Sulla prima veglia diocesana per il superamento dell’omofobia di Torino
Riflessioni di Massimo Battaglio
Talvolta capita che l’inimmaginabile si realizzi e ci si rende conto che bastava immaginarlo fortemente. Così, anche a Torino, il 13 maggio 2024, si è realizzata la Veglia per il Superamento dell’Omofobia.
Ma cos’ha di tanto inimmaginabile questa cosa, che da altre parti si celebra da anni in tutta serenità? Bisogna partire da com’è nata l’idea, l’anno scorso, in un incontro tra il gruppo Il Pozzo di Sicar e il vescovo ausiliare Alessandro Giraudo. Nello scambiarsi esperienze e opinioni, venne fuori l’idea: perché non organizziamo insieme una veglia, in una bella chiesa del centro storico, pubblica, invitando tutti i cristiani che lo desiderano, a prendere coscienza della piaga sociale dell’omotranfobia pregando con noi?
Era tardi per muoversi subito; così si rimandò a quest’anno. Il gruppo voleva che tutto fosse organizzato bene perché l’idea partorita con mons. Alessando suggeriva alcune coordinate precise: una iniziativa pubblica, promossa dalla diocesi, aperta a tutti i cristiani e a chiunque si volesse aggregare con loro, in un luogo di passaggio, presieduta dai vertici della Chiesa di Torino, quasi un coming-out generale (non parlo ovviamente di orientamento sessuale o identità di genere dei presenti ma della loro sensibilità) in cui si dichiarasse da che parte si sta: quella di chi odia l’odio sotto tutte le sue forme.
Per arrivare a ieri, c’è voluto parecchio lavoro. Gli organizzatori volevano esprimere innanzitutto le ansie, le disperazioni delle persone LGBT+ davanti al Signore, con sincerità e, subito dopo, attendere le sue risposte che vengono dal Vangelo. Era importante questo modo di procedere dialogico tra vita e Vangelo, perché si sapeva che molti di coloro che sarebbero intervenuti erano persone che si sentivano messe ai margini della Chiesa o che avevano scelto di prendere debite distanze da essa, che parla e parla ma poi si ritrae, poi non cambia abitudini, poi continua a far soffrire.
Si decise dunque di inventare una para-liturgia tutta particolare. Niente atti penitenziali iniziali perché non sarebbero stati capiti, si sarebbero fraintesi. E tra un kyrie in più e la stima di un nuovo amico, meglio la seconda. Si decise invece di iniziare leggendo l’elenco nudo e crudo delle vittime di omofobia di quest’anno, così come riportato da omofobia.org . Subito dopo, un alternarsi di testimonianze nostre e letture evangeliche di risposta, commentate dal nostro don Gianluca Carrega.
Dopo ancora, un momento di preghiera comune, ma non la solita valanga di intenzioni pronunciate al microfono. Si è scelto invece a ciascun partecipante di “compilare” un cartoncino personale. Sul davanti c’era la storia di una delle vittime di omicidio o suicidio omofobo degli ultimi anni. Sul retro, ciascuno ha scritto una preghiera dedicata proprio a lei. Consegnata la preghiera ai piedi del cero pasquale, ognuno riceveva una candelina accesa.
Ci si è affidati dunque non solo alla parola ma alla gestualità, ai linguaggi dell’arte, della musica (buona musica), perché ciascuno doveva sentirsi a casa sua. Nessuno era tenuto a fare la parte del pubblico. Ci si è divisi minuziosamente i compiti, tirando dentro trentanove amici provenienti da realtà diverse, chi per leggere un brano, chi per cantare o suonare, chi per altri servizi.
Due pacchi da cento candele consumati dicono che è andata bene. I sorrisi e gli abbracci e i grazie da parte di tutti, lo confermano.
Personalmente, stravolto ma felice, non posso però fare a meno di comunicare anche alcuni aspetti che hanno perturbato il nostro lavoro. Dispiace, per esempio, aver dovuto lavorare quasi di nascosto fino all’ultimo giorno – senza usare i social o i media ma invitando i partecipanti uno per uno – non certo per un’imposizione dei nostri referenti diocesani ma perché eravamo certi che qualcuno che ci vuol male ne avrebbe approfittato per far polemica. Polemica che non è mancata comunque. I soliti superpotenti hanno mandato a dire che non gradivano. Non gradiscono che si preghi per le vittime di una violenza ingiusta, capito?
Mi spiace constatare che c’è gente, anche a Torino, che, di fronte a un ragazzo malmenato o a uno che si toglie la vita, reagisce inalberano “il gender”. Come se i fantasmi contassero di più delle vite concrete delle persone. E, non volendo prendersi le responsabilità dei propri pregiudizi, si nascondono dietro il Levitico, Sodoma e i comandamenti. Toccherebbe ricordare loro che, proprio tra i comandamenti, si dice anche “non nominare il nome di Dio invano”. Ma è inutile: non saremo noi a convertire i duri di cuore.
Ciò che è molto più utile è la sensazione di esserci riusciti: una forma impeccabile, un clima di preghiera autentica, sia da parte di chi crede e sia di chi era venuto per pura amicizia. I tanti “grazie” ricevuti dalle persone che noi stessi volevamo ringraziare ci hanno riempito il cuore. E se hanno commosso un vecchio scafato come chi scrive, non oso immaginare la botta di coraggio che hanno significato per quei ragazzi per i quali questa era la prima uscita in pubblico.
Un’altra Chiesa è possibile. A noi costruirla. Anche a Torino.