio di Dio, lo stesso di sempre, solo con una consapevolezza in più.
Tali crisi però avevano contribuito anche a una nuova crescita – crisi e crescita in ebraico hanno la stessa radice – la mia nuova relazione col Signore. Era proprio in quel periodo che mi ero messo in contatto con la chiesa valdese perché sapevo della sua accoglienza trasversale nei confronti di tutti gli esseri umani senza distinzione di età, gender, provenienza, status, estrazioni.
Come fosse ieri, ricordo quando il caro pastore Giuseppe Platone, detto Zizzi, mi aveva concesso di incontrarci e conoscerci, accogliendomi come un padre consolatore così come nella parabola del figliol prodigo.
La nuova relazione iniziata con Dio era diventata, ai miei occhi, più reale e consapevole. Quella di prima la vedevo ormai come una forzatura, vittima di quel ‘timore’ del Signore che tanto mi veniva ben predicato nella teoria, ma che in realtà avevo percepito come un vero e proprio timore nei confronti di Dio, della mia famiglia, dei miei fratelli e sorelle. Era la stessa sentinella armata che aveva sorvegliato la cella frigorifera delle mie emozioni per anni.
Da quella crisi in poi cammino con quotidiana, trasparente e vibrante emozione affianco al mio Dio con sentimenti a Lui esplicitati, e non più a me nascosti. Sentimenti fatti di gioia, pianto, rabbia, stupore, perplessità, ecc.; sentimenti che prima conoscevo solo da lontano.
Ora ricerco un reale dialogo con Dio Padre e credo questa sia una delle essenze del credente protestante: mettersi quotidianamente e consapevolmente in discussione davanti al Signore, non dare la relazione per scontato e domandarsi cosa fare per piacerGli nonostante i nostri limiti.
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