Sono una rabbina lesbica che lavora per il cambiamento in Israele
Articolo di Judy Maltz pubblicato sul quotidiano HaAretz (Israele) il 24 febbraio 2015, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Noa Sattath pareva destinata a una carriera nel campo dell’hi-tech. Ma tutto cambiò quando, dopo aver terminato il servizio militare, disse agli amici e alla famiglia di essere omosessuale. “Venivo dal settore privilegiato della società israeliana e l’atto del coming out costituì una connessione con l’intera questione dei diritti delle minoranze. Mi fece capire che il mio futuro era il cambiamento della società.”
Oggi, quindici anni dopo, Sattath è al suo quinto anno di direttrice del Israel Religious Action Center (Centro di Azione Religiosa di Israele, IRAC), la branca del movimento ebraico riformato israeliano che si occupa delle cause sociali. Pur essendo ufficialmente affiliato solamente con i riformati, l’IRAC si considera rappresentativo di tutte le correnti del giudaismo non ortodosso nella comune lotta per il pieno riconoscimento in Israele.
La sua carriera di attivista sociale è però cominciata in un’altra arena. Nel 2006 Sattath venne nominata direttrice esecutiva della Jerusalem Open House (Casa Aperta di Gerusalemme), il primo centro comunitario LGBT nella capitale, nel quale era attiva fin dal suo coming out. È probabilmente uno dei pochi posti sulla Terra, come dice lei, dove lesbiche palestinesi e omosessuali ultraortodossi possono incontrarsi sotto lo stesso tetto.
Sattath ricevette il primo riconoscimento pubblico come attivista sociale in quanto organizzatrice del primo Gay Pride di Gerusalemme. Ma dopo aver diretto il centro per due anni decise di voler fare un passo avanti. “Per me era importante guardare la giustizia sociale da un punto di vista più ampio e sentivo che questo punto di vista erano le relazioni tra Israeliani e Palestinesi.” Così divenne direttrice esecutiva di MEET, un’organizzazione che promuove la coesistenza facendo incontrare studenti israeliani e palestinesi che eccellono nelle materie scientifiche. Ed ecco che durante i suoi incontri con i giovani di ambedue le parti in conflitto comprese quale sarebbe stata la sua prossima vocazione: la scuola rabbinica.
Lo scorso novembre Sattath ha ricevuto l’ordinazione a rabbino riformato assieme a un’altra manciata di persone. Oggi è uno dei circa cento rabbini riformati attivi nel paese, circa la metà dei quali sono donne. Tra le donne, circa cinque sono apertamente omosessuali. “Quello che ho imparato dal mio lavoro con i giovani israeliani e palestinesi è che i Palestinesi hanno una narrazione molto più forte e un senso di identità religiosa e politica molto più grande” dice Sattath spiegando cosa le fece prendere la decisione di diventare rabbino.
“Gli Israeliani sono capaci di articolare ben poco sulla loro identità, Olocausto a parte, e credo che questo vuoto abbia un profondo effetto sul modo in cui vediamo noi stessi. Nella scuola rabbinica ho voluto cercare un “livello di comfort” giudaico che mi permettesse di pensare in maniera più creativa alle questioni di giustizia sociale da un punto di vista giudaico. Ed ecco anche perché lavoro per l’IRAC.”
I suoi genitori fortemente laici hanno avuto difficoltà a capire cosa la attirasse della religione (“Molto più difficile di ogni altra cosa che ho fatto”). Ma non era la prima volta che dovevano rendersi conto dei suoi particolari bisogni spirituali. “All’età di 17 anni divenni un’ebrea osservante. Ma dopo il mio coming out mi sentii fuori posto nel mondo ortodosso.”
Il suo modesto ufficio all’Hebrew Union College di Gerusalemme è tutto ingombro di foto, poster e pamphlet. Siede vicino alla donna che considera la sua eroina: Anat Hoffman, rappresentante delle Donne del Muro, il gruppo femminista multidenominazionale che negli ultimi anni ha attirato l’attenzione del mondo per la sua lotta mirante a permettere alle donne di pregare a loro piacimento al Muro del Pianto.
In quanto direttrice esecutiva dell’IRAC, Hoffman è anche ufficialmente il capo di Sattath. “Sì, so di essere il suo capo, ma non me ne sono mai accorta, fin da quando è arrivata qui per la prima volta: è lei che comanda tutti noi” scherza Hoffman. Nata e cresciuta a Gerusalemme, Sattath parla un inglese fluente, con pochissimo accento. “Tutto grazie alla TV” dice mostrando i denti in un gran sorriso. Ha lavorato nei servizi segreti militari poi, per alcuni anni, come team leader in una ditta di software di Gerusalemme. Nel frattempo si è laureata in storia e relazioni internazionali all’Università Ebraica di Gerusalemme.
Vestita in maniera assolutamente casual, l’occhialuta trentasettenne porta i lunghi capelli mossi scriminati al centro, un po’ come i figli dei fiori. Capisci subito però che nessuno dei suoi altisonanti titoli le interessa tanto come quello, nuovo, di mamma. Vuole sapere se non ho nulla in contrario a guardare alcuni adorabili video delle sue gemelline di un anno. Quando le dico di sì, Sattath subito tira fuori il cellulare. “Non è la risata più fantastica mai sentita?” chiede mentre una delle frugolette ridacchia tutta beata. Sattath e la sua compagna Natta, una massaggiatrice shiatsu, si sono sposate tre anni fa. Vivono a Gerusalemme con le loro gemelle e un altro bambino, frutto di una precedente relazione di Netta.
Il più grande asso nella manica di Sattath, dice chi ha lavorato a lungo con lei, è il suo stile manageriale, avulso dai toni minacciosi eppure molto efficiente. “Negli anni ho lavorato con molti amministratori, ma nessuno si avvicina a lei. Noa non sa cucinare, non sa disegnare, non sa fare giardinaggio e non ha talento musicale. Ma non sapevo che il management potesse essere creativo fino a che non l’ho incontrata” dice Hoffman.
Il rabbino Rick Jacobs, presidente dell’Unione per il Giudaismo Riformato, ricorda una recente visita fatta con Sattath all’ospedale dell’Università Hadassah di Gerusalemme a un ragazzo palestinese picchiato selvaggiamente da teppisti ebrei. “Sattath entrò e mise tutti a proprio agio. È il tipo di persona che in momenti come questi ha chiaro in testa cosa va fatto.”
L’IRAC, che si occupa di cause sociali in nome del giudaismo progressista, si impegna nella lotta per strappare il controllo dei matrimoni, dei divorzi e delle conversioni dalle mani dell’establishment religioso ortodosso. Di recente si è impegnato anche nella lotta alla segregazione dei sessi negli spazi pubblici. Ma l’organizzazione sta progettando di ridefinire le sue priorità nei prossimi anni, dice Sattath, concentrandosi in particolare su una causa che di solito non viene associata alla religione: il razzismo. “Nel nostro prossimo piano triennale devolveremo il 40% delle nostre risorse a una campagna speciale mirata a combattere il razzismo in Israele, soprattutto quello diretto contro gli Arabi.” Cosa c’entra con il giudaismo?
“Spesso vediamo rabbini ortodossi che manipolano i testi giudaici per giustificare atti di razzismo” risponde, precisando che l’obiettivo della nuova campagna sarà la riappropriazione dei testi giudaici classici e il loro utilizzo per la promozione di una società israeliana condivisa. La campagna comprenderà delle storie che vengono dagli ospedali israeliani, per dimostrare la fattibilità della coesistenza tra Ebrei ed Arabi.
Nonostante sia stata ordinata di recente, Sattath dice di non avere intenzione di prendersi carico di una congregazione. “Non avrei la pazienza di fare quel tipo di lavoro” ammette. “Il lavoro che sto facendo adesso è perfetto per me e davvero bashert” aggiunge utilizzando il termine yiddish per “scritto nel destino”. Considerando la crescente tendenza al razzismo nella società israeliana, si lascia forse andare alla disperazione? “Se non pensassi che c’è speranza non farei questo lavoro.”
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Testo originale: Meet the lesbian rabbi about to lead a crusade against racism in Israel