Sono mamma di un ragazzo gay. Difficile? Ora sono felice
Testimonianza di Cristina Ferrero* pubblicata* su “Noi, famiglia & Vita”, supplemento mensile del quotidiano Avvenire, del 25 ottobre 2020, pp.16-18
I nostri figli iniziano ad esistere come storie nelle nostre menti prima ancora di essere concepiti. Nella nostra immaginazione inizia una narrazione, che prende forma precisa dal primo momento che li prendiamo in braccio. Pensateci. La prima domanda che si fa alla prima ecografia è: maschio o femmina?
Perché la risposta definisce il ruolo, la persona che sarà il figlio nella sua vita. La sua identità. Crescendo la narrazione del figlio si dipana sul filo delle nostre aspettative: abbiamo in mente come sarà, quello che farà, suonare uno strumento, fare sport, quale liceo è meglio per prepararlo alla facoltà che gli per metterà di fare carriera; la casa della nonna meglio non venderla, che cosi quando si sposa viene a vivere qui sopra.
E poi un giorno arriva qualcosa che cancella tutta questa rassicurante narrazione. Arriva la notizia che il figlio è qualcosa che non avevamo previsto. A me l’avviso è arrivato quando mio figlio aveva 4 mesi.
Mi presento, mi chiamo Cristina, ho 62 anni, e sono la mamma di due gemelli maschi di 30 anni.
La mia storia inizia con un sogno. Un pomeriggio di tanti anni fa, durante un sonnellino da mamma prostrata da due lattanti di 4 mesi, mi sono svegliata di botto con una certezza: Michele è omosessuale.
Non vi saprei ripetere il sogno, comunque non sarebbe importante. Mi sono subito rassicurata: ma che ti salta per la mente, ha pochi mesi, è la stanchezza. Ogni volta che negli anni successivi sentivo parlare di omosessualità però il pensiero del sogno riaffiorava, e io nella mia mente a scacciarlo ancora prima che si materializzasse nella sua interezza: sciò, via, che se no diventa realtà. Una frenetica rimozione.
Fino al giorno, i ragazzi avranno avuto circa 16 anni, in cui curiosando nella cronologia del computer condiviso, scopro l’accesso ad alcuni siti gay. Panico. Quale dei due? E subito dopo la consapevolezza: Cristina, lo sai benissimo quale, e l’hai sempre saputo.
Ecco, ho pensato, era tutto vero. Una tempesta di pensieri mi ha attraversato la mente, ingarbugliati e urlanti: è colpa mia? Ma come farò, ma quanto sarà pesante e doloroso per lui, e io, come farò io a portare avanti e gestire l’immane sua sofferenza, che è già tutto difficile e pesante così.
Corro a sfogarmi da mia sorella, che mi guarda e mi dice: si vedrà, lui è sempre lui, pensa a te stessa. Ed è quello che faticosamente ho iniziato a fare, iniziando da quel giorno un percorso a tappe di dolorosa consapevolezza.
Ma rimaniamo ancora un attimo là, a quel giorno davanti al computer con me che mi sento avviluppare dall’angoscia che toglie il fiato, del perché sia cosi complicato per un genitore accettare una notizia così semplice (mio figlio è gay), e perché vada ad impattare cosi profondamente, tanto da portare alcuni genitori a disconoscere i propri figli
Scoprire che il proprio figlio è omosessuale ce lo rende un alieno, uno sconosciuto. Il manuale del buon genitore, tramandato da generazioni, si rivela tutto d’un tratto inutile. Come è successo a me, che mi sono trovata in una nuova realtà, con un figlio la cui identità mi era sconosciuta: è stato quasi come dovessi partorirlo per la seconda volta.
La narrazione deve cambiare per forza, e non c’è alcuna traccia da cui si possa copiare, ma si deve scrivere giorno per giorno, inglobando nuovi personaggi e le loro dinamiche in una storia sempre nuova.
Un paio di anni dopo, con estremo coraggio il fratello prende su di sè il compito di mettermi al corrente della cosa Eravamo in macchina noi due, ricordo, e lui prendendola da lontano mi dice: “sai mamma, io credo che forse Michele sia gay”.
Ho tirato un gran fiato. Ecco, era arrivato il momento che la cosa diventasse reale davvero, l’ultimo passaggio. Ho risposto: “caro, io lo so da tanto”.
“E cosa ne pensi”, mi ha chiesto. “Non ne penso niente. Lui è perfetto così com’è. E tu, che cosa ne pensi?”. E lui mi ha dato la risposta più bella che potessi desiderare: “che se mio fratello mi era già caro prima, adesso che so che è speciale mi è ancora più prezioso”.
Mi sono messa a piangere, guidando in tangenziale nel traffico, lacrime che hanno sciolto il nodo dell’ultima preoccupazione, quale sarebbe stata le reazione del fratello. Quelle lacrime di sollievo hanno cancellato la fatica di portare quel fardello in solitudine. E ci siamo detti: siamo noi tre, e chi se ne frega del mondo là fuori, guai a chi ce lo tocca il nostro Michele.
Arrivati a casa lo abbraccio da dietro mentre sta mangiando, e gli dico. Michele, so tutto. Lui capisce e mi risponde sorpreso e come infastidito, con l’asciuttezza di quegli anni “ma lo so che lo sai!”. E riprende a mangiare.
La fatica degli anni del liceo è stata immensa, il vedere la sua quotidiana sofferenza di dover vivere uno sdoppimiento: io a essere forte, attingendo a risorse che non pensavo di avere, prima di tutto la mia famiglia, le mie sorelle.
In casa tra noi tre serenità, se ne parlava e si scherzava, fuori il buio. Erano gli anni del berlusconismo rampante, di queste cose non si parlava se non per farci le battute.
Allora ma anche ora, una parola chiave per capire perché per tanti genitori sia cosi doloroso trovarsi a gestire di avere un figlio gay e la parola vergogna. Lo stigma di avere un figlio diverso, in una società che ridicolizza, umilia, mortifica, discrimina chi è gay e colpevolizza i genitori di avere sbagliato qualcosa nella loro educazione, questo stigma è una croce troppo pesante per alcuni da poter sopportare. II clima da allora sta cambiando, ma ancora troppo lentamente
Mio figlio Michele è ormai all’estero da molti anni, attualmente a Berlino, per poter vivere senza paura alla luce del sole quello che è. Il mio è stato un percorso di crescita e di coscienza durante il quale ho trovato che ci siano alcune fasi da superare che sono fondamentali.
La prima e la consapevolezza, per comprendere che non c’è nulla nel proprio figlio che sia sbagliato. La vita non ci pone mai davanti le cose come pensiamo dovrebbero essere, secondo le nostre aspettative, fantasie e desideri. La vita ci porta ciò che è. La distanza che sta tra la visione rigida delle cose come noi vorremmo e come invece sono nella realtà detta la misura dell’infelicità che noi stessi portiamo nella nostra esistenza.
L’altra fase è quella dell’accettazione della realtà per quello che è, che significa rendersi conto che lo sbaglio sta negli occhiali con cui guardiamo il mondo, con le lenti offuscate dal pregiudizio e dalla vergogna dettati da una società che da troppo tempo colpevolizza e discrimina persone per il loro orientamento sessuale.
Coraggio e amore sono le ultime due parole che vi regalo. Ci vuole coraggio ad uscire da schemi imposti, e semplicemente ci vuole tanto amore per cambiare occhiali, e inforcarne un paio che permettano di vedere il proprio figlio come una creatura in cui il divino risplende, nel fulgore della sua bellezza e unicità.
Perché è perfetto così com’è, ed essendo speciale ancora più prezioso.
* Cristina Ferrero è Counsellor professionista e mediatore familiare