Strutture e norme delle relazioni nel matrimonio cristiano
Testo della teologa suor Margaret Farley* tratto dal libro Just Love: A Framework for Christian Sexual Ethics, Continuum International Publishing Group (USA), agosto 2005, pagg. 248-253, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Se il matrimonio e la famiglia devono in qualche modo contribuire al benessere e allo sviluppo umano di chi ne fa parte e vive al loro interno, allora le strutture con cui si manifestano devono essere giuste. Questo è vero per la relazione tra coniugi, tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle e chiunque altro appartenga a una “famiglia”, nel senso di rapporto tra le generazioni e di rapporto orizzontale con “parenti” di ogni tipo. Comincerò con il rapporto tra coniugi.
Dare vita a un matrimonio è simile ad ogni altro impegno nel senso che significa cedere ad un’altra persona qualcosa di se stessi; significa dare la propria parola in modo che essa esista anche nell’altra persona ma che rimanga al tempo stesso nel proprio intimo. Ma qual è questa parola, questa promessa, questa parte di noi stessi che offriamo, l’obbligo a cui ci sottoponiamo? È l’amore, a prescindere dalla sua intensità, da cosa intendiamo per amore, dalla nostra capacità di amare; significa dare all’amore un passato perché abbia un futuro; significa costruire un contesto per amare e condividere la vita.
L’atto del matrimonio deve essere fatto nella giustizia e nella libertà, con una certa cognizione di causa e un certo grado di intenzione di condividere la vita nella reciprocità, nell’uguaglianza e nellla fecondità, nel senso che ho descritto nel capitolo precedente. La struttura tradizionale del matrimonio cristiano è caratterizzata da tre elementi: la monogamia, l’esclusività sessuale e la stabilità. Non affronterò la questione se esso debba continuare a includere solo questi tre elementi. Ho già fatto cenno che la poliginia avrebbe potuto essere adottata dai cristiani, ma ci sono buone ragioni per non ritenerla una scelta adeguata nell’epoca e nel contesto in cui viviamo; anche dove essa costituisce ancora la scelta della maggioranza, sempre più forti e consapevoli crescono le critiche a questo modello, soprattutto da parte delle donne che lo vivono in prima persona. L’esclusività, ovvero la fedeltà al coniuge come unico partner sessuale, è stata ovviamente sempre violata nel corso dei secoli, ma non senza conseguenze e giudizi negativi.
Negli anni ‘70 del secolo scorso sono state avanzate proposte per un matrimonio “aperto”, in cui gli stessi termini del contratto matrimoniale avrebbero permesso numerosi rapporti sessuali al di fuori del matrimonio. Chi all’epoca avanzò queste proposte le sconfessò alcuni anni dopo, perché si erano dimostrate irrealistiche e non avevano funzionato. Per quanto riguarda la stabilità, l’impegno per la vita richiesto dal matrimonio attraversa, come sappiamo, tempi molto duri, ma rimane l’ideale e l’intenzione concreta della maggior parte degli individui che si sposano.
Le motivazioni che stanno dietro a ciascuno di questi elementi possono cambiare a seconda dell’epoca, ma essi rimangono attuali sia per gli sposi che per i figli. La monogamia è il modello scelto dalla maggior parte delle persone nella nostra cultura e questo è ancora più vero per i fedeli cristiani. Si pensa che questo modello sia il migliore per il matrimonio basato sull’amore, in particolare quello romantico; che offra la possibilità di scambiarsi intimità e compagnia come cose buone in se stesse; che possa fornire il tipo di affetto di cui hanno bisogno i bambini; che sia l’ambito migliore in cui il sesso e l’amore conducano alla massima espressione dell’amicizia; che sia l’ambito migliore in cui la trascendenza possa farsi corpo e in cui i coniugi possano avere tra loro una comunione che partecipi della comunione con Dio e conduca ad essa. Questa è la sua ragion d’essere, questo è quanto può promettere la monogamia come “struttura”.
Naturalmente non sempre la monogamia riesce a mantenere le sue promesse: le modeste soddisfazioni raggiunte nel matrimonio non sempre corrispondono a ciò che si sperava all’inizio, ma questo fa parte delle “strutture” istituzionali, in ogni sfera della vita, le quali non possono garantire ciò per cui sono state create, possono solamente dare forma alle possibilità.
Anche l’esclusività sessuale costituisce un ideale e un impegno obbligato nella concezione cristiana del matrimonio e si presume sia necessaria perché gli obiettivi del matrimonio monogamo vengano raggiunti. Per quanto la nostra cultura sia giunta a considerare poco importante l’adulterio, esso rimane una forma di tradimento e quasi sempre un’esperienza di profondo dolore per il coniuge tradito. Non sempre è un peccato imperdonabile (il matrimonio danneggiato dal tradimento può a volte venire ricomposto), ma è una ferita non indifferente per l’impegno preso con il matrimonio.
Non devo certo elencare le ragioni per cui l’esclusività sessuale e la fedeltà sono importanti per i coniugi: ci sono una miriade di ragioni che hanno a che fare con il legame sessuale attraverso il corpo, con l’intimità e con il significato che l’esclusività sessuale acquista in tutti gli altri aspetti del matrimonio e della famiglia. Mi ricordo però di una mia studentessa che una volta mi disse che la ragione per cui pensava che l’esclusività sessuale fosse parte essenziale del suo matrimonio era che essa rappresentava un ambito della vita (un ambito estremamente intimo e importante) nel quale non aveva bisogno di essere competitiva.
L’impegno per la vita appare molto più difficile da portare avanti nella nostra epoca e contesto, per le ragioni che tutti conosciamo: aumenta la longevità umana, aumenta la possibilità di scelta in quasi tutte le sfere della vita, spesso non si è in grado di continuare il cammino scelto in passato perché mancano le strutture tradizionali, e così via. Per quanto riguarda il matrimonio, è chiaro che le aspettative irrealistiche e il semplice rifiuto di accettare situazioni dannose, inutili per la propria crescita o pericolose per gli altri sono le ragioni principali per cui la stabilità rimane un ideale, ma un ideale che molti non riescono a raggiungere.
Ma se la stabilità (vale a dire la fedeltà per tutta la vita nell’amore, nel sesso, nel condividere tutte le dimensioni e le circostanze della vita) può essere raggiunta, essa costituisce il cammino verso i più ambìti traguardi del matrimonio. Come ho detto nel capitolo precedente a proposito delle norme dell’impegno, la stabilità è in grado di far crescere l’amore e il desiderio sessuale e, come ho fatto cenno precedentemente, è in grado di portare l’amore, in corpo e in spirito, verso le vette della gioia.
Tuttavia, tutti gli obiettivi e le realtà del matrimonio, in quanto struttura sociale che si occupa dell’amore e della vita, dipendono dal fatto che la relazione che sta dietro al matrimonio sia giusta; a sua volta, questo dipende in gran parte se la struttura stessa sia giusta. Metri di misura di questa giustizia possono essere la libera scelta, la reciprocità, l’uguaglianza, l’impegno, la fecondità e la responsabilità verso il mondo esterno.
Per esempio, le strutture matrimoniali che perpetuano l’ineguaglianza tra marito e moglie (uno il “capo”, l’altra “l’aiutante”; uno che, per contratto, procura di che vivere, l’altra che è economicamente dipendente; uno che è il rappresentante della famiglia di fronte alla società e alla Chiesa, l’altra che è sola la “rappresentata”) limitano fortemente o inibiscono il pieno funzionamento del matrimonio e il raggiungimento dei suoi obiettivi. Naturalmente ogni matrimonio fa caso a sé, perciò anche la divisione dei ruoli tra lavoro esterno e domestico può funzionare in ogni caso, che i ruoli siano condivisi o esclusivi. La scelta del ruolo non è universale e, a seconda di come è vissuta, può essere utile alle necessità e agli obiettivi del matrimonio fintanto che la relazione tra i coniugi rimane giusta.
La struttura di un matrimonio riflette in gran parte ciò che gli individui pensano di stare facendo quando si sposano; per esempio, molta della retorica che circonda il matrimonio ritiene che l’impegno matrimoniale richieda il “dono totale” e reciproco dei coniugi.
Questo linguaggio è fuorviante se intende dire che sia possibile per una persona darsi totalmente a un’altra (salvo forse in certe forme di schiavitù, in cui le azioni e i sentimenti dello schiavo o schiava sono sottomessi al dominio del padrone); se suggerisce la teoria, a cui ho fatto cenno, secondo cui gli individui sono come due metà che hanno bisogno di ricongiungersi per diventare intere, questa porta con sé i corollari parziali e dannosi secondo cui una delle due metà diventa più intera dell’altra, o chi non si sposa non avrà, nell’amore e nella vita, le risorse sufficienti per diventare intero.
Inoltre, se questo linguaggio viene preso alla lettera, può suggerire una forma di sacrificio personale che non è mai stata buona, soprattutto per le donne. Ci sono, almeno per i cristiani, dei limiti ai sacrifici che una persona può fare per un’altra. Il sacrificio personale può distruggere o contribuire a una relazione autentica e giusta. Alcuni obblighi morali sono radicati nella realtà dell’individuo in quanto persona umana simile a tutte le altre: può perciò fare dono di sé in un amore giusto e autentico, ma non può annullarsi donandosi.
Detto questo, riconosco che esistono sacrifici rinnovati giorno dopo giorno (grandi e piccoli, nella vita quotidiana del matrimonio e della famiglia) ed esiste l’amore crocifisso, che ogni grande amore richiede. Rinunciare alla propria vita per un’altra persona può essere la vocazione di ogni cristiano e cristiana, ma se questo significa la pura distruzione del sé (della persona la cui verità più profonda è ancora in via di svelamento), non è il tipo di amore che può costruire un matrimonio o una famiglia ripieni dei segni della giustizia e della vita.
Un amore coniugale giusto e una giusta struttura matrimoniale e famigliare faranno molto per affrontare uno dei problemi più urgenti della famiglia odierna: quello della violenza domestica. È difficile per noi comprendere la dimensione del problema quando in sei matrimoni su dieci viene esercitata qualche forma di violenza fisica ed emotiva e quando migliaia di bambini ogni anno non solo vengono abusati, ma muoiono a causa della violenza famigliare.
Chiunque può vedere i problemi insiti nel farsi del male a vicenda, specialmente all’interno dei rapporti famigliari, ma non tutti capiscono l’importanza delle disparità di potere all’interno delle famiglie, o come la violenza possa sorgere dalla sensazione di non avere abbastanza potere, causata da aspettative irrealistiche (e ispirate dalla religione) sui ruoli famigliari degli individui. Tutti noi, nella società come anche nella comunità cristiana, dobbiamo affrontare il compito di valutare criticamente il peso delle credenze sul potere all’interno delle relazioni famigliari e la tolleranza verso la violenza fisica e psicologica, fintanto che non esce dall’ambito famigliare.
Dobbiamo tutti elaborare dei modi di risolvere i conflitti che nascono nelle relazioni intime e difendere il diritto delle persone a prendersi cura l’una dell’altra nella reciprocità, in quanto la dipendenza dell’una dall’altra cambia nel tempo. Qui non intendo approfondire queste tematiche, solo segnalarle come parte dell’etica sessuale per il matrimonio e la famiglia.
Una studiosa che ha preso sul serio la necessità della giustizia nelle relazioni famigliari e coniugali è Susan Moller Okin, che parte dal fatto che le teorie contemporanee sulla giustizia considerano senza eccezioni la famiglia una istituzione sociale e danno per scontato che sia giusta. Okin ribatte che troppo spesso la famiglia non è affatto una società giusta e che le sue ingiustizie hanno effetti negativi su tutte le altre forme di società e sugli individui che fanno parte della famiglia. A suo avviso è un errore concepire la famiglia come “dato” naturale, anteriore alla società e con un suo significato intrinseco che non può essere criticato come giusto o ingiusto.
Per andare oltre questa concezione mitica della famiglia, Okin propone di utilizzare la strategia di John Rawls, parte della sua teoria della giustizia per le società, ora divenuta un classico, vale a dire presumere l’esistenza di un “velo di ignoranza” che si stende su ogni membro della famiglia, in modo che nessuno sa quale sarà il suo ruolo nella famiglia stessa. Assodato che un membro potrebbe ricoprire qualsiasi ruolo famigliare o coniugale, per questo membro come dovrebbe essere la giustizia una volta che viene assegnato a uno specifico ruolo? Questo è una maniera di “mettersi nei panni degli altri”, un promettente esperimento di pensiero o procedimento euristico per sviluppare una distanza critica nei confronti del matrimonio e della famiglia in quanto strutture per le relazioni umane.
* Suor Margaret A. Farley, nata il 15 aprile 1935, fa parte della congregazione americana delle Sisters of Mercy (Suore della Misericordia) ed è professoressa emerita di etica cristiana presso la Yale University Divinity School dove ha insegnato etica cristiana, dal 1971 al 2007, ed è stata anche presidente della Catholic Theological Society of America (Associazione Cattolica dei Teologi d’America). Il suo libro Just Love (2005), ha avuto numerose critiche e censure da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede per le opinioni morali espresse, considerate divergenti dal magistero cattolico, ma ha ricevuto anche ampio sostegno e approvazione dalla Leadership Conference of Women Religious (Conferenza delle Religiose degli Stati Uniti) e della Catholic Theological Society of America (Associazione Cattolica dei Teologi d’America).