Sono una persona gay invisibile ferita, non da una pallottola, ma dalle vostre parole
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L’intervento di Massimo di Verona (che ringrazio di cuore per le belle parole e che abbraccio per la sua sensibilità) rappresenta, dopo quello di un’altra cara amica, un ulteriore invito a raccontarmi. Sapere che dal vissuto di qualcuno può ricavarsi un’indicazione per il futuro, magari a non ripetere gli stessi errori, è per me motivo di incoraggiamento.
Condivido la percezione di quei decenni (’70, ’80) come di un periodo estremamente positivo, in quanto cominciava a farsi strada la lotta per i diritti civili; ma, al contempo, terribilmente ancorato al passato. Quarant’anni fa in un piccolo centro di provincia, per un adolescente, scoprirsi diverso – nell’assenza dei mezzi di contatto che internet ci ha regalato – voleva soprattutto dire scoprirsi inesorabilmente solo. Solo e perciò malato; mostruoso.
Ne trovo traccia, seppure in altro contesto (la ben più liberale west coast americana), nel bel libro di Piergiorgio Paterlini (“Il mio amore non può farti male – Vita (e morte) di Harvey Milk) che mi auguro tutti i ragazzi e i giovani, omosessuali e non, possano leggere come antidoto alla violenza e sostegno ad un percorso di crescita e piena accettazione.
Molti spunti mi hanno ricordato la mia lontana giovinezza. Uno, in particolare, ha trovato un riscontro quasi fisico in un breve racconto che ho ritrovato in una vecchia agenda.
Al termine del monologo, l’autore mette in bocca a Harvey Milk un auspicio: che nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nelle associazioni; laddove insomma ciascuno ha bisogno di essere se stesso, si abbia riguardo e rispetto per coloro che, pur non visibili, scontano una diversa natura. Il non farlo, significa per molti essere uccisi. Non da una pallottola, ma da una parola, da un silenzio, da un gesto…
Vengo al dunque. Ero un giovane che aveva da poco iniziato l’attività lavorativa. Due colleghi sposati, poco più grandi di me, mi avevano invitato una sera a cena a casa loro, durante il periodo natalizio. Vi trovai altre coppie, alcune delle quali già conoscevo.
Durante la cena il discorso cadde sugli omosessuali, in rimando – mi pare – ad una notizia che i quotidiani avevano passato quel giorno circa il tentativo di suicidio di un giovane gay.
La conversazione, non ricordo il motivo, si attardò su questo tema.
La sintesi dello scambio di idee tra quei commensali che pure avevano un buon livello intellettuale è presto detta: “Non abbiamo nulla contro gli omosessuali e siamo ben pronti a tollerarli; basta che stiano a debita distanza e soprattutto evitino di rendersi visibili o di ostentarsi in imbarazzanti quanto inutili confessioni. Forse noi etero sentiamo il bisogno di fare analoga esibizione?” La sintetica conclusione fa ovviamente grazia dei luoghi comuni, più o meno grevi, dei quali la discussione fu costellata.
Come dicevo, all’epoca, gli inizi degli anni 80, non vi era ancora stata quella crescita di sensibilità e attenzione che il mondo LGBT ha saputo far maturare, grazie anche all’iniziativa di genitori capaci di anteporre l’amore per i propri figli al pregiudizio e alla condanna; né vi era, in pubblico, quella parvenza di ritegno oggi imposta dal “politicamente corretto”, buono ad infarcire di ipocrisie e frasi fatte tante delle affermazioni correnti.
Fatto sta che, tornato a casa, non riuscii a prendere sonno e, per sopire l’angoscia, mi misi a scrivere, per affidare alla carta quello che avevo provato durante la cena e come mi ero sentito. Il racconto che segue è il frutto di quella lontana veglia.
Lo scritto ritrovato: Sazio e disperato (Dicembre 1983)
L’immagine riaffiora alla memoria per la reminiscenza di una lontana lettura infantile: forse un racconto di Dickens o di qualche autore di sdolcinate storie per l’infanzia.
Vi si narrava, così almeno ricordo, di una coppia di coniugi dell’alta società londinese che, ogni anno, la sera di Natale (ovviamente…) era solita invitare a cena un clochard, un barbone, individuato a caso tra quelli rannicchiati sotto qualche monumento della città che offrisse la parvenza di un riparo e accompagnato personalmente dai due, con l’elegante landò, nella loro agiata dimora.
Il racconto – non lo ricordo bene, ma ne sono certo – doveva essere assai prodigo nel descrivere il fasto della casa che stava per accogliere il barbone, l’eleganza del tovagliato e delle suppellettili, il buon gusto dei due protagonisti, belli, giovani, colti comme il faut, non foss’altro che per fare da antistrofe alla miseria dell’ospite e, quindi, dare ancor più risalto al loro provvido gesto.
Dovevano essere messi in luce, inoltre, l’educato dissenso della servitù e la risoluta benevolenza dei due coniugi, ormai esperti nel destreggiarsi tra gli imperativi dettati loro dalla propria moralità al minuto.
Del resto, in quella sera particolare, ci si poteva spingere fino a servire a tavola il singolare ospite, gareggiando in efficienza con i domestici.
I due avrebbero cenato più tardi, con gli amici che presto sarebbero arrivati.
Avvertivano forse inconsciamente, i padroni di casa, che porsi al servizio di un povero era un atto di umiltà più che sufficiente per lenire ogni scrupolo. Mettersi addirittura alla pari con lui e condividere la sua cena, sedendo alla stessa tavola, sarebbe stato un vero e proprio atto di eroismo.
Ho invece qualche dubbio sullo spazio concesso dall’autore alla figura del barbone o, meglio, alle sue reazioni.
Forse era stato fortunato, perché ottenebrato dall’alcol ed incapace di dare un giusto significato alla sua avventura di una sera che, ai suoi occhi intorpiditi, assumeva la stessa evanescente inconsistenza di un sogno.
Magari dopo essersi sfamato, si era addormentato a tavola – la testa fra le braccia – sotto lo sguardo paziente e soddisfatto dei padroni di casa.
Ma forse, invece, quel giorno, la sorte non era stata così benevola con lui. Di soldi per bere, nemmeno a parlarne. La vigilia della festa, del resto, scoraggiava un furto nei negozi troppo pieni di avventori e frequentati dai Bobbies di ronda e rendeva inutile la ricerca nei bidoni dell’immondizia ancora vuoti di rifiuti.
Se almeno quei due non fossero passati, il freddo avrebbe finito per intorpidire ogni funzione ed allontanare ogni pensiero. E allora perché aveva accettato? Sorpresa, solitudine o, più semplicemente, fame. È difficile essere santi se non si è anche bevitori.
Ma è ancor più difficile, da sobri, accettare un gesto che, col pretesto di aiutarci, ci ricaccia ancora di più nel nostro ghetto, nella nostra miseria, dandocene in aggiunta quella consapevolezza che avevamo cercato di ottundere.
Non c’è dubbio che il nostro barbone, dopo aver mangiato con la rabbia dell’astinenza ed aver ripulito i piatti con l’accorta pignoleria della previdenza, sotto lo sguardo soddisfatto dei padroni di casa e il celato dissenso della servitù benpensante, avrà alzato gli occhi dalla tavola.
Sazio e disperato.
Il primo impulso – certo nessuno scrittore per l’infanzia avrebbe potuto rilevarlo con precisione – sarà stato di fare violenza a sé, agli altri, alle cose. Oppure quello di mettersi a urlare: frasi senza senso; suoni incomprensibili; grida inconsulte, per vomitare, senza farla intendere a chi se ne mostrava incapace – non avendola finora compresa – l’angoscia della propria dignità ferita.
Ma gli occhi benevoli e dignitosi dei due signori, belli, intelligenti, giusti, l’avranno senz’altro trattenuto.
E l’avrà senz’altro riscosso da qualche pensiero troppo inopportuno l’educato colpetto di tosse con il quale si annunciava, da parte della servitù, che il pranzo era terminato ed era ora di sparecchiare la tavola; occorreva far presto: nella sala attigua, si stavano preparando i veri festeggiamenti.
Nemmeno era riuscito a rispondere al gesto di saluto dei padroni di casa o ad opporre un ringraziamento di fronte ai soldi che, nell’accomiatarlo, gli venivano offerti.
Il pensiero andava ormai alla notte inoltrata ed al giorno di festa che domani l’attendeva e dal quale, ora più che mai, sperava che il torpore del freddo l’avrebbe allontanato per sempre.