Strada facendo. Da Aleppo a Roma, il mio cammino di gay credente
Testimonianza di Fadi raccolta* da Alessandra Maria Starace, prima parte
L’incontro con Cristo ha segnato l’inizio della mia libertà. La mia testimonianza vuole essere soprattutto questo: tracciare con parole il percorso su cui ho camminato e grazie al quale ho potuto gestire liberamente le mie scelte, i miei traguardi e anche i miei fallimenti. Ho combattuto per poter scegliere da solo quali passi fare e quali evitare e, come leggerete, qualche volta ho scelto la strada meno conveniente.
Ma anche questo è espressione di libertà. Non è stata un’esistenza idilliaca la mia – e non lo è tuttora – ma la considero l’unica proprietà che posso vantarmi di avere.
Per oggi mi chiamerò Fadi (amo molto questo nome che, nella mia lingua, significa “Salvatore”), ho 43 anni e sono nato in Kuwait.
Mio padre è meccanico, mia madre alle dipendenze di una ditta che estrae il petrolio. La mia famiglia è musulmana. Mio padre e mia madre sono cugini: si sono innamorati e sposati; dalle mie parti, questa è un’evenienza tutt’altro che rara.
I problemi tra i miei genitori cominciano dopo la nascita mia e di mia sorella: come spesso accade in questi casi, un marito che guadagna meno di sua moglie – la quale, oltretutto, veste con abiti occidentali e rifiuta di indossare il velo – sente che il controllo gli sta sfuggendo di mano. Mio padre chiede a mia madre di smettere di lavorare e lei non la prende bene.
All’inizio degli anni ‘80 si respira un’aria di progresso in Kuwait e mia madre ne assorbe tutti i benefici: il petrolio è capace di miracoli (laici) e, con il benessere che ha procurato, ha fatto confluire una moltitudine di persone di diversa etnia in questo angolo di mondo. La modernità e il pluralismo sociale, ne converrete, costituiscono una bella ricarica di energie e stimoli da offrire a un bambino curioso come il sottoscritto.
Per cui, immaginate la mia delusione quando, a sei anni, sono costretto a seguire mia madre ad Aleppo perché divorzia da mio padre e ritorna dalla sua famiglia, in Siria.
Magari chi non pratica quei luoghi non può immaginare le differenze abissali che ci sono; per fare un esempio, tra Firenze e Parigi cambia la lingua, il clima e poco più. Invece, dal Kuwait alla Siria il salto è ben più arduo. Inoltre, stiamo parlando del me bambino – che subisce il percorso di separazione dei genitori – al quale sono ignoti alcuni termini, modi di dire e usanze della nuova residenza. E tutto questo, mi pare ovvio, peggiora le cose.
Anche il clima infame le peggiora: il freddo e il gelo di Aleppo non mi stanno simpatici proprio per niente; in più ci si mettono i modi di dire inquietanti di questa gente strana che mi ritrovo come famiglia.
Ora, io mi considero una persona dotata di normale intelligenza, e credo di esserlo sempre stata. Ma, ditemi un po’, chi l’aveva mai vista, in Kuwait, la grandine? Ebbene, qui ad Aleppo non manca, ne viene giù a secchiate e siccome hanno anche il gusto macabro di chiamarla “snen el agiuz”, vale a dire denti di vecchia, io cerco di capire – imbranato e allarmato non sapete quanto, ma potete immaginarlo – da dove cadono tutti questi denti alle donne anziane e, ancora peggio, chi ha avuto la bislacca idea di strapparglieli dalle gengive e poi lanciarli dal cielo.
E freddo e grandine non sono la parte peggiore del cambiamento, in quel periodo.
Mia sorella e io passiamo da una casa all’altra come pacchi postali, mia madre mi manca, la guerra tra lei e mio padre s’inasprisce. E poi c’è la nuova vita che mi si cuce addosso e che, volente o nolente, devo vivere, un giorno dopo l’altro.
In Siria, ricevo un’educazione militare (siamo tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio dei ’90, il governo è quello di Hafez Assad) per cui a scuola c’è il giuramento alla bandiera, un’ora di educazione militare, l’obbligo d’indossare la divisa e vi dirò che, per uno che fino a qualche tempo prima pensava che dal cielo piovessero denti di vecchie, questo è un risveglio piuttosto brusco.
Arriva l’adolescenza e con essa i primi innamoramenti; sto crescendo in un Paese in cui le scuole superiori sono di norma prevalentemente solo maschili o solo femminili. La continua frequentazione di ragazzi della mia età mi pone di fronte a un’altra consapevolezza, non proprio rassicurante: sono omosessuale.
Immagino che se, a questo punto, vi confessassi d’essere disperato potreste concedermi il beneficio del dubbio.
Nonostante l’omosessualità non sia neanche lontanamente pensabile in Siria, il fatto che gli amici o le amiche abbiano dei contatti fisici che qui potrebbero essere considerati ambigui è una cosa normale. Non ho ben chiaro perché mi sia consentito, per esempio, camminare mano nella mano con il mio amico palestinese per le strade di Damasco, quando ho diciassette anni, però so che questa cosa mi piace moltissimo. Quel contatto mi rende felice: mi fa stare sveglio la notte e imbambolato con il naso per aria; inizio a contemplare quel cielo dal quale – ora lo so – non piovono denti di vecchie signore, ma da cui mi scendono nel cuore sensazioni bellissime. Comincio a illudermi e lo considero un dono potermi sentire così; sono rapito dal sentimento che mi è entrato dentro, che scuote i miei pensieri e fa tremare la mia pelle di brividi. Sono innamorato.
Ci mancava solo questa.
Non saprò mai se il mio amore è corrisposto perché, dopo qualche tempo, lui va via con la sua famiglia. Non tento neanche di descrivere la mia disperazione; vi basti pensare che non riesco a mangiare, a dormire e mi sembra di non riuscire neanche a respirare. Mia madre, che fra i trascorsi con mio padre e la vita in Siria è diventata integralista e maniaca del controllo – altra cosa a cui non mi riesco ad abituare – mi chiede in continuazione se sono malato o innamorato. E io, che sono tutt’e due le cose insieme, certo non posso confessarle la verità.
Il cambiamento di mia madre e l’adesione ferrea ai dogmi dell’Islam mi ripugnano, la perfezione che pretende da me negli studi mi costringe a fuggire da mio padre; ma anche con lui il rapporto non è un granché. Tutta questa rigidità sfocia nella mia ribellione, voglio punire i miei genitori massacrandomi da solo; pur essendo perfettamente in grado di diplomarmi con ottimi voti al liceo, faccio scena muta all’esame e mi faccio bocciare.
Mi sento insofferente a tutto, la mia omosessualità è solo una parte della personalità complessa che mi spinge a cercare quei punti di riferimento di cui mi sento affamato e che non trovo da nessuna parte.
E proprio quando meno me l’aspetto, entra nella mia vita la persona che getta una luce sul percorso che poi, volontariamente, decido d’intraprendere.
Non so se avete presente quell’atmosfera accogliente che talune persone sono in grado di crearsi naturalmente intorno. Se si è fortunati questo può accadere nella propria famiglia, ma come avrete ormai capito, io non sono tra questi. Si può però essere abbastanza fortunati da trovare uno di questi contesti da qualche parte nel mondo: a casa di un amico, in una palestra o anche in negozi o esercizi commerciali. Ebbene, dovete sapere che verso i diciannove anni, mentre aiuto mio padre nella sua nuova attività di proprietario di un negozio di profumeria, ho la fortuna di conoscere un parrucchiere. Scopro che mi piace andare da lui più spesso del previsto e mi trovo in quella situazione di tendenza innata delle persone a riunirsi tra loro per stare bene insieme. In parole povere: vado lì per chiacchierare di cose importanti e meno importanti e, tra una chiacchera e l’altra, scopro che lui è un fervente cristiano cattolico e che frequenta assiduamente la chiesa.
Come in ogni guerra ideologica che si rispetti, da musulmano – nel corso della mia breve vita di diciannovenne – ho sentito un mucchio di leggende metropolitane sulla moralità delle altre confessioni religiose; per fare un esempio, si è vociferato e si vocifera tuttora di un frate cappuccino e di un suo assistente che erano stati uccisi da una setta estremista dedita alla Bibbia e poi usati come pasto durante il rito (esistono versioni talmente suggestive della cosa che farebbero impallidire Poe).
Inoltre le ideologie cristiano-cattoliche che avevo sbocconcellato quand’ero ancora prostrato alla legge del Corano, mi sembravano un po’ troppo permissive per far parte di una religione che si potesse definire “seria”.
Ma l’animo dell’essere umano – purtroppo e per fortuna – non è una semplice somma coerente di pensieri o esperienze; per cui, e con tutte le mie riserve, inizio ad andare in biblioteca, a leggere con avidità il Vangelo. Poi guardo esterrefatto la bellezza delle chiese, la ricchezza delle icone ortodosse e resto abbacinato, abituato come sono a pregare il mio Dio tra quattro mura spoglie, con parole e rituali fissati dalla notte dei tempi. M’innamoro dell’idea che mi costruisco del Cristianesimo, realistica o esagerata che sia.
Chiedo al mio amico parrucchiere di assistere a una funzione religiosa e, la prima volta che lo faccio, rimango allibito quando vedo l’ostia e sento parlare del “Corpo di Cristo” immaginando una qualche forma di cannibalismo di cui sopra; mi domando se, alla prossima cerimonia, le ostie saranno il frutto dei miei polpacci perché la transustanziazione non è ancora un concetto alla mia portata.
Tuttavia, man mano che esploro questa nuova fede (e mi sincero del fatto che sarei rimasto tutto intero), mi sento sempre più attratto da quest’idea di me in comunione con un Dio amorevole che parla di uno “Spirito che dà la vita” e di una Parola che salva, se usata alla luce dell’amore per il prossimo, e uccide, se usata come un machete a danno dei propri fratelli e sorelle. Assaporo una boccata di libertà e, si sa, quando l’assaggi ne vuoi sempre di più.
Mi reco alla messa ogni giorno e ascolto con avidità parole che sanno di rinnovamento e di speranza per me, in tutti i sensi. Mi faccio coraggio e decido di ricevere il battesimo.
Un giorno, però, mio padre viene a sapere che vado a messa e la prende così bene che devo scappare.
Il sacerdote che celebra le funzioni alle quali prendo parte ogni giorno non è uno sprovveduto: sa perfettamente quanta e quale prudenza ci vuole su argomenti spinosi quali quello della religione e si adopera per aiutarmi a nascondermi in un bellissimo monastero, poco fuori Damasco.
Lì comincio con i miei primi esercizi spirituali e vengo a sapere che a Roma c’è una comunità religiosa dove potrei studiare e cominciare a confrontarmi con un ambiente molto diverso da quello nel quale sono cresciuto e, chissà, magari prendere in considerazione un’eventuale ordinazione.
Arrivo a Roma ed entro in questa comunità. È il periodo successivo all’attentato delle Torri Gemelle.
… (continua)
*DUE VITE è un progetto di Alessandra Maria Starace e dei volontari del Progetto Gionata per raccontare le vite dei migranti LGBT+ spesso in fuga da Stati dove la guerra, l’intolleranza e l’omotransfobia uccide. Vorremmo raccogliere e raccontare le loro storie dimenticate per mostrare le difficoltà ma anche gli incontri che gli hanno cambiato la vita, perché ricordiamo che ognuno di noi può sempre fare la differenza nell’accogliere l’altro, perché “chi salva una vita salva un mondo”. Vuoi aiutarci, vuoi raccontarci la tua storia o di una persona a te vicina? Scrivici a gionatanews@gmail.com