Tavola Rotonda su ‘gli omosessuali nelle chiese. Esperienze a confronti’ (Milano, 23 ottobre 1999)
Fa un certo effetto leggere dopo dieci anni le riflessioni, le proposte, le testimonianze che furono protagoniste della tavola rotonda che ebbe luogo durante il convegno Le persone omosessuali nelle chiese. Problemi, percorsi e prospettive (Milano, 23 ottobre 1999) che vide la partecipazione di numerosi relatori provenienti da diverse esperienze e cammini umani e di fede.
Ma ascoltiamo i loro contributi:
Gianni Geraci: Le numerose adesioni che stanno arrivando sono l’indice che forse di questo Convegno c’era bisogno. Questa mattina abbiamo percorso le nostre storie attraverso le voci di persone che, per scelta o per mandato, si occupano di teologia o di pastorale.
In questa Tavola Rotonda vorremmo riprendere questi percorsi e leggerli alla luce delle esperienze e dei vissuti personali. Saranno percorsi molto differenti tra loro caratterizzati però tutti dall’incontro con l’omosessualità.
Inizio con il leggervi l’intervento che ci ha mandato don Goffredo Crema che è stato per diversi anni una figura di riferimento al Guado di Milano e che, dopo questa esperienza, ha dato vita al gruppo La Goccia nella città di Cremona dove svolge il suo ministero pastorale.
Don Goffredo Crema: Tento – fin dove è possibile – di fare un bilancio rispondendo a una domanda ben precisa: io, come prete, che cosa ho fatto per i miei fratelli gay? Quale strategia ho elaborato per presentare Cristo, il suo messaggio d’amore? Domande semplici nella loro formulazione, ma non altrettanto nella risposta. Ho iniziato circa 24 anni fa, quasi per caso. Un incontro-scontro con un giovane omosessuale di 21 anni.
Ricordo il duplice tentativo: da parte sua di dimostrare la bellezza dell’amore omosessuale come amore legittimo, come fonte di crescita personale e, dall’altra parte, il mio tentativo di neutralizzare la bontà delle argomentazioni del mio interlocutore, puntellato con luoghi comuni come «è peccato grave, contro natura», e corredato da una citazione biblica: l’episodio di Sodoma e Gomorra. L’unico riferimento biblico che allora sapessi.
I nostri colloqui chiarificatori proseguirono anche attraverso lettere settimanali; poi, improvvisamente, non ci incontrammo più. Incontro utile che mi ha fatto toccare con mano la mia ignoranza sull’argomento, cui seguì l’impegno di un’informazione, di uno studio sistematico e la possibilità di incontrare persone per sentire, per accogliere e per condividere le loro sofferte testimonianze.
La decisione di dedicare parte del mio tempo ai gay non è stata, tuttavia, né immediata né facile. La paura che questo mio ministero venisse scoperto (siamo agli inizi degli anni ’70), con possibili richiami da parte dei miei superiori, era molto forte. Voi potete capire: un prete che offre il suo ministero per le persone drogate può assurgere agli onori della cronaca, un prete che svolge la sua attività all’interno di un carcere può ottenere, dopo cinque anni, un riconoscimento: viene nominato cavaliere della Repubblica.
Ma un prete che incontra e si interessa di omosessuali è come se camminasse in un campo minato. Potrebbe rovinare – si fa per dire – la propria carriera, distruggere la propria reputazione, andare incontro a un marchio sociale e psicologico. Una premessa: non vanto una competenza specifica, né titoli accademici e tanto meno mi sono lasciato condurre dalla presunzione di essere un esperto capace di dare risposte ai grossi interrogativi dei miei interlocutori.
Quante persone ho incontrato? Impossibile quantificare: senz’altro molte. Impossibile anche verificare la risonanza interiore, le impressioni che questi incontri hanno suscitato nelle persone interessate.
Un’altra domanda: perché sono venute? Sono venute per una verifica sulla loro situazione, magari decise, una buona volta, a essere completamente vere con se stesse, mentre nella vita hanno dovuto, troppo spesso, verificare che occorre misurare ciò che si dice, ciò che non si deve dire.
Essendo, poi, sacerdote, sono venute per tentare di trovare insieme il loro posto nella Chiesa, la loro collocazione come battezzati nella comunità dei credenti. Spesso l’omosessuale in genere, ma anche l’omosessuale credente, ha rotto i legami, oltre che con gli altri, con il mondo che lo circonda, anche con la Chiesa, con la parrocchia, con l’oratorio dove aveva vissuto gli anni stupendi della fanciullezza e dell’adolescenza.
Mettendomi a tu per tu con la persona ho inteso aprire un dialogo, esprimere una solidarietà fatta di amicizia e di partecipazione. Dialogo, soprattutto dialogo. Ha rappresentato il momento più importante e decisivo dei nostri incontri per aiutare la persona a uscire dalla patologia dei suoi problemi. Non mi sono posto di fronte ai miei interlocutori come il prete che sa tutto mentre loro non sanno niente, ma come un uomo accanto a un altro uomo, in umile atteggiamento di ascolto.
In questo modo il dialogo diventava profondo e toccava sentieri nascosti e oscuri dell’animo umano, dove si era annidata la patologia dei problemi. Nel clima di una scambievole fiducia, si andava alla ricerca di quegli elementi che avevano creato una disarmonia nella personalità.
Si trattava di interessarsi non dell’omosessuale, ma della persona, comunicando un po’ di calore umano, di coraggio per affrontare la propria realtà invece di fuggire davanti a essa. E’ il gay-persona che ha bisogno del dialogo umano, che ha bisogno di essere capito. Allora veniva fuori tutto, mi confidavano segreti che non avevano mai rivelato a nessuno, perché sentivano intuitivamente che mi interessavo alla loro persona e non al loro caso.
La mancanza di dialogo – mancanza denunciata con forza da molti omosessuali – rappresenta la perdita di qualunque punto di appoggio, di un punto di riferimento essenziale per vivere. Ed è proprio stata la forza del dialogo intimo, interpersonale a creare le condizioni ottimali perché il gay ritrovasse se stesso. E’ l’incontro con l’altro che lo fa uscire da tutte le chiusure esistenziali e lo mette in condizione di vivere.
Si è trattato, appunto, di un confronto molto aperto, sincero, pieno di comprensione – togliendo a questo termine quella patina di pietismo di cui lo abbiamo caricato – comprensione per chi richiede attenzione o ha bisogno di scaricare una tensione o di confessare qualcosa di sé a un’altra persona, senza inutili paure, con la ferma convinzione di trovare un amico capace di mettersi in sintonia con lui.
Sentirsi compresi: ecco ciò che ha aiutato ad affrontare il problema della propria omosessualità, senza essere infedeli a se stessi. Il sentirsi compresi ha costituito un momento di verità, di fiducia, di intensa emozione sia per coloro che mi ascoltavano, sia per me che parlavo.
In questo modo mi sforzavo di capire l’altro non solamente con il cervello, ma con il cuore. I colloqui si svolgevano con molta semplicità, animati dal desiderio di porgere una mano a un fratello. Dai colloqui emergevano situazioni, stati d’animo quali solitudine, incomunicabilità, sfiducia in se stessi e negli altri, paura di esser scoperti e quindi derisi, emarginazione dagli amici, dai parenti.
La solitudine: è il momento più terribile, e non c’è altra terapia che l’incontro con l’altro, sentirsi capiti e accettati per quello che si è, non per quello che gli altri vorrebbero che tu fossi. Quante volte mi sono sentito dire: «Avevo paura di non essere compreso». Il sentirsi compresi è ciò che aiuta a vivere e ad affrontare la propria realtà e costituisce un momento di verità, di fiducia, di intensa emozione sia per me che ascolto sia per i miei interlocutori.
Il saper comprendere suppone in chi ascolta la capacità di sapere recepire il messaggio che viene inviato, significa non avere fretta, guardare all’altro nel profondo dei suoi problemi. E la persona che ho davanti intuisce di trovarsi di fronte a un amico che condivide, che si mette in sintonia perfetta di mente e di cuore.
La solitudine, poi, viene avvertita più acutamente in determinati momenti, quando chi è solo pensa che tutti gli altri siano circondati dall’affetto di persone care; chi è solo pensa che tutti si stiano divertendo e di essere lui l’unico escluso. A una vigilia di Natale mi telefonò una persona che si lamentava, appunto, di esser sola.
«Guarda – gli dissi – anch’io sono qui in casa, sono solo. Anzi ti confesso che sono felice di parlare con te stasera… in questo momento stiamo bene, no?». «Sì – rispose – è vero, ti sono riconoscente…» e il morale è salito un po’.
Con tutte le persone incontrate ho inteso stabilire un rapporto, sostituire alla diffidenza la disponibilità, all’indifferenza l’ascolto, l’accoglienza, la gratuità. Tutti hanno capito che per loro io ero importante per il solo fatto che li stessi ad ascoltare. Anche alcune mamme in lacrime mi hanno telefonato dopo aver scoperto l’omosessualità del figlio. Non si davano pace, erano disperate che la “diversità” del loro figlio potesse essere notata dai parenti, dagli amici, nell’ambiente di lavoro. Tutti hanno chiesto amicizia.
E qui la mia grande scoperta. Pensavo di poter aiutare persone in difficoltà, scoraggiate, a volte rassegnate e ripiegate su loro stesse, dando consigli, incoraggiamenti, comunicando anche qualche mia convinzione.
Ho capito che chi mi aveva contattato non aveva tanto bisogno di essere consigliato, quanto ascoltato senza limitazioni di tempo, voleva sperimentare un po’ di amore, sentire qualcuno che potesse gioire con lui, qualcuno che gli desse fiducia e porgesse appigli alla speranza.
Come prete spesso sono stato facile e indifeso bersaglio dei miei interlocutori quando hanno espresso la loro insoddisfazione, meglio la loro rabbia, il loro profondo disagio per l’atteggiamento ufficiale della Chiesa, il sentirsi giudicati e condannati senza la possibilità di far sentire la propria voce. Nella Chiesa si sentono mal sopportati se non addirittura rifiutati.
Non esiste volontà di dialogo, non c’è superamento della morale della condanna, spesso costruita su pregiudizi dei benpensanti. Ho capito che l’omosessuale credente desidera essere accettato e riconosciuto in quanto credente, e proprio in quanto battezzato e credente cerca di illuminare con la propria fede la propria situazione personale, che, oltre tutto, è fatta anche di condizione omosessuale.
E’ stata felice scoperta sentirsi accolti da un prete; per qualcuno è stata la prima esperienza positiva della propria vita: «Finalmente un prete che ti ascolta, che non ti giudica, che non ti condanna!».
Ed ecco allora l’apertura fiduciosa, il racconto di storie senza vergogna, senza paure di essere allontanati, il dire le proprie sofferenze che in quel momento sono anche condivise con qualcuno. Ho incontrato persone credenti e non.
Con le prime è bastato poco per capirsi. E’ come riconoscersi, sapere di avere un tesoro in comune: la fede. Ci sono parole chiave che sottintendono tutto un discorso. Altri gay, sì… dicevano di credere, ma subito aggiungevano: «Però non credo a voi preti, a quelli che vanno in chiesa magari tutti i giorni e poi nella vita non riescono a esprimere un po’ d’amore… Non credo al Papa…tanto meno al cardinal Ratzinger».
Un giorno, alzando l’apparecchio telefonico, ho ricevuto una scarica di insulti, parole oscene, proposte innominabili. Ho pensato: «Anche questo è un messaggio, messaggio di impotenza, di rabbia, e… perché no? messaggio di sofferenza». Non me la sono presa, ma rispondendo con calma sono riuscito ad ammansire il mio ignoto interlocutore.
Una volta mi sento dire: «E’ vero che tu risolvi il problema dell’omosessualità?». Rispondo: «Ti assicuro di no. Mi limito ad ascoltare, ad avviare un dialogo con chi me lo chiede, a fare soprattutto da specchio perché si incominci a vedere chiaro, a scoprire aspetti della propria vita finora inediti».
Constatando la mia disponibilità a guardare con lui la realtà e approfondire il suo problema – spesso comune a molti omosessuali – con estrema franchezza mi racconta tutto di sé, parla quasi ininterrottamente per più di un’ora («Sarà contenta la Telecom», ho pensato), mi dice che cosa pensa della sua vita, le volte che si è innamorato di un uomo, il suo bisogno di essere accettato, di essere amato, di uscire dal suo mondo chiuso, dalla sofferenza spesso così intensa da pensare al suicidio.
Lo lascio parlare, parlare, perché è di questo che ha bisogno. Solo lo invito alla prudenza quando esprime propositi che ritengo troppo audaci e che, se attuati, potrebbero causargli l’ennesima delusione e ulteriori sofferenze.
Improvvisamente mi saluta, come se la carica si fosse esaurita, e, inaspettatamente, soggiunge: «Che bel mestiere è il tuo!». E riattacca. Ci sono state telefonate, incontri impegnativi dove sono emersi problemi sentimentali, problemi di non accettazione della propria condizione omosessuale, problemi con la moglie e i figli che già sospettavano l’omosessualità, rapporti tesi con la famiglia, con l’ambiente di lavoro, con gli amici che ancora non sapevano, delusione per la fine di un rapporto nato sotto i migliori auspici, vissuto per anni e ora improvvisamente interrotto.
A volte – al telefono – dopo le prime spiegazioni mi ringraziavano al primo cenno di risposta. Come mai questa fretta? Capisco: come se volessero difendere la propria sensibilità, la propria intimità appena scoperta. Ci sono state telefonate… mute; qualcuno ha composto il numero e poi ha perso il coraggio e ha subito riattaccato. Ho notato un atteggiamento comune: l’ansia da parte di tutti di non essere soli davanti al problema, di assaporare un po’ di amore, di fraternità.
Ma io, come prete, come ho vissuto e come vivo questa esperienza? La vivo con gioia. Al mattino chiedo al mio datore di lavoro, il Signore, che mi suggerisca durante i miei colloqui le parole giuste, i giusti silenzi, mi aiuti a preparare il mio cuore ad amare il più possibile, con gratuità, con la massima disponibilità, mi aiuti, in una parola, a «farmi prossimo». Chiedo al Signore che non mi faccia mai sentire «fuori servizio».
Sarebbe bello parlare a questo punto della mia collaborazione con la rivista Babilonia, attraverso la rubrica da me creata «Fede e omosessualità». Collaborazione che ebbe fine, forzatamente, per le mie note vicende degli anni 1990-91, concluse con un’ammonizione canonica voluta da tre dicasteri romani.
Sapevo da tempo di essere nel «registro degli indagati»! Il mio, tuttavia, non è stato un processo da parte dell’autorità ecclesiastica, ma l’anticamera; l’ammonizione è semplicemente una specie di «avviso di garanzia», per usare un termine ormai familiare.
Sarebbe bello parlare anche della mia esperienza quasi decennale vissuta a Milano con gli amici del Gruppo del Guado, esperienza interrotta per il nuovo impegno come cappellano di un grande istituto geriatrico di Cremona nel 1994.
Sarebbe pure bello parlare del gruppo La Goccia, sorto a Cremona negli anni ’90, tuttora operante e che si riunisce due volte al mese. Non c’è tempo.
Di tutte queste esperienze posso affermare che ho scritto e continuo a scrivere una delle pagine più belle e più esaltanti del mio essere prete.
Gianni Geraci: Do la parola, innanzitutto, a Paola Dall’Orto, presidente dell’Associazione genitori di omosessuali (AGEDO), che ci racconterà l’esperienza di vita omosessuale di una famiglia che si incontra con l’omosessualità.
Paola Dall’Orto: L’AGEDO è un’associazione un po’ strana, ma si è rivelata molto importante perché tutte le autorità di fronte alla famiglia, a dei genitori, sono capaci di raccogliere anche le istanze più difficili da realizzare.
L’AGEDO si occupa dei genitori di persone omosessuali e del loro rapporto coi figli, i quali sono, in genere, coloro che ci chiamano affinché in famiglia non si rompa la relazione esistente prima della scoperta dell’omosessualità del giovane.
Ci siamo resi conto che lavorare solo con individui o singole famiglia non bastava, era necessario cercare di cambiare una mentalità negativa molto diffusa in Italia.
Quindi ci siamo battuti soprattutto nell’ambito della scuola, dove stiamo ottenendo protocolli d’intesa col Ministero per lavorare negli istituti e organizzando corsi di aggiornamento per gli insegnanti, in modo che, come nella famiglia vorremmo che i genitori mettessero in conto la possibilità di avere figli o figlie omosessuali, anche nella scuola gli insegnanti possano accorgersi di questa realtà.
Ritengo molto importante che si realizzi un convegno riferito specificamente alle possibili soluzioni per uscire come persone omosessuali dalla morsa delle condanne, delle discriminazioni, delle ipocrisie, per rinascere come persone rispettate anche nel rapporto con l’istituzione Chiesa.
Sono presente come rappresentante dell’AGEDO perché uno dei problemi che ci si pongono nel dialogo coi genitori e i loro figli o figlie è proprio quello legato al loro credo religioso, ancora molto dipendente dai dettami della Chiesa e che non permette loro di acquisire la propria autonomia, lasciandoli nella convinzione che l’omosessualità sia un grave peccato.
Da questa posizione nascono forti e distruttivi sensi di colpa per i ragazzi e le ragazze, e un pesante vissuto di inadeguatezza per essere al mondo come soggetti non accettabili.
I genitori, se non reagiscono in modo scomposto, spesso addirittura con violenza sottile, sono bonariamente disponibili ad accogliere i propri figli o le proprie figlie come un castigo di Dio da scontare, tenendosi in casa il malcapitato e la malcapitata.
Ecco perché l’AGEDO, di fronte a simili sofferenze, nell’ottica di aiutare la famiglia, si è sentita in dovere di scrivere circa due anni fa al cardinale Ruini. Questi ha subito risposto che la Chiesa cattolica si stava impegnando per l’attuazione di una pastorale specifica per le persone omosessuali, ma chiedeva che per ora non ne facessimo notizia. Abbiamo chiesto maggiori informazioni per muoverci meglio di fronte alle famiglie, ma non abbiamo ricevuto ulteriore risposta. Esistono, per fortuna, sacerdoti più semplici, «di trincea», che sanno capire, appoggiare e sostenere.
Io vivo a Verbania, dove si incontrano sacerdoti splendidi, ma a me, madre di un giovane omosessuale, un prete della diocesi di Novara, che stava scrivendo un libro per la scuola e al quale era stato chiesto che cosa pensasse dell’omosessualità, ha risposto che gli omosessuali sono tali «perché inseriti in una famiglia malata». Mi ha chiuso la bocca.
E’ impossibile il dialogo con chi, senza essere genitore e avendo un’esperienza relativa a poche persone, è sicuro di possedere la verità. Beato lui! Ma guai a chi è vittima di tali sicurezze!
Il problema più grave è che queste prediche vengono da un pulpito che per quasi due millenni ha avuto un forte potere e grande credibilità. Difficile portare la gente all’autonomia rispetto a ciò che può nuocere a se stessi e soprattutto alla propria famiglia.
Dopo il caso del giovane di Cerignola, ucciso dal padre «perché omosessuale», come ha dichiarato il genitore al momento dell’arresto, come presidente dell’AGEDO ho chiesto al vescovo del luogo di prendere pubblicamente una posizione cristiana in Chiesa.
Non solo non è stato fatto nulla, ma la risposta che ho ricevuto è stata la negazione della realtà e una serie di riferimenti biblici contro l’omosessualità. Anzi, mi è stato detto che sono proprio le associazioni come le nostre a rovinare la società e le famiglie.
Ugualmente sono state sempre negate le ragioni del suicidio del giovane scrittore Alfredo Ormando in piazza San Pietro a Roma, il quale ha voluto, con un gesto purtroppo folle e col sacrificio di se stesso, scalfire il cuore della Chiesa che tanto lo aveva condannato, ma invano.
Il numero di suicidi fra i giovani omosessuali, di cui siamo venuti a conoscenza attraverso informazioni sotterranee, perché certo non si può pubblicamente ammettere che la vergogna di essere omosessuali conduca a togliersi la vita, è, in percentuale, più elevata tra i credenti. A chi la Chiesa continua a offrire questo olocausto?
Non certo a Dio, che sicuramente lo condanna, perché Dio è amore e rispetta i suoi figli. Mi sembra addirittura inverosimile che ci sia bisogno di convegni e leggi per affermare la propria dignità e i propri diritti, a cominciare da quello, fondamentale, di essere quello che si è, se stessi. Il perdersi nei meandri del pensiero alla ricerca del sesso degli angeli fa perdere di vista l’essenziale: il benessere spirituale delle persone.
Eppure la Chiesa ha fissato, nella Gaudium et spes, tutti i riferimenti possibili per il rispetto della persona umana e per l’accordo fra amore umano e dignità della vita: «Tutto ciò che viola l’integrità della persona umana come le torture inflitte al corpo e alla mente, le costrizioni psicologiche; tutto ciò che offende la dignità umana: tutte queste cose, e altre simili, sono certamente vergognose.
Mentre guastano la civiltà umana, disonorano coloro che così si comportano più ancora di quelli che le subiscono e ledono grandemente l’onore del Creatore» (GS 27). Come può allora l’istituzione Chiesa non provare senso di colpa per essere una delle cause più gravi del malessere dei nostri figli, anzi di tutta le nostre famiglie?
Noi non vogliamo, come tanto si dice, distruggere la famiglia – famiglia che è poi quella del Mulino bianco, spesso falsa e ipocrita, in cui si trovano incredibili violenze, ma unita fuori e benedetta da tutti – vogliamo solo integrarla con nuove voci, soprattutto con nuovi affetti, quelli che per troppo tempo sono stati negati e discriminati.
E spesso siamo noi a tenere insieme le famiglie, non certo la Chiesa cattolica o certi partiti che fingono di difenderle. Di fatto siamo riusciti a integrare i figli nelle famiglie accompagnando i genitori con riunioni mensili e io non ho mai trovato un genitore che abbia accettato immediatamente, senza problemi, l’omosessualità del proprio figlio o della propria figlia.
Gianni Geraci: Interviene ora Gustavo Gnavi, del gruppo Davide e Gionata di Torino, il quale racconterà la storia esemplare di alcune persone che, partendo dalla propria omosessualità e dalla comune esperienza di fede, hanno tentato di fare un cammino insieme.
Gustavo Gnavi: Il gruppo Davide e Gionata ha ormai 18 anni e può vantare una vita caratterizzata da molti alti e bassi. E’ un gruppo aperto, nel senso che non ha mai posto limiti alle persone intenzionate a frequentarlo e al tipo di attività da svolgere, naturalmente restando nella legalità e usando il principio democratico per cui si decide tutti insieme che cosa fare.
Si è definito «gruppo di gay credenti» – non solo cattolici, non solo cristiani – mettendo così in evidenza non tanto l’universalità del credere, ma piuttosto una certa indipendenza da una o più Chiese, da uno o più magisteri, e in particolare da quello cattolico, col quale si ha in realtà sempre a che fare, giacché la stragrande maggioranza delle persone coinvolte in passato e ora, è stata ed è cattolica. L’indipendenza dal magistero cattolico è anche evidenziata e resa tangibile da un fatto: l’assenza di un sacerdote.
E’ vero, se esistiamo è grazie a un sacerdote, se possiamo permetterci una sede invidiabile è grazie a un sacerdote, se abbiamo in certi casi una buona fama è grazie a questo sacerdote e al suo gruppo. Ma don Luigi Ciotti è per molti di noi come se non esistesse, in quanto riusciamo a incontrarlo, quando va bene, una volta l’anno, per Natale. Questo per i molti impegni che ha, ma soprattutto per una sua precisa scelta, quella di lasciare libero il gruppo.
Chiedo scusa ai sacerdoti che tanto hanno fatto e fanno in questo settore, ma personalmente – e sarà perché frequento da anni gli ambienti ecclesiali – credo che il sacerdote in un gruppo aperto debba essere alla pari con gli altri e soprattutto non debba avere responsabilità, altrimenti sarà purtroppo una palla al piede per le sue attività.
Sostengo questa mia affermazione con due semplici esempi: quando il gruppo Davide e Gionata ha proposto la pubblicazione del libro di John McNeill Libertà, gloriosa libertà alle Edizioni Gruppo Abele, don Ciotti ha avuto qualche problema con la curia torinese; così, quando abbiamo partecipato a una trasmissione televisiva, il fatto che il conduttore continuasse a mescolare gruppo Davide e Gionata, Gruppo Abele e don Ciotti, ha impedito a molti di noi di dire chiaramente quello che pensava.
Quali sono le difficoltà del gruppo «Davide e Gionata»? Un gruppo chiuso, ossia specializzato ad affrontare certe tematiche funziona un po’ come un ristorante vegetariano: offre solo ciò che i suoi clienti chiedono.
Un gruppo aperto ha invece il problema di offrire un po’ di tutto a tutti, il che è impossibile. Per cui si farà di tutto per dare molto a molti, finendo per dare qualcosa a qualcuno. Ho sempre sostenuto che un gruppo di gay credenti è difficile da gestire, perché molto diverso è il modo in cui ognuno di noi ha vive la sua sessualità e molto diverso è il modo in cui, ognuno di noi, vive la sua fede.
Tale difficoltà, ovviamente, aumenta in un gruppo aperto. Ma anche «Davide e Gionata» ha una propria specificità: essere un gruppo di credenti sorto per aiutare i gay che hanno difficoltà ad accettarsi a causa della loro fede e per approfondire le tematiche legate al rapporto fede-omosessualità. A volte io stesso ho l’impressione che ciò venga dimenticato e si debba ogni tanto trovare l’occasione per riflettere su questa specificificità dei nostri gruppi.
All’interno del gruppo Davide e Gionata si possono individuare essenzialmente tre tipi di persone: quelle che partecipano all’attività perché si trovano bene, quelle che sono interessate ad argomenti religiosi e quelle che preferiscono affrontare temi maggiormente laici. Se i primi fanno parte dell’arredo del gruppo, i secondi e i terzi contribuiscono a creare il susseguirsi degli alti e dei bassi.
Preciso qui che sto parlando di un gruppo di gay credenti e che parlo di momenti alti quando prevale l’aspetto religioso e di momenti bassi quando prevale quello laico proprio perché al primo tipo di incontri partecipano in media una decina di persone, mentre al secondo tipo di incontri ne vediamo mediamente 50. Questo non significa che le attività laiche che vengono proposte e realizzate nel gruppo siano poco importanti, anzi servono per dare al gruppo un taglio più aperto.
Il riferimento è fatto in relazione alla situazione specifica di un gruppo di gay credenti e alle caratteristiche senza le quali non avrebbe senso la sua stessa ragion d’essere. I momenti alti saranno quindi quelli in cui le persone si fanno coinvolgere su contenuti legati al rapporto tra fede e omosessualità, mentre quelli bassi saranno i momenti in cui prevale la voglia di stare insieme, di fare festa e di costruire di vivere un ambiente amicale.
In realtà, come ripeto ormai da anni, il vero problema dei gay credenti, cristiani o cattolici (e quindi dei nostri gruppi) non è tanto l’omosessualità, quanto il modo di vivere la fede.
Si tratta infatti di non accontentarsi di risolvere il proprio caso personale, per sentirsi con la coscienza a posto, ma di passare dal personale al comunitario per trovare strade che possano aiutare anche altri a vivere questa riconciliazione. E così capita che molti omosessuali credenti chiedono incontri di preghiera, momenti di riflessione e Messe private, ma spariscono quando si domanda loro di apporre una firma, di partecipare a una manifestazione, di discutere problemi che interessano un mondo più ampio del loro gruppo?
Nel nostro gruppo abbiamo sempre fatto il possibile per evitare di organizzare incontri chiusi dedicati alla preghiera o alla riflessione biblica, ritenendo che tutto ciò andasse fatto con gli altri, in mezzo agli altri, nei gruppi parrocchiali, con le altre associazioni: qualcuno l’ha capito, altri invece se ne sono andati, ma come ho detto prima, non possiamo fare e dare tutto a tutti.
E’ infatti fondamentale che il gay cristiano non si senta un essere troppo diverso dagli altri, al punto da volere le sue preghiere, le sue Messe o, addirittura, la sua Chiesa; ma che si senta parte viva e attiva, come molti altri, dell’unica Chiesa.
Allora il vero problema di gruppi come Davide e Gionata è la carenza di persone con una fede viva, profonda, che pur senza ignorarli, ma dando loro il valore che hanno, sappiano andare oltre i documenti, le lettere, le parole di un magistero più o meno ufficiale.
Una fede capace di presentare una corretta immagine dell’essere Chiesa, una fede che non porti a chiudersi, ma che imponga un aprirsi agli altri, che imponga l’essere omosessuali nelle Chiese, che imponga di far sentire la propria voce come omosessuali convinti e non pentiti. Tutto ciò non è facile perché una fede di questo tipo presuppone una visione di Chiesa che è ancora assente nella mentalità di molti laici e di molti preti.
Ma proprio per questo è ora che i gay cristiani si mettano a studiare teologia, che sappiamo discutere sullo stesso piano con chi continua a dire che il nostro comportamento è contro natura. E’ ora che i gay e i gruppi cristiani omosessuali escano allo scoperto, non con piume di struzzo e tacchi a spillo, ma con la consapevolezza di sapere e voler dare un contributo importante al cammino teologico e pastorale, soprattutto in tema di sessualità e diversità.
E’ ora che comunichiamo agli altri, dall’interno delle Chiese, quanto di bello e positivo vi è nel volersi bene e nel donarsi anima e corpo, anche tra persone dello stesso sesso. Tutto ciò lo può fare un gruppo aperto. Per me Davide e Gionata è sulla strada buona. E’ una strada ancora lunga. Speriamo che duri.
Gianni Geraci: Sentendo la relazione di Gustavo Gnavi sull’esperienza del gruppo Davide e Gionata ho un’ulteriore conferma delle profonde affinità che esistono con quella del Gruppo del Guado da cui invece provengo io. Forse preghiamo un po’ di più, ma per il resto facciamo le stesse cose!
Ed è significativo il fatto che, nonostante i due gruppi non abbiano più la consuetudine che c’era nei primi anni ottanta, i loro percorsi siano ancora così simili. Probabilmente, al di là delle situazioni specifiche con cui debbono fare i conti, i gruppi di omosessuali credenti, nel momento in cui scelgono di essere gruppi aperti, non possono evitare certi passaggi essenziali.
Dopo aver approfondito il rapporto tra esperienza di fede e condizione omosessuale nei vari nei gruppi di gay credenti cercheremo insieme di confrontarci con il vissuto di una persona che ha portato avanti il suo percorso come un cane sciolto che non ha mai sentito la necessità di far parte di un gruppo grazie anche alla sua formazione teologica e ai suoi intensi rapporti con alcuni ambienti ecclesiali. Do la parola a Giovanni Mapelli.
Giovanni Mapelli: Ho 40 anni e ho studiato in seminario per diventare prete, incontrandovi rettori forse paragonabili a certi gerarchi di epoca fascista e sviluppando una grande avversione nei confronti di queste autorità che pretendevano di avere sempre ragione. Uscito dal seminario, mi sono diplomato a Milano all’Istituto superiore di Scienze Religiose, che è collegato alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, e ho cominciato a insegnare religione a 22 anni, essendo il più giovane professore d’Italia.
Ho insegnato 12 anni. Ho sempre vissuto abbastanza bene la mia omosessualità, anche se essere una persona nota in un paese di 8.000 abitanti significava stare un po’ in vetrina. Ho parlato spesso di omosessualità coi miei studenti, inquadrandola nel discorso più ampio della sessualità. Dovevo stare attente a come trattavo questo tema, perché appena mostravo di prenderlo a cuore mi chiedevano se ero gay, ne parlavano a casa coi genitori, che poi interpellavano i presidi, i quali mi chiedevano spiegazioni.
La Curia ha sempre ricevuto le mie relazioni annuali sul programma scolastico, in cui facevo riferimento alle lezioni in cui affrontavo il tema dell’omosessualità, ma nessuno ha mai sollevato obiezioni finché, il 28 dicembre 1993, di ritorno da un incontro col segretario polacco di Giovanni Paolo II, di cui ero amico personale, in coincidenza con la fine di una mia relazione sentimentale e di una conseguente forte depressione, durata tre anni e della quale non potevo parlare né in Curia né in famiglia, ho deciso di scrivere una lettera al cardinal Martini, nella quale gli dicevo di essere omosessuale, gli spiegavo di non essere più in grado di insegnare perché avevo perso la mia serenità e gli chiedevo che cosa potessi fare.
Il cardinale non ha risposto subito e l’8 febbraio 1994, quando c’è stata la risoluzione del Parlamento europeo a cui è seguito un intervento del Papa, ho capito di essere al centro di un caso. Giovanni Paolo II, infatti, aveva detto in tono minaccioso, simile a quello usato ad Agrigento nei confronti della mafia: «Sono cose da non lasciar passare sotto silenzio».
Si poteva leggere in questa frase un riferimento al fatto che il cardinal Martini non avesse detto nulla, nel 1992, in occasione del matrimonio simbolico di alcune coppie di gay, davanti al Municipio di Milano, in Piazza della Scala.
Si trattava di un monito diretto a quei vescovi che tacciono, nello stile di un Papa che sa che cosa deve dire a tutti e su tutto, ben diverso da quello, caratterizzato dall’ascolto e dal dialogo, tipico del cardinale Martini.
Comunque, dopo alcune mie nuove sollecitazioni ho avuto finalmente una risposta da parte di monsignor Giovanni Giavini (responsabile diocesano del servizio insegnamento della religione cattolica) che mi ha proposto di cambiare lavoro e mi ha offerto un posto in banca.
Io non ho accettato questa soluzione, perché non mi interessava lasciare un lavoro che mi piaceva e anche perché mi sarei aspettato altro dall’arcivescovo di Milano, un cui segretario mi ha risposto che era giusto tutto quello che potevo dire sulla Chiesa e che il mio dramma personale si inseriva in un problema più generale, ma che non avrei mai dovuto parlarne sui giornali.
A quel punto ho capito che la Curia non mi voleva più: quando ci andavo i due monsignori che mi aprivano la porta scappavano via immediatamente e, quando mi sedevo, davano evidenti segni di nervosismo, tanto che non riuscivano a stare tranquilli sulla sedia e nemmeno a parlarmi tranquillamente guardandomi negli occhi. Sembravano impauriti: come se avessero di fronte il Diavolo.
Il cardinale, comunque, non mi ha più risposto. Allora io ho deciso di presentare la domanda di insegnamento della religione cattolica e, quando questa è stata respinta ho deciso di fare ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale che ha sentenziato che, essendo la decisione sull’idoneità all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole statali di competenza della Chiesa, gli uffici ecclesiastici preposti avevano facoltà di negarmela.
Il successivo ricorso che ho tentato di fare al Consiglio di Stato e alla Corte costituzionale è stato invalidato dalla presidenza dello stesso tribunale che ha sollevato alcune eccezioni formali.
D’altra parte so di non essere l’unico insegnante di religione che ha problemi di questo tipo: mi riferisco in particolare al caso di quella professoressa di Firenze licenziata dal cardinal Piovanelli, perché aveva un figlio pur non essendo sposata; oppure a quel professore divorziato e risposato che insegnava a Roma prima di essere licenziato dal cardinal Ruini nel momento in cui ha avuto un figlio dalle seconde nozze.
Si tratta di provvedimenti che vengono presi quando il «peccato» diventa di pubblico dominio. Tutti in curia sapevano che ero omosessuale, ma mi bastava non dirlo pubblicamente.
Questo silenzio sono riuscito a sopportarlo fino a quando, nel 1989, un giovane omosessuale che avevo conosciuto in Germania si è suicidato. Oggi scrivo su alcuni quotidiani (L’Unità, Il Manifesto) e collaboro con il mensile Pride. Sono in contatto con la cooperativa sociale Il sole nuovo che si occupa di disabili e lavoro nelle carceri.
Mi fa piacere che il cardinal Martini sia intervenuto al Sinodo dei Vescovi per l’Europa dicendo che la Chiesa deve rivedere le proprie posizioni sulla sessualità, ma sappiamo con quale freddezza sia stata accolta questa proposta.
Una volta ho scritto all’arcivescovo dicendogli che era troppo comodo correre dietro solo agli Ebrei, il cui olocausto è oggi unanimemente riconosciuto. Lo faccia pure, ma si ricordi qualche volta anche degli omosessuali, che sono calpestati ancora in un contesto in cui, un silenzio come il suo, pesa davvero.
Gianni Geraci: Abbiamo ascoltato il racconto di vari percorsi nella Chiesa cattolica. Ma in Italia ci sono anche altre chiese cristiane. Per questo motivo abbiamo invitato Giorgio Rainelli della Rete evangelica Fede e omosessualità (REFO), un coordinamento di persone che cerca di suscitare nelle Chiese protestanti storiche italiane l’attenzione nei confronti dei problemi degli omosessuali.
Questa mattina il pastore Plescan ci ha presentato le riflessioni di queste chiese su questioni che, come la benedizione delle coppie omosessuali o l’ordinazione di gay dichiarati, nella Chiesa cattolica vengono categoricamente escluse. Giorgio Rainelli ci racconterà come queste discussioni vengono vissute da un omosessuale credente.
Giorgio Rainelli: La REFO (Rete Evangelica Fede e Omosessualità) è nata solo nel gennaio del 1998, perché ci siamo resi conto che nelle Chiese evangeliche (valdese, battista, metodista, luterana) l’attenzione sul tema della sessualità andava scemando. L’atteggiamento culturale era di apertura, ma nelle comunità non se ne parlava. Abbiamo quindi convocato una prima assemblea nella quale sono emerse molte idee.
Abbiamo però deciso di concentrarci sulla questione dell’omosessualità, sollecitati da alcuni fatti avvenuti negli ultimi anni come quello che ha visto la Chiesa battista di Cagliari spaccarsi perché un suo componente che doveva essere battezzato si è dichiarato omosessuale. In altri luoghi queste situazioni hanno portato a decisioni diverse senza provocare profonde fratture.
A Cagliari la frattura è stata profonda e ci ha spinto a intraprendere un azione concreta per promuovere l’accoglienza delle persone omosessuale da parete della base delle Chiese, più che da parte dei vertici delle Chiese stesse, dei Sinodi, che spesso finiscono con il fare delle belle dichiarazioni che però corrono il rischio di essere largamente disattese dalle comunità locali che non riescono a superare il cliché dell’omosessuale che va in giro con le piume di struzzo e con i tacchi a spillo, o della lesbica che veste da macho e che tocca i bambini.
Io sono monitore (catechista, n.d.r.) in una comunità battista che però ha un taglio ecumenico, e lì nessuno ha mai posto obiezioni legate al fatto che io sia omosessuale. Ci sono però altre comunità in cui l’omosessualità di un monitore verrebbe vista come un problema.
La REFO non è un’associazione, ma una rete, nel senso che è composta di singole persone (pastori, laici, evangelici, cristiani senza Chiesa, cattolici «scappati»), le quali poi operano nelle loro comunità.
Pubblichiamo un bollettino quadrimestrale d’informazione, promuoviamo un convegno nazionale di studio ogni anno (nel 1998 su Diverse famiglie… famiglie diverse, nel 1999 su L’etica dei diritti: quali priorità?). A livello locale esistono gruppi inseriti nelle comunità, alle quali cercano di far capire che siamo tutti figli di Dio e che il rapporto di ciascuno col Padre non cambia se si è gay, lesbica o transessuale.
Quello di Roma, a cui io appartengo, è piuttosto numeroso e si riunisce presso il Tempio Valdese. La nostra attività si concentra nel condurre una riflessione non propriamente teologica – preghiamo poco, una preghiera all’inizio, qualche volta alla fine – e nel fornire una consulenza sul tema dell’omosessualità, come è avvenuto quest’anno, quando siamo stati interpellati per parlare di omosessualità in un campo per preadolescenti dedicato alla sessualità.
Gianni Geraci: Dopo aver visto quello che succede in Italia abbiamo deciso di dare un’occhiata anche a quello che succede in altri paesi europei. Per questo motivo abbiamo chiesto a Piergiovanni Palminota, che per conto del Gruppo del Guado partecipa da anni agli incontri di Pentecoste del Forum europeo dei gruppi cristiani lesbici e gay di cui è stato anche presidente, di descriverci brevemente la situazione del movimento degli omosessuali credenti negli altri paesi europei.
Piergiovanni Palminota: In Italia i gruppi di omosessuali cristiani, in gran parte formati da cattolici, esistono dal 1980, quando, per merito del compianto Ferruccio Castellano, nacque a Torino il gruppo Davide e Gionata, sull’esempio dell’omonimo movimento francese, e iniziò la serie, tutt’ora in corso, dei convegni che ogni estate si tengono al Centro ecumenico di Agape.
Da allora ne sono sorti diversi in tutta Italia, ma molti hanno avuto vita effimera: la semiclandestinità, la scarsa visibilità, il numero ridotto e l’elevata mortalità dei gruppi caratterizzano una realtà italiana di movimento debole.
All’estero questo genere di esperienze è antecedente e si sviluppa in modo molto differente da quello italiano. Nei Paesi Bassi, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna i gruppi di omosessuali credenti erano nati negli anni sessanta, in Francia nel decennio successivo e oggi il movimento David et Jonathan ha sezioni dislocate su tutto il territorio nazionale, così come avviene in Germania e in Austria con Homosexuelle und Kirche.
Certo, se guardiamo ai 2000 anni di cristianesimo, questi tentativi di portare avanti un discorso omosessuale nelle Chiese sono recentissimi e hanno uno spazio quasi esclusivamente nei Paesi Bassi, in Francia, in Germania, in Italia, in Austria, nei paesi scandinavi, negli Stati Uniti e, moto più di recente, in Spagna. Nel resto della cristianità, compresa le Chiese evangeliche dei paesi del Sud del mondo e le chiese ortodosse, il silenzio sull’argomento è totale, anche se non si può escludere che esistano gruppi clandestini.
Ciò non toglie che la posizione degli omosessuali possa essere valutata in modo diverso dalle varie Chiese, soprattutto da quelle protestanti, nei differenti paesi, tanto da rendere forse superflua l’esistenza di gruppi di omosessuali credenti.
Il primo tentativo di coordinamento dei gruppi omosessuali cristiani presenti in Europa risale all’inizio degli ani ’80, per opera del sacerdote francese Emile Letertre e aveva come finalità quella di consentire uno scambio di esperienze.
Questo coordinamento assunse ben presto il nome di Forum europeo dei gruppi cristiani lesbici e gay, cui aderisce un numero crescente di realtà e che si riunisce una volta l’anno, svolgendo una funzione di reciproca informazione e affiancando il Consiglio Ecumenico delle Chiese nella sua riflessione sull’omosessualità. Di più, il Forum, non può e non vuole fare, anche perché le sue forze sono molto limitate.
In questo organismo l’Italia è formalmente rappresentata ormai solo dal gruppo Davide e Gionata di Torino e dal Gruppo del Guado di Milano. Di fatto però tutto si risolve nella partecipazione di un solo rappresentante dei due gruppi all’incontro annuale e nel pagamento della quota di adesione. Si tratta quindi di una presenza quasi simbolica. Sarebbe invece auspicabile un’adesione di tutti i gruppi italiani vitali e una loro partecipazione attiva a un’esperienza che testimonia un impegno fattivo di omosessuali cristiani a livello continentale.
Gianni Geraci: Dopo sguardo sintetico d’insieme, torniamo ad occuparci di un’esperienza particolare. Nella Chiesa cattolica italiana abbiamo visto che «tutto tace» mentre le poche voci del magistero che si levano a parlare di omosessualità lo fanno con una preoccupazione e una paura che non lasciano intuire alcuna apertura. Ricordo ancora il vescovo di una diocesi piemontese che, di fronte alla mia richiesta di dire qualcosa sull’omosessualità, mi rispose: «Credo che sia meglio tacere, perché mi accorgo che spesso, in miei confratelli, quando parlano di omosessualità, rischiano di dire delle sciocchezze».
Non si poneva il problema che quelle sciocchezze rischiano di diventare la posizione di tutta la chiesa italiana, visto che i prelati che hanno paura di dire delle sciocchezze evitano e che sentono il bisogno di informarsi prima di affrontare un argomento, non se la sentono di parlare. Fuori dall’Italia ci sono però dei luoghi in cui l’episcopato ha avuto il coraggio di confrontarsi col problema dell’omosessualità ed esistono delle diocesi che hanno finalmente deciso di farsi carico del lavoro che in Italia i gruppi di omosessuali credenti portano avanti in solitudine.
Per conoscere meglio queste realtà abbiamo invitato Gerd Ihrenberger e Christian Stecher, che fanno parte del Gruppo di lavoro sulla pastorale con le persone omosessuali della diocesi di Innsbruck.
Nel presentare la loro esperienza mi hanno chiesto di sottolineare quel «con» che caratterizza il nome del gruppo: c’è infatti una grande differenza tra una pastorale pensata e fatta «per» le persone omosessuali e pastorale pensata e fatta «con» le persone omosessuali. Abbiamo chiesto loro di raccontare l’esperienza di un gruppo che opera alla luce del sole all’interno della Chiesa.
Chiudiamo la tavola rotonda con questo intervento perché esso si apre su uno scenario che ci invita alla speranza: forse, con il tempo, anche in Italia, riusciremo a superare la pigrizia e l’ipocrisia.
Christian Stecher: La nostra esperienza è cominciata nel 1993, quando il vescovo di Innsbruck, monsignor Reinhold Stecher, convocò un Forum diocesano, in cui il gruppo locale Homosexuelle und Kirche presentò tre proposte: la fondazione di un gruppo incaricato di elaborare un documento su «Omosessualità e fede» in cui fossero contenute anche direttive pastorali, l’organizzazione di incontri educativi, la nomina di un padre spirituale per le persone omosessuali. Queste idee furono accolte dall’assemblea e dal vescovo.
Così, alla conclusione del Forum diocesano, nel 1995, si è costituito un gruppo ecumenico, formato da agenti di pastorale, oltre ai quali ci sono donne e uomini omosessuali e membri dei rami maschile e femminile dell’Azione cattolica diocesana. Nei tre anni seguenti abbiamo organizzato un ciclo di conferenze, sempre precedute da colloqui tra relatore e i componenti del gruppo, con esperti di teologia e scienze umane, per approfondire l’argomento nei suoi diversi aspetti e da differenti punti di vista. Quest’attività dovrebbe continuare anche in futuro.
In questo triennio abbiamo poi elaborato un documento, che ci pare molto in consonanza con quanto hanno detto qui da Gregorio Plescan e da Giannino Piana, il quale va anzi ancora più avanti di noi. Anche per questo siamo felici di essere qui, perché vediamo che pure in Italia e in altri paesi ci sono persone con le nostre idee. Non siamo soli e questo ci dà forza per andare avanti insieme. Il documento utilizza le scienze umane e l’esegesi biblica, sottolineando, per esempio, che nell’Antico Testamento – di questo stamattina non si è parlato – l’omosessualità è usata come sessualità cultuale, non c’è la conoscenza dell’essere omosessuale in quanto tale.
Un altro scopo del nostro lavoro era quello di stimolare il dialogo coi responsabili della diocesi e con le persone omosessuali appartenenti al gruppo o al di fuori di esso. Abbiamo quindi sostenuto la necessità di trasformare il nostro gruppo, creato solo per il periodo necessario a elaborare il documento, in un organismo diocesano permanente, e nominare operatori pastorali per gli omosessuali otto persone del nostro gruppo superando quindi l’idea di nominare un solo padre spirituale.
«Cura d’anime» vuole dire pure accompagnamento dei parenti più vicini: abbiamo quindi fondato anche un gruppo di genitori di figli e figlie omosessuali per dare ai familiari uno spazio in cui scambiarsi opinioni e confrontarsi sui problemi che vivono nel rapportarsi all’omosessualità dei loro figli. Ad esso partecipa pure una psicoterapeuta che appartiene al nostro gruppo diocesano.
Nel 1998 il vescovo, monsignor Alois Kothgasser, ha accettato ufficialmente il nostro documento, sia pur come espressione del gruppo responsabile della pastorale con le persone omosessuali e come balse per un dialogo della diocesi con gay e lesbiche, e non ancora come posizione della diocesi in quanto tale.
Ha inoltre delegato otto membri, uomini e donne, del gruppo come operatori ufficiali per la pastorale con persone omosessuali della diocesi. Queste sono una psicoterapeuta, il gesuita padre Hans Rotter, teologo moralista dell’Università di Innsbruck, due preti, una pastora della Chiesa evangelica e tre laici impegnati, tra cui Gerd Ihremberger che è qui con noi.
Da quel momento il gruppo ha potuto agire come realtà diocesana ufficiale. Abbiamo deciso di usare le strutture della Chiesa per raggiungere le persone che vivono in campagna, nelle valli del Tirolo, e devono nascondersi a causa della loro omosessualità. Ci siamo incontrati coi decani e abbiamo presentato loro il documento, fornendo anche un foglio di presentazione del nostro gruppo e di quello dei genitori. Era un passaggio necessario per raggiungere anche i parroci di campagna.
Poi abbiamo cominciato a visitare i decanati e speriamo che i parroci mettano a disposizione i nostri fogli in un posto ben visibile in chiesa, così che chiunque abbia problemi con se stesso o con gli altri possa trovare un’occasione di aiuto, o di ascolto o, se lo vuole, di accompagnamento spirituale.
Tutto questo può sembrare un lavoro facile, ma non si deve dimenticare che è un cammino in atto da sei anni e ancora non abbiamo raggiunto le persone nascoste, cioè quelle che sicuramente hanno maggior bisogno di aiuto. Per loro sarebbe necessario che anche nelle chiese dei paesi più dispersi si trovasse almeno un foglio con un numero telefonico cui rivolgersi per avere aiuto. E finché nel Tirolo ci sarà anche una sola persona che tenterà il suicidio a causa della propria omosessualità, il nostro lavoro non finirà.
Gerd Ihrenberger: Sono sposato, ho tre figli e mi ci è voluto molto tempo per accettare di essere gay. Le cause delle mie difficoltà sono state di natura sociale e religiosa. Ho incontrato un anziano prete che mi ha aiutato molto ad accettarmi come sono e ad andare avanti.
Quando ho accettato la mia omosessualità ho parlato con mia moglie, dicendole che poteva lasciarmi o rimanere con me, pur con la mia omosessualità. Dopo averne molto discusso abbiamo deciso di restare insieme. Ora siamo sposati da 34 anni e siamo felici.
Quando alcuni anni fa mi hanno proposto di partecipare a questo gruppo diocesano, ho accettato volentieri e ora sono un operatore pastorale incaricato di accompagnare le persone che non riescono ad accettare la propria omosessualità, o che hanno difficoltà in famiglia o al lavoro, o che sono genitori e parenti di gay e lesbiche.
Voglio raccontare alcune storie che illustrano il mio lavoro. C’è l’esempio tragico – e non raro – di un giovane di 19 anni che si è suicidato, dopo che la pressione dei genitori e della nonna ne aveva fatto un relitto dal punto di vista psicologico.
Ci eravamo incontrati alcune volte e in queste occasioni aveva potuto parlare delle sue difficoltà, riuscendo a convincersi che forse la sua vita poteva avere un senso ed essere felice.
Quasi tutto sembrava a posto, finché sua nonna ha scoperto che lui era omosessuale e, con argomenti religiosi fondamentalisti e sociali, ha esercitato una grande pressione su di lui, che ha finito per avere un esaurimento nervoso che l’ha portato al suicidio. Dopo la sua morte, la nonna è venuta da me per sapere le ragioni del suicidio del nipote.
Quando ha capito i motivi è andata a casa e dopo alcuni giorni si è uccisa anche lei. Prima mi ha però scritto una lettera, in cui diceva di essersi sacrificata a Dio per suo nipote che si era suicidato e per mostrare alla Chiesa che la sua posizione non era giusta. Su questo la nonna aveva ragione: la Chiesa qui non rispetta il comandamento di Gesù, che ha detto: «Ama il prossimo tuo come te stesso».
La seconda storia è molto più allegra e mi inorgoglisce un po’. Una sera mi ha telefonato una donna disperata, chiedendo di potermi parlare. Non sapeva che cosa fare, perché il marito le aveva confessato di essere omosessuale e lei non riusciva a sopportare questa situazione.
Dopo alcuni colloqui con me e mia moglie, ha scoperto che è possibile vivere questa situazione. Oggi lei e il marito sono una coppia felice e impegnata nella Chiesa e a livello sociale. Anche i figli hanno accettato l’omosessualità del padre. Questa storia mostra l’importanza di gruppi in cui si realizza l’accompagnamento di persone disorientate.
La terza storia riguarda una lesbica che ho conosciuto due anni fa, la quale accettava pienamente la propria omosessualità, ma viveva un rapporto conflittuale con la Chiesa. Ella era stata spesso offesa nella sua diocesi – che non era Innsbruck – e non poteva continuare a vivere questo scontro con la sua Chiesa, né sapeva che fare della propria fede.
Dopo un’amicizia prolungata e molte discussioni, quando le ho raccontato dell’esperienza della diocesi di Innsbruck, ha deciso di rientrare nella Chiesa e oggi è una persona molto critica, ma molto impegnata.
Ciò sottolinea l’importanza di gruppi in cui ci sia posto per persone che hanno abbandonato la Chiesa e non sanno che fare della propria fede: attraverso di essi forse possono sperimentare nuovamente un’appartenenza ecclesiale o almeno trovare un proprio spazio.