Speranza, dono di un volto che splende in noi
Meditazione a cura di Piotr per il ciclo di incontri Skype del Progetto Giovani Cristiani LGBT “La speranza che è in voi“, tenuto Giovedì 27 Febbraio 2020.
Carissimi, grazie per questa serata che ci doniamo insieme all’insegna della speranza cristiana. Avete scelto me per inaugurare i vostri incontri e quindi vi introdurrò soprattutto al versetto che dà il titolo a questa serie di appuntamenti quaresimali: «La speranza che è in noi».
È tratto dalla Prima Lettera di Pietro; anche se probabilmente non è stato proprio Pietro in persona a scriverla, ma a qualcuno che a lui si richiamava. Sono state proposte varie suddivisioni di questo testo, tuttavia il versetto 15 del capitolo 3 che avete proposto per la meditazione è centrale non solo a livello strutturale, ma proprio per comprendere l’intera epistola, che parla di tre temi: l’esistenza battesimale del cristiano; la testimonianza di vita rinnovata del cristiano immerso nel mondo con i suoi problemi; la speranza cristiana. Veniamo al brano, che vorrei leggere nel suo contesto, dal versetto 13 al 17.
Il 15 sta incastonato al centro, in una disposizione concentrica e chiastica, cioè incrociata come una “X”, come uno scrigno per dare importanza al cuore, che è la speranza.
13 E chi potrà farvi del male, se sarete ferventi nel bene?
14 Se poi doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non sgomentatevi per paura di loro e non turbatevi,
15 ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi.
16 Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo.
17 Se questa infatti è la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male
Siamo quindi in un tempo di persecuzione, di ingiuste sofferenze; il versetto è incastonato in questo discorso, in cui fede e speranza si intrecciano, non sono nettamente separate in modo astratto. Se San Paolo predilige il lessico della fede (senza trascurare ovviamente l’amore che è nondimeno il fulcro di tutto) questo testo ruota attorno al lessico della speranza.
Già Papa Benedetto XVI aveva sottolineato l’interscambiabilità tra fede e speranza cristiana. La speranza, per l’autore del versetto che meditiamo oggi, ha finalmente una base solida: è veramente affidabile e ne abbiamo un segno concreto che agisce in questa direzione.
Il battesimo da noi ricevuto è «invocazione a Dio» e «caparra della nostra eredità», come dice Paolo a proposito del dono dello Spirito Santo (Ef 1,13-14). Ecco perché la fede in quel battesimo – cioè essere uniti a Cristo, morto e risorto – è la base affidabile per la nostra speranza: è la sostanza, il fondamento, l’assaggio di una vita talmente vera che ha il gusto buono del “per sempre”, mentre il resto fugge.
Sapere che ciò che veramente importa del tempo passato era proprio per noi e che, conseguentemente, esiste anche un tempo futuro donato per noi – anche se non lo conosciamo nei dettagli, sappiamo che anche il futuro sarà amato da Dio che ci dona ogni respiro, ogni sospiro, ogni desiderio – ci permette di vivere anche intensamente il presente come dono.
Quindi in questo modo l’attimo presente può essere vissuto con fiducia; diventa un tempo aperto, vivibile, fiducioso perché innervato del senso, della ragione che non delude, che già è attivo in chi ha un’esistenza pasquale.
Ecco la prima caratteristica della speranza: è un dono. Il fatto che la speranza sia dono significa che non è nostra proprietà, non ce la diamo da soli, non è questione di psicologia motivazionale del “ce la devi fare”, “fatti coraggio”. Il versetto dice che è già «in noi» la speranza, in mezzo a noi, ma pure dentro di noi, perché qualcuno ce l’ha regalata gratuitamente.
La speranza è viva: siamo stati «rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva» (1Pt 1,3). Dire “rigenerati” significa “nati nuovamente”, e quella seconda nascita è il nostro battesimo: è la nostra nascita secondo lo Spirito, che ci ha legato indissolubilmente al bene.
Si parla di “viva speranza” perché è speranza nel Dio della vita, che dona la vita, ma anche perché è una speranza vivace e vivificata, come una fiamma continuamente alimentata, una speranza fervida, che non delude; ed è una speranza che, bruciando ogni paura, conforma l’intera vita, la quale diventa una vita di speranza.
Non è un ottimismo vago o un’aspettativa come le tante che poi vengono deluse, bensì il desiderio di una persona che sappiamo ha già mantenuto tutte le sue promesse (fiducia nel suo agire passato) e quindi abbiamo la ragionevole aspettativa che le manterrà (fiducia nel suo agire futuro) che permette a noi di amare nella libertà, fiduciosi che aprendoci all’altro viviamo già quella realtà in atto. Sperare è confidare, affidarsi, abbandonarsi; qui si anticipa ciò che si spera ma soprattutto si vive già la relazione con Dio.
La seconda caratteristica è che ha un volto: Gesù. Se il mondo ha paura perché fatica a identificare la speranza in qualcosa di tangibile, e al massimo si fa forza con un ingenuo ottimismo superficiale, la speranza cristiana è concreta, è visibile, può essere incontrata: è Cristo stesso. Come dice San Paolo ai Colossesi: «Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo ai pagani, cioè Cristo in voi, speranza della gloria» (Col 1,27). È quindi una speranza solida, ragionevole, fondata sulla ragione (lógos) della storia che passa attraverso la concretezza del male: non è un capriccio, né una pia intenzione, né un auspicio irrazionale sulle nuvole, tanto per farci coraggio, ma è una persona in carne ed ossa. Nel nostro cuore abita il desiderio di una persona viva, da accarezzare, da abbracciare, da baciare. Penso che tutti noi lo abbiamo sperimentato.
La terza caratteristica è che la speranza risplende nel momento opportuno e nel modo opportuno, conforme al suo contenuto, cristico: è Gesù nella sua forma e nella sua sostanza. Viene fatta conoscere; si parla di lasciar trasparire una «risposta», in greco apologia, non tanto nell’accezione di “arringa di difesa”, quanto di ragione (lógos) che esce fuori, che si fa evidente a tutti, perché coerente dentro e fuori. Anche e soprattutto quando siamo esposti a conflitti, in cui tocchiamo la realtà del male della storia incontrato nella nostra carne che soffre. Conformarsi a Cristo significa appunto quell’«adorare il Signore», letteralmente “santificare”, far risplendere la sua gloria – che è la sua misericordia – nel nostro atteggiamento.
Infatti abbiamo la libertà e la responsabilità, quando purtroppo siamo in un momento difficile, di non darla vinta al male dimenticandoci di quanto Dio ci ama, ma di mostrare che quel male che gli altri ci infliggono in fondo non ci limita: anche nell’essere oppressi scopriamo di partecipare al soffrire di Cristo e quindi ci troviamo ancora più ragionevolmente in attesa della sua resurrezione. Sulla certezza della Resurrezione, quindi, si fonda la speranza.
Una speranza viva. Questo permette di liberarci dal vittimismo lagnante, vendicativo o rivendicativo; ma anche dal dolorismo intimistico chiuso in sé e dall’ottimismo da “bacchetta magica” che “cancella ogni mal pensiero”. La nostra speranza si forgia al contrario a partire dal male, dall’ostilità, dalla disperazione; nasce nelle lacrime, che sono mischiate con l’acqua del nostro battesimo e con quella che esce, assieme al sangue, dal costato di Gesù, a partire dal quale viene irrigata la Chiesa.
La speranza è quindi oppure occasione di testimonianza collettiva. Si parla di una testimonianza non arrogante, bensì di mitezza, dolcezza, rispetto: è un lasciar agire il male fino a quando non si sgonfia da solo, perché va a sbattere contro un muro di gomma. Una comunità che ama concretamente testimonia l’agire di Cristo al suo interno; quindi se possiamo amare è perché siamo noi la speranza, perché la viviamo fondata nel passato di cui facciamo memoria e ancorata al contempo nel futuro che ci è assicurato.
La certezza di questa lettera è che chi soffre non è mai da solo; anzi, è con Gesù e con la Chiesa tutta. La sua sofferenza permette ancora più radicalmente di rinunciare al male, perché Cristo in persona, nella storia, ha vinto «una volta per sempre» il peccato, è sceso radicalmente agli inferi, ha raggiunto con la sua giustizia chi era lontano dal bene, è morto proprio per gli ingiusti, per i lontani, per annunciare la buona notizia della libertà a chi era incatenato dalla paura. Cristo è entrato nelle pieghe più oscure della storia, sin dalle origini, sin dalle generazioni passate, sin dalle nostre catene più remote – l’inferno più inferiore dell’esistenza – che ancora ci condizionano, perché ci invitano alla diffidenza e quindi non ci consentono di amare.
Di questa vittoria siamo stati fatti partecipi grazie al dono del battesimo, che è prefigurazione della realtà dei risorti, che sono coloro che si sono coinvolti e, abbracciati a Cristo, lasciano risplendere la gloria di Dio nell’amore reciproco. Così tutti, persino chi ci vuole male e chi ci fa del male, ci perseguita, ci rifiuta radicalmente e quindi rifiuta radicalmente Dio, può essere raggiunto dalla testimonianza autoevidente che splendiamo in Cristo, nostra speranza, nostra gioia, nostra pace.
Questo è il significato del versetto che «il volto del Signore è “epi” [= contro, ma anche sopra, cioè supera, è sovrabbondante] verso coloro che fanno il male» (1Pt 3,12). Non c’è bisogno di chissà quali proclami, basta offrire nell’amore quelle nostre oscurità in cui la luce di Dio può rifulgere. Non diamo occasione ai desideri di vendetta, di ripicca, di risentimento di rubarci la speranza. Lo dice sempre anche papa Francesco: «Non lasciamoci rubare la speranza!». Se viviamo conformemente a questa concreta speranza, possiamo essere sì perseguitati, ma il fatto di essere discriminati senza motivo – anziché facendo il male, che può essere usato come pretesto di noi e la nostra fede – ci rende ancor più consapevoli di essere in Cristo.
Cristo non ci può essere tolto, perché noi siamo suoi, gli apparteniamo e siamo partecipi della sua stessa vita, sin dal Battesimo che ci ha unito così intimamente a lui, che con noi desidera la stessa speranza: vivere per sempre unito a ciascuno di noi, e tutti insieme. E così fratelli, insieme sia vissuto, sia glorificato, sia santificato, sia lodato Gesù Cristo.
Materiale consultato:
• Andrew Chester, Ralph P. Martin, The theology of the letters of James, Peter, and Jude, Cambridge University Press, Cambridge 1996.
• Benedetto XVI, Lettera enciclica Spe Salvi, 30 novembre 2007.
• William J. Dalton, La prima epistola di Pietro, in Raymond E. Brown, Joseph A. Fitzmeyer, Roland E. Murphy, Nuovo grande commentario biblico, Queriniana, Brescia 2002.
• Reinhard Feldmeier, The first letter of Peter. A commentary on the Greek text, Baylor University Press, Waco (TX) 2008.
• Giovanni Lonardi, Prima lettera di Pietro https://digilander.libero.it/longi48/Prima%20Pietro.htm
• Luciano Manicardi, Prima lettera di Pietro. Commento esegetico e spirituale, Corsi Biblici del Monastero di Bose, Qiqajon, Magnano 2007.