Sono un ex prete gay, nonostante tutto, “disperatamente cattolico”
Intervista a Pierre Stutz pubblicata sulla rivista Publik-Forum (Germania), n.15 del 6 agosto 2019, pp.32-33, traduzione di www.finesettimana.org
Farsi sentire o andarsene? Pierre Stutz trova la sua Chiesa talvolta semplicemente terribile. Ma la rabbia rende anche capaci di resistenza. È nato nel 1953 a Hägglingen in Svizzera. È teologo cattolico e autore di successo. È stato ordinato prete nel 1985, è stato soprattutto assistente di gruppi giovanili. Nel 1994 ha fondato con altri un convento aperto per donne e uomini. Nell’estate del 2002 ha lasciato il presbiterato. Vive ad Osnabrück.
Pierre Stutz riflette, lotta e chiede al cielo “se davvero può ancora continuare ad essere membro di questa Chiesa”.
Il 68 mi ha segnato con la passione per la libertà. Che stile di vita da combattente, l’idea di poter cambiare non solo il mondo, ma anche la Chiesa cattolica!
Non meraviglia quindi che negli anni 80 i miei migliori amici e amiche mi chiedessero come potessi farmi ordinare prete. Il mio tentativo di risposta si esprimeva con una promessa: lotterò per una Chiesa cattolica diversa, più aperta, più ecumenica, più ricca di senso. Nel 1985, prima dell’ordinazione, comunicai al mio vescovo per lettera che mi sarei impegnato con tutte le mie forze per l’ordinazione delle donne. Continuo a farlo ancora oggi.
Da prete mi sono ritrovato più volte a fare obiezione di coscienza quando veniva ripetuto ufficialmente che non ci sarebbe mai stato presbiterato femminile. Nel 1994 mi arrabbiai moltissimo quando Giovanni Paolo II ha voluto por fine alla discussione semplicemente con la frase scandalosa: “La Chiesa non ha il potere di concedere alle donne l’ordinazione e tutti i fedeli della Chiesa devono attenersi definitivamente a questa decisione”. Poiché io collaboro volentieri con donne impegnate nella Chiesa e devo molto alla teologia femminista, sono sempre riuscito con fatica a mantenere il mio “tuttavia e a maggior ragione…”
La “Chiesa dal basso” è l’ambiente in cui mi sento “a casa” e in cui sono in cammino con molti alleati. Ma non mi dà pace il disagio di appartenere ad una comunità che richiede violazioni assurde dei diritti umani. Non mi basta più che si ripeta che siamo tutti abitati da una dignità divina, se le donne non possono assumere pari responsabilità, se i divorziati risposati non vengono invitati alla comunione e l’amore tra due donne o tra due uomini viene discriminato come peccato mortale.
Posso continuare ad essere membro di una Chiesa nella quale lo Stato del Vaticano si rifiuta di sottoscrivere la Charta dei diritti umani dell’ONU e la Convenzione europea dei diritti umani, perché la “legge naturale divina” decisamente problematica (e sviluppata da maschi celibi!) deve stare al di sopra dei diritti fondamentali? Quanto ancora voglio continuare a sostenere una Chiesa di maschi non democratica e non disposta a condividere il potere?
“Tua è la tenerezza…”
Non è stato un caso che, dopo l’ordinazione, io abbia lavorato come assistente dei giovani e più tardi come assistente dell’associazione giovanile svizzera. Nella comunità giovanile si è rafforzata in me una libertà interiore nel non usare più determinate parole anche nella celebrazione dell’Eucaristia.
Avevo problemi con espressioni come: “Dio Onnipotente che deve ricevere il nostro sacrificio/la nostra offerta”. Il mantenimento del clericalismo favorisce una lingua liturgica nella quale le persone vengono esortate a sentirsi piccole, a tacere e a piegarsi. Ho cambiato la preghiera insegnata da Gesù per trasformare immagini di Dio che facevano star male: “Madre-Padre nostro… sostienici nella tentazione… tuo è il regno, la potenza e la tenerezza nei secoli. Amen”.
La lingua cambia la nostra mentalità. Usare ogni giorno nella preghiera la parola “tenerezza” invece di “gloria”, non è di poco conto, è essenziale. Ancora oggi mi sento estraneo ad una celebrazione nella quale ci si rivolge all’Eterna/all’Eterno, alla più profonda sorgente di speranza interiore, chiamandolo “Signore”.
In questa parola si concentra una disparità di potere che non ha nulla a che vedere con la prassi liberante dell’amico di Nazaret. Le crociate spaventose, i roghi delle streghe, le guerre di religione non avrebbero mai potuto aver luogo se le parole “Io sono colui che sono” (Es. 3,14), così vicine agli esseri umani, avessero avuto su di noi la loro efficacia.
“A 38 anni è subentrato il burn-out”
Nel 1966 il gesuita Karl Rahner scriveva: “Il devoto di domani sarà un mistico, uno che ha “vissuto” qualcosa, oppure non sarà mai tale…”. La mia esistenza si nutre quotidianamente di radici mistiche, perché in esse scompare la separazione e la concorrenza tra Dio e l’uomo. Ben prima che noi cerchiamo Dio, lui/lei cerca noi, feriti e abbattuti e ci dà forza nel quotidiano.
Nel mio burn-out durato due anni, ho incontrato sorgenti mistiche che hanno trasformato la mia vita. Mi hanno liberato e mi hanno permesso di essere me stesso, calmo e combattivo. Sono molto riconoscente a Dorothee Sölle e a Jörg Zink che hanno riabilitato anche nella tradizione evangelica la mistica come forma impegnata di vita e di pensiero.
Mistica e resistenza sono inseparabili. Noi abbiamo bisogno di celebrazioni della vita nelle quali tutto ciò che muove la nostra vita: la nostra nostalgia, la nostra disperazione, il nostro erotismo, la nostra economia, il nostro legame con la creazione, la nostra forza, la nostra fragilità e il nostro morire, venga intuito, pensato, immaginato in un più grande insieme. Il respiro di salvezza di Dio è già sempre in ognuna e ognuno di noi. È giunto il momento per questo cambiamento di mentalità, ricordandoci regolarmente, prima di compiere ogni opera, di essere abitati da una grande benedizione.
“In tutti gli anni ho sperato”
Vicinanza e distanza, riso e pianto, conflitti e disponibilità alla riconciliazione fanno parte di un amore nel quale gli uomini possono sentire sicurezza e libertà. Ho impiegato molto tempo per arrivare a poter dire, a 49 anni, che desideravo amare un uomo e che potevo lasciarmi amare da lui, perché Dio mi ha formato con questo dono.
Nel 2002 ho lasciato il presbiterato, nel 2003 ho conosciuto il mio compagno e nel 2018 ci siamo sposati all’ufficio di stato civile di Osnabrück. “Il cielo ci ha fatti incontrare…”, così comincia la nostra promessa di matrimonio… Come cristiano ecumenico, per questa speranza che nel nostro amore si esprima l’amore di Dio, non ho altra parola che “sacramento”.
Perciò continuo a provare dolore e rabbia per tutte le dichiarazioni discriminanti che arrivano dal Vaticano. È terribile che una gerarchia ecclesiale si arroghi il diritto di escludere delle persone che si amano.
Il nostro matrimonio sarebbe una minaccia per il valore del matrimonio e della famiglia? Ma come? Noi due cerchiamo di vivere valori come riconoscenza, amore, desiderio, fedeltà e responsabilità. Provo grande collera, ma una collera che mi guarisce, per il fatto che quella comunità per la quale mi sono impegnato per decenni voglia togliere dignità al nostro amore.
In tutti questi anni ho sperato con pazienza e perseveranza che attraverso tanti piccoli passi si aprissero possibilità di riforma. Ora ne dubito sempre di più. E nonostante tutto continuo a non essere disposto a lasciare la tradizione cattolica a tutti quelli che vogliono vivere in maniera limitante ed escludente. Perché non dimentico di quanta capacità di crescita in autonomia e di quanta solidarietà ho potuto fare esperienza nel lavoro con i giovani, nei gruppi di lavoro ecumenici, in ordini religiosi credibili, gesuiti, francescani, benedettini, in comunità parrocchiali impegnate, nella Caritas e nella pastorale per adulti.
Però talvolta mi chiedo quanto ancora potrò restare membro di una comunità nella quale, anche dopo tutti quei crudeli scandali degli abusi, non si vede ancora nessuna volontà di vera, profonda riforma. È ora di alzarsi in piedi, di protestare, come fanno le teologhe e i teologi svizzeri nel loro appello “Ne abbiamo abbastanza!” (“Wir haben es satt!”). È ora di scioperare, come (hanno fatto) diecimila donne in Germania nella campagna “Maria 2.0”. Sì, è proprio ora!
In tutte queste azioni di protesta voglio mantenere un atteggiamento di comunicazione nonviolento ed evitare di creare immagini di nemici o di capri espiatori. Affinché la mia frustrazione non venga alimentata, cerco di interiorizzare che, anche come oppositore nella Chiesa cattolica, non voglio dimenticare quanti si alzano in piedi, in un certo senso risorgono, per chiedere riforme che diventano sempre più necessarie nella Chiesa e per difendere i diritti umani.
Rimango volentieri appassionatamente cristiano.
Nella mia vita si sono dimostrate vere le parole di Meister Eckhart: “Gli esseri umani sbagliano quando dicono che l’incarnazione di Dio è avvenuta solo a Betlemme. Essa avviene anche in te adesso”.
Testo originale: Status: »Verzweifelt katholisch«