Preti gay e lo scandalo pedofilia nella chiesa cattolica. I risultati del John Jay Report
Articolo del gesuita James Martin tratto dal sito del settimanale cattolico America, 17 maggio 2011, liberamente tradotto da Mauro F.
Il John Jay Report sui “motivi e contesti” dello scandalo sugli abusi sessuali nella Chiesa Cattolica include un risultato che probabilmente sorprenderà molti osservatori.
Come affermato da David Gibson in un articolo su Religion News Service: “I ricercatori non hanno riscontrato alcuna prova statistica per cui i preti omosessuali avrebbero commesso più abusi su minori dei preti eterosessuali.
Una scoperta che mina alla base un argomento di conversazione prediletto da molti cattolici conservatori. In base al rapporto, il numero sproporzionato di vittime di sesso maschile è da attribuirsi alle più frequenti occasioni di contatto con esse, non alle preferenze o ad una patologia.
Inoltre, i ricercatori notano che l’incremento di preti omosessuali dalla fine degli anni ’70 in avanti corrisponde effettivamente ad una “decrescita nell’incidenza degli abusi, non ad una crescita.”
Come è possibile tutto ciò, tenendo conto soprattutto del diffuso stereotipo del prete omosessuale che violenta o va in cerca di prede? Come spiegare diversamente la presenza di così tante vittime maschili?
In primo luogo, circa ogni rispettabile psicologo e psichiatra, per non menzionare la stragrande maggioranza degli studi eruditi, rifiutano con fermezza l’idea di un’associazione tra omosessualità e pedofilia, nonché di una relazione causa-effetto. Le indagini compiute a riguardo sono fin troppo numerose . La pedofilia, ci dicono gli esperti, è spesso più una questione di sessualità non sviluppata (o repressa), di potere e di vicinanza fisica (tralasciando altri complessi fattori psicologici e sociali).
Il nuovo studio del John Jay College di Giustizia Penale, intitolato “I motivi e il contesto degli abusi sessuali su minori da parte dei preti cattolici negli Stati Uniti, 1950-2010”, indica, tra le altre ragioni: la presenza di uomini emotivamente immaturi e psicologicamente instabili che fanno ingresso in seminario; la difficoltà nell’affrontare i rivolgimenti culturali in cui i preti si trovarono negli anni ’60 e ’70; e ancora, la questione della vicinanza – i ragazzi furono vittime di abusi poiché i preti avevano più probabilità di lavorare con loro che con le ragazze.
Ma, per farla semplice, essere un prete omosessuale non significa commettere simili violenze. La Conferenza Episcopale Americana ha infatti commissionato indipendentemente un altro ampio studio in seguito allo scandalo degli abusi del 2002 in America, studio già intrapreso dal John Jay College.
Nel 2009, Margaret Smith, ricercatrice del John Jay, ha comunicato ai vescovi: “Noi sosteniamo che l’idea dell’identità sessuale debba esser e svincolata dal problema delle violenze sessuali.
A tal punto, considerando i dati attualmente a disposizione, non riscontriamo connessioni tra l’identità omosessuale e una maggiore probabilità di conseguenti abusi”.
In secondo luogo, vi è un argomento più forte contro la frequente associazione omosessualità – pedofilia: l’esperienza di vita di uomini (e donne) omosessuali emotivamente maturi e psicologicamente stabili, che mai e poi mai hanno violentato bambini, non sono tentati di farlo, non sono per nulla attratti da loro, e, in breve, non si sognerebbero mai di agire così. Essere gay non rende automaticamente pedofili.
Simili intuizioni giungono, almeno credo, da parte di vescovi attenti, leader ecclesiastici con esperienza e funzionari vaticani ben navigati.
Questa è la ragione per cui lo scorso anno il Rev. Marcus Stock, segretario generale della Conferenza Episcopale Cattolica di Inghilterra e Galles, ha rilasciato la seguente dichiarazione: “a quanto mi consta, non vi sono dati empirici dai quali sia deducibile un legame tra orientamento sessuale e abusi sui minori.
Tra i ricercatori vige consenso sul fatto che la violenza sessuale sui bambini non è una questione di ‘orientamento’, sia esso eterosessuale o omosessuale, bensì di un’attrazione disordinata o ‘fissazione’”.
Eppure, nonostante i risultati apportati dal nuovo John Jay Report, e gli ammonimenti di psicologi professionisti contro l’equiparazione di pedofilia e abuso, alcuni, sia all’interno che all’esterno della chiesa, potrebbero accettare con difficoltà questa nuova indagine.
Se questi risultati fossero veri, essi potrebbero chiedersi, perché tutte queste vittime non solo tra giovanissimi ma in particolare tra adolescenti maschi?
Di nuovo, i ricercatori hanno sempre sostenuto come alla base di ciò vi siano una miriade di cause, inclusa la vicinanza: a numerosi preti era affidata in passato la cura dei ragazzini. Nelle scuole e nelle parrocchie le suore cattoliche si occupavano delle femmine, i preti dei maschi.
Vi sono stati senza dubbio sacerdoti omosessuali che hanno commesso violenze, così come ce ne sono stati tra quelli eterosessuali (ciò dovrebbe essere ben chiaro per chiunque abbia seguito questa terribile vicenda dal 2002).
Tuttavia, come mostrato dallo studio, la stragrande maggioranza dei preti omosessuali (ed eterosessuali) non ha mai abusato di nessuno. L’aumento di preti omosessuali, infatti, coincide con un calo dei casi di abuso. Da dove deriva allora lo stereotipo del sacerdote omosessuale violentatore? E’ qui che la situazione si complica.
Uno dei motivi principali per cui molti si ostinano a considerare l’omosessualità come la radice della crisi di abusi, nonché i preti omosessuali come pedofili, sta nel fatto che quasi non esistono modelli “pubblici” di sacerdoti omosessuali sani, maturi, felicemente celibi, tali da rigettare un simile stereotipo.
Un articolo apparso sulla rivista America pubblicato nel 2000 fa luce su alcune delle ragioni di fondo. All’interno del clero cattolico vi sono, e vi son sempre stati, preti omosessuali celibi nonché membri omosessuali di ordini religiosi sempre vissuti castamente.
Come faccio a saperlo? Perché, come la maggior parte dei preti, anche io ne ho conosciuti parecchi.
Essi sono emotivamente maturi, psicologicamente stabili, capaci di affetto genuino ed amati da coloro presso cui svolgono il loro ministero; lavorano sodo per il “Popolo di Dio”, e non hanno mai seviziato un solo bambino.
Molti di loro sono tra le persone più virtuose che abbia mai conosciuto. Alcuni li considero già santi. E lo ripeto, perché sia chiaro: sono celibi. O, nel caso di ordini religiosi, vivono nella castità.
(Detto tra parentesi, usare l’espressione “prete gay” fa scattare il campanello d’allarme in alcuni ambiti della chiesa, dove si ritiene che “gay” significhi “sessualmente attivo”.)
Alcuni di questi sono dichiarati soltanto con gli amici intimi e i propri confessori, o guide spirituali. Le ragioni per cui non escono allo scoperto sono semplici da identificare, sebbene per la gente non siano altrettanto semplici da capire.
Innanzitutto, essi potrebbero temere le reazioni dei loro parrocchiani, soprattutto se nella parrocchia presso cui vivono dilaga l’omofobia.
In secondo luogo, potrebbero supporre, non a torto, che il dichiararsi pubblicamente rischierebbe di mettere in eccessiva luce la propria persona, a scapito del ministero, di fungere da elemento di disturbo e addirittura di causare profonde divisioni tra i parrocchiani stessi.
In terzo luogo, vi è il timore di eventuali rappresaglie o punizioni da parte di vescovi o superiori dal cervello poco fino.
In quarto luogo, potrebbero non essere in grado o desiderosi di farlo per varie ragioni personali. (Ad esempio, potrebbero appartenere ad una generazione in cui la sessualità era un argomento taboo, o sentirsi ancora in grande imbarazzo per il proprio orientamento, nonostante il celibato o la vita di castità.)
E sull’onda dello scandalo degli abusi, nel sentire telecronisti che collegano l’omosessualità alla pedofilia, le loro paure si intensificano.
Infine, è possibile che ad alcuni sacerdoti venga esplicitamente vietato da parte di vescovi o superiori, timorosi di notorietà, di parlare pubblicamente del proprio orientamento. Parte di questo raggiunse il punto critico con la pubblicazione della lettera vaticana del 2004, ultimata dopo una lunga visita pontificia ai seminari americani in seguito allo scandalo sugli abusi.
Il documento, “Istruzione circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al Seminario e agli Ordini sacri,” afferma che uomini con “tendenze omosessuali profondamente radicate” non possono essere ammessi al sacerdozio.
Da allora tale documento è stato variamente interpretato nei seminari diocesani e all’interno dei progetti formativi per gli ordini religiosi, almeno secondo le fonti ufficiali che ho interpellato negli anni passati.
Lo scorso anno un seminarista della diocesi mi scrisse dicendomi che presso il suo seminario vigeva una “politica del silenzio”, mentre in altre sedi ogni ammissione della propria omosessualità poteva condurre, da come mi fu detto, all’espulsione.
D’altro canto, alcuni vescovi e superiori di ordini religiosi che riconoscono i contributi storici dei sacerdoti omosessuali celibi, hanno interpretato quel “profondamente radicate” come incapacità di vivere nel celibato; ergo, se un omosessuale avverte un’autentica vocazione sacerdotale, è emotivamente maturo ed in grado di vivere da celibe, può essere ordinato.
Uno degli approcci più pastorali giunge da Timothy Dolan, arcivescovo di New York, il quale in merito alla pubblicazione dell’istruzione, disse saggiamente che una persona omosessuale che si sente chiamata al sacerdozio “non dovrebbe essere scoraggiata.”
Altri vescovi e superiori – non si sa bene quanti – hanno adottato simili metodi. Ciononostante, tra i numerosi ecclesiastici omosessuali celibi la paura sopravvive.
Non molto tempo fa un sacerdote competente con molti anni di ministero parrocchiale alle spalle mi disse che le cose sarebbero cambiate solo quando tutti i preti omosessuali una bella domenica si fossero decisi a fare coming out nelle loro parrocchie.
Ma ciò è altamente improbabile: oltre ai motivi sopraccitati, i legami esistenti tra questi sacerdoti sono in genere di portata locale, e per lo più informali.
Nondimeno, un rimedio del genere potrebbe fungere da importante “occasione formativa” per l’intera chiesa.
D’altra parte, molti parrocchiani cattolici sono consapevoli di queste situazioni: sono ben coscienti del fatto che alcuni dei loro preti siano omosessuali, e fin quando vivranno da celibi dimostrandosi amorevoli, generosi e devoti, i parrocchiani li accetteranno e saranno loro grati.
L’interessante vicenda del Rev. Fred Daley, di Utica, New York, ne è un esempio. La maggior parte dei cattolici – inclusi numerosi vescovi e arcivescovi – sono già al corrente di queste cose.
Il nuovo John Jay Report non farà che confermare i loro approcci indirizzati all’accettazione degli ecclesiastici omosessuali celibi coi quali hanno collaborato per anni.
Essi sanno che omosessualità e pedofilia non sono la stessa cosa. (Ecco perché lo stesso Papa Benedetto XVI, diretto negli U.S.A. per la visita del 2008, ha risposto così ad una domanda sullo scandalo degli abusi: “non vorrei parlare di omosessualità, bensì di pedofilia, che è una cosa diversa.”)
Sanno inoltre che all’interno del clero o degli ordini religiosi vi sono numerosi omosessuali celibi e casti che non hanno mai abusato di nessuno e che, soprattutto, conducono una vita generosa, consacrata e persino santa.
Titolo originale: John Jay Report: On Not Blaming Homosexual Priests