Teologia femminista. Nel mondo nuovo, spazio a ogni diversità
Articolo di Giuseppina D’Urso* pubblicato sul settimanale Adista Segni Nuovi n°17 del 2 maggio 2020, pp.14-15
Il percorso a spirale intrapreso dalla teologa e pastora battista Elizabeth E. Green, da cui trae origine il titolo della sua ultima fatica letteraria (Un percorso a spirale, Claudiana 2020), delinea un cammino in dieci capitoli o tappe del pensiero teologico declinato al femminile proteso verso il futuro passando da rinnovati inizi (la metafora della spirale) che fa della resistenza il proprio perno.
Per comprendere cosa significhi fare teologia, o pensare al femminile, nel secondo decennio del XXI secolo entro un’architettura di pensiero ancora fortemente androcentrica nelle Chiese, ma più in generale nella società.
Come il profeta Elia (1 Re, 19), che si ritira nel monte Oreb sentendosi sconfitto e solo nella sua battaglia contro le false divinità, viene richiamato da Dio: «A essere importante non è tanto “il suono dolce e sommesso” che ci affascina così tanto, bensì ciò che Dio dice. E Dio dice di riprendere i bagagli e di rifare la strada. Di ripercorrere lo stesso cammino di prima. Ed è esattamente ciò che fa la resistente. Non si ritira nella spelonca. Non costruisce una tenda sul monte. Ritorna nella mischia per restarci» (pag. 134).
Parte fondamentale della sfida femminile è nel linguaggio. Giustamente tanta teologia femminista si chiede se le donne possano parlare e se nel farlo non si omologhino ai modelli maschili, riproducendo situazioni di dominio.
È nel linguaggio che gli stereotipi di genere modellano la visione con cui leggiamo il mondo. Diventa di conseguenza necessaria la decostruzione e la successiva ricostruzione della Parola, all’interno di una teologia cristiana finora espressa al maschile dove Dio Padre è maschio. La Sophia è donna, e nel prologo del vangelo di Giovanni Dio, Parola e Gesù vengono identificati.
Del resto Gesù può essere interpretato, traendo anche spunto dalla tradizione sapienziale neotestamentaria, proprio con la Sophia dimostrando semplicemente «l’adeguatezza della parola femminile per dire Dio nonché l’inevitabile parzialità di un Dio declinato esclusivamente al maschile» (pag. 115).
Significativa la prima tappa del percorso dedicata alla parabola che nel vangelo di Luca (cap. 15) raffigura il Padre come la donna che cerca la dracma perduta. Il Padre è quindi anche donna che non esclude dal proprio amore nessuno e ricerca chiunque si sia perduto o escluso dalle varie forme in cui ogni società normalizza l’appartenenza identitaria al proprio interno.
Nel cristianesimo tale normalità è venuta delineandosi nella figura del maschio, bianco ed eterosessuale. Ma i vangeli narrano della Parola rivolta agli ultimi, agli emarginati, partendo dalle figure femminili che rivestono una particolare importanza nel discepolato di Cristo; e proponendo una “teologia della liberazione” che parli a tutte le cosiddette diversità, cui sono dedicati sotto angolature differenti i capitoli 4 e 5: «Non c’è più Giudeo, né Greco» afferma Paolo nella lettera ai Galati. E così nell’amore di Dio nessuno è escluso, perché tutti abbiamo peccato e tutti siamo stati redenti dalla Grazia di Cristo, scrive sempre Paolo nella lettera ai Romani (seguendo un’interpretazione tanto cara al cristianesimo riformato cui la pastora Green appartiene).
Nessun pulpito di giudizio morale entro cui categorizzare gli esseri umani è permesso. Quindi ogni diversità dalla norma sopra esposta è inclusa nel nuovo mondo: le donne, chi appartiene ad altre etnie umane, i poveri, gli omosessuali. Ed ogni periferia viene riscattata, a patto che tali soggetti non si accontentino dello spazio concesso loro dal centro.
Capitoli importanti sono dedicati alla violenza maschile, che nascerebbe dalla paura di perdere un’identità che si formerebbe nella costruzione del nemico e del confronto proprio con la donna; alla non violenza nel tentativo di superare un’ottica riduzionistica che appiattisce la donna nella dimensione della cura.
Alla sessualità specie come viene intesa nel cristianesimo protestante; alla maternità anche in questo caso nel difficilissimo compito di svincolarla dall’immagine della donna come madre relegata alla sfera privata. Infine merita una menzione particolare il capitolo 8 fondamentale per il tema di una corporeità vista «in modo che chi legge trovi una pista che porti i nostri corpi di donne da luogo di dominio patriarcale a luogo di spiritualità incarnata» (pag. 109).
Da segnalare il ricchissimo contributo di riferimenti alla teologia femminista, e non solo.
* Giuseppina D’Urso è volontaria de La Tenda di Gionata e del Gruppo Kairòs di Firenze, nonché collaboratrice di Pax Christi Italia