Testimonianze di fede. I famigliari cristiani di persone lesbiche, gay, bisessuali e transessuali si raccontano
Dossier realizzato da Lidia Borghi* per il Progetto Gionata, 6 Luglio 2011
L’inchiesta che segue è nata dall’esigenza di dar voce, per la prima volta in Italia, ai famigliari cristiani di alcune persone LGBT [1], al fine di comprendere che cosa essi pensino dell’omonegatività sociale [2] della chiesa cattolica.
È per questo motivo che le volontarie ed i volontari del Progetto Gionata [3], il portale italiano dei credenti LGBT italiani, mi hanno chiesto di lavorare al reperimento delle tante testimonianze di fede ed alla stesura finale di questa indagine, impreziosita da un intervento di Giancarla Codrignani, una delle attiviste civili femministe più importanti d’Italia che, da decenni, si occupa di divulgare i saperi delle donne da un punto di vista cristiano.
La particolarità più rilevante di questo documento sta nel fatto che, accanto alle testimonianze di madri, padri – fra cui uno non biologico – e sorelle credenti che appartengono a diversi indirizzi spirituali, vi compaiono i contributi di alcuni preti, da anni impegnati a portare avanti una pastorale dedicata alle persone con orientamento sessuale e con identità di genere “altri” rispetto alla presunta norma eterosessuale vigente nel nostro Paese.
L’elemento che, più di tutti, è stato posto in risalto dalla gran parte delle persone da me intervistate, è quello della loro appartenenza alla religione di Gesù Cristo, grazie al messaggio d’amore ed inclusione contenuto nei Vangeli, il che mi ha spinta a parlare di famigliari “cristiani” e non “cattolici”.
Molti genitori, infatti, hanno teso a sottolineare che si sono distaccati in modo netto dalla chiesa cattolica in quanto istituzione: è la sua gerarchia ad essere stata da loro accusata – spesso senza mezzi termini – di non mettere in pratica il messaggio evangelico e di aver bollato le persone LGBT come immorali.
Le testimonianze che ho ricevuto, poco meno di venti, – cui ho inframmezzato l’intervento di una donna di cultura e le considerazioni di tre sacerdoti impegnati in una pastorale dedicata alle persone LGBT – hanno garantito alla mia indagine una grande varietà di pensiero. Questo particolare mi ha indotta a trarne un libro-inchiesta che diventerà una grande testimonianza corale, la prima, nel nostro Paese, a dar voce ai famigliari cristiani di persone LGBT.
LE TESTIMONIANZE DEI FAMIGLIARI ED I CONTRIBUTI DEI SACERDOTI
Una madre ancor giovane
Susanna ha quarantotto anni ed è la madre di un ragazzo di ventiquattro anni, Matteo. Quando la donna venne a sapere che l’orientamento sessuale del figlio non era quello che lei si era immaginata, prese la cosa con grande negatività.
Poi si rese conto di aver sommerso Matteo con un masso enorme e di averlo ferito fin nel profondo e comprese che si stava sbagliando, poiché seguiva in modo pedissequo la “tradizione culturale e cattolica”, come mi ha rivelato lei stessa.
Aggiunge Susanna: «Poi sono nate le paure degli ambienti che poteva frequentare, immaginando chissà quale inferno. (…)
Il messaggio che arrivava a Matteo era che non mi fidavo di lui. Ma non era cosi, perché mi sono resa conto che sono tante le paure che accomunano tanti genitori di figli adolescenti, a prescindere dal loro orientamento sessuale. Paure che, comunque, in parte hanno origine nell’educazione ricevuta (di tipo cattolico. N.d.a.).
Matteo mi ha insegnato tante cose, tra cui la visione dell’insieme delle religioni; è con lui che ho imparato a conoscere in parte altri modi di credere, anche se resto dell’idea che, comunque si possa chiamare, tutti crediamo».
Anche la sorella e la madre hanno contribuito ad aiutare Susanna a comprendere ed oggi Matteo ha un compagno neo diplomato che frequenta con regolarità la sua casa. Pure suo figlio è spesso insieme ai genitori del fidanzato, magari in occasione delle feste religiose.
Quando le ho chiesto che cosa pensasse dell’ostracismo riservato dalla chiesa cattolica alle persone omosessuali, Susanna ha risposto: «sono sempre riusciti (i preti cattolici. N.d.a.) a far credere alla gente l’esistenza del paradiso e dell’inferno per (…) poter avere in mano non solo la mente ma anche l’anima delle persone, incutendo paura e sofferenza, già solo se non frequentavi la chiesa, ad esempio». (Genova, aprile 2011)
Una madre ed un padre
Maura e Mario sono i genitori di Silvia, 26 anni, una giovane lesbica che ha subìto una pesante discriminazione all’interno del gruppo ACR[4] della parrocchia di cui faceva parte. I due, che frequentano i gruppi mensili della sezione genovese di AGeDO[5], non dimenticheranno mai il 2004.
Lo avvertono come un anno cruciale, una sorta di annus terribilis, durante il quale vennero a sapere dell’omosessualità della figlia. Dolore, rabbia ed un sordo risentimento animarono, fin da subito, soprattutto la madre della giovane.
Maura aveva appena ricevuto una diagnosi terribile, per la sua salute: un “gravissimo problema visivo”, come lei stessa lo ha definito, le provocò uno scoramento che, ne è sicura, contribuì ad acuire il sentimento di avversione nei confronti di Silvia.
«Dapprima avevo preso la cosa con discreto ottimismo – afferma Maura – e l’avevo assolutamente accettata, intanto sarebbe certo cambiato tutto, era una faccenda passeggera, una cosa da ragazzi, l’ultimo colpo di coda dell’adolescenza, poiché Silvia aveva all’epoca diciannove anni.
Invece il tempo passava ed all’ottimismo iniziale si erano sostituite la disperazione e la rabbia contro tutti coloro che reputavo in qualche modo responsabili della situazione di mia figlia».
Poco tempo dopo la donna scoprì l’AGeDO (Associziazione di Genitori di Omosessuali) di Milano e poté, infine, uscire da quel torbido periodo di “confusione ed ignoranza” – sono parole sue – che le avevano impedito di accettare con serenità la condizione umana della figlia: «L’unica idea ragionevole non mi aveva minimamente sfiorata, ovvero quella di cercar la spiegazione semplicemente nella natura che rende le persone uniche ed irripetibili nella loro originalità. Sono riuscita con mia figlia a stabilire un accordo e un’intesa che ci ha legate ancor più profondamente rispetto al passato.
Se amavo Silvia di un amore sconfinato, tale amore è raddoppiato poiché ho ritrovato mia figlia e l’ho ritrovata nel momento in cui ho capito che dovevo lasciarla libera di seguire la sua natura, i suoi sentimenti e le ragioni del suo cuore».
Durante un pomeriggio trascorso insieme, ho chiesto a Maura come viva oggi l’ostracismo della chiesa cattolica nei confronti delle persone omosessuali e lei mi ha risposto di essere “molto arrabbiata”: «Silvia è stata emarginata e messa fuori dal suo gruppo di giovani cattolici.
Quelle persone non avevano alcun diritto di giudicarla. Si sono accorte che qualcosa, secondo loro, non andava perché Silvia giocava a calcio. Don Fernando (il parroco di allora. N.d.a.) non ci vedeva nulla di male: “Ce ne fossero di persone come Silvia!”, ha commentato. Mia figlia, subito dopo essere stata discriminata, non ha mai più frequentato il gruppo e la parrocchia, la maggior parte dei cui esponenti le ha tolto il saluto, motivo per cui io ero, all’epoca, molto triste. Don Fernando era dispiaciuto quanto me». (Genova, aprile 2011)
Storia di una famiglia arcobaleno tra Genova e Savona
Francesco Serreli ha cinquant’anni e vanta un passato di attivista dei diritti civili all’interno dell’Arcigay di Genova, in qualità di presidente. Ama Edo, 51 anni, il cui figlio, Stefano, nato dal matrimonio con una splendida donna che non c’è più, è un giovane studente di medicina, bisessuale, che vive sotto lo stesso tetto con papà e papà.
Francesco si definisce “credente ma non praticante“ e spiega il perché: «Non mi sento di far parte di una chiesa dove i vertici non accettano e non riconoscono la mia persona e la mia relazione, li trovo disumani e poco coerenti con il messaggio d’amore di Gesù Cristo. Non voglio e non mi interessa aver nulla a che fare con questa gente, io so che Dio mi ama per quello che sono e mai mi condannerebbe, perché condannerebbe se stesso che mi ha creato gay».
La madre di Francesco non ha mai accettato l’omosessualità di suo figlio; questa opposizione è diventata, con il tempo, ancor più fiera, poiché – dice lui – la donna fa parte di un movimento religioso integralista cattolico (i Focolarini[6]. N.d.a.) che condanna come peccaminosi i rapporti d’amore fra persone dello stesso sesso: «mia madre non riconosce la mia famiglia, tanto da non volerne sentire neanche parlare (…); questa è per me una grande sofferenza, tanto che ho scelto di vivere la mia storia d’amore e sono ormai quasi sei anni che non la vedo; la mia famiglia ora sono Edo e Stefano.
A differenza dei parenti di Edo, pochissimi dei miei sanno di me e della mia vita, ma con nessuno ci si frequenta o ci si sente, vista la distanza che ci separa. Solo una cugina sa tutto sin dall’inizio e mi ha sempre appoggiato nelle mie scelte».
Malgrado Francesco non sia il padre biologico di Stefano, lo ama come se lo avesse concepito e si preoccupa per il suo futuro, soprattutto quello sentimentale. Il suo “figlioccio”, come lui a volte lo chiama, per ora è single, ma non perde occasione per mettere a parte i suoi due padri dei desideri e dei sogni di un ragazzo come tanti, che vorrebbe incontrare una persona da amare davvero. (Savona, aprile 2011)
Un padre ed un prete
Il gruppo AGeDO di Foggia[7] nacque nel 2010 e venne fondato da Gabriele Scalfarotto[8] insieme a Maria e Tonino, la madre ed il padre, cattolici, di un giovane gay, insieme a don Dino D’Aloia e don Michele De Paolis, l’uno creatore di Casa Eirene, un centro d’accoglienza per persone disadattate, l’altro storico ideatore ed instancabile animatore della Comunità Emmaus di Foggia: «Don Michele e don Dino, due preti scomodi – sono parole di Gabriele –. Amati dai più umili.
Circondati da emarginati dignitosi e da volontari, si sono subito resi disponibili a sostenere questo ateo rispettoso (Gabriele. N.d.a.), intento a una dura battaglia sui diritti del popolo LGBT e con lui a combatterla e a vincerla».
Don Michele, classe 1921, ha risorse inesauribili: veste sportivo, gestisce con dimestichezza il PC, la posta elettronica e il Web, ha un profilo su Facebook e la sua prosa è snella e scorrevole.
Senza arzigogoli o giri di parole va dritto al punto: «Oggi l’atteggiamento della Chiesa nei confronti degli omosessuali è severo, disumano e crea tanta sofferenza, affermando che l’omosessualità è peccato. (…)
Alcune persone di chiesa dicono: “Va bene essere omosessuali, ma non debbono avere rapporti, non possono amarsi!” È la massima ipocrisia. È come dire a una pianta che cresce: “Tu non devi fiorire, non devi dar frutto!”. Questo sì, è contro natura!»
Don Michele è strenuo fautore della necessità di estirpare i pregiudizi dalle menti e dai cuori delle tante persone che incontra sulla sua strada di sacerdote. A lui sembra il meno che possa fare chi, ogni giorno, mette in pratica il Vangelo. Laico o religioso che sia. (Foggia, aprile 2011)
L’accoglienza di un presbitero salesiano
Don Piero Borelli si definisce “un battitore libero”. Quando giunse a Genova, un anno circa prima del Gay Pride nazionale del 2009, non pensava che sarebbe rimasto a lungo nel capoluogo ligure.
Da allora sono passati diversi anni, durante i quali ha avviato e curato diversi progetti di accoglienza pastorale: uno per le persone separate e divorziate, il secondo per la numerosa comunità latinoamericana della sua parrocchia e il terzo dedicato ad un gruppo formato, a queltempo, di lesbiche e gay credenti.
Quando don Piero contattò l’allora presidente del comitato provinciale genovese di Arcigay, Francesco Serreli, al fine di invitarlo in parrocchia – insieme ad una lesbica di nome Laura – a rilasciare una testimonianza personale sul suo difficile cammino di gay credente, il mondo omosessuale era per lui sconosciuto, «se si eccettuano – così mi racconta durante un’intervista – rari incontri in confessionale, durante i quali mi muovevo a disagio e stavo male mentre ascoltavo i racconti di persone che mi confessavano la loro realtà. (…)
C’era da parte mia una grande impotenza. Riuscivo solo a dare una risposta che predisponesse alla serenità. Era, la mia, una risposta di assoluzione».
Da quel primo, timido approccio sono passati due anni, durante i quali questo prete di frontiera ha voluto mettere insieme un vero e proprio gruppo di persone LGBT che, con costanza e tenacia, ha portato avanti, mese dopo mese, attraverso incontri di riflessione e di preghiera con proficui scambi di idee.
Durante l’ultima riunione, tenutasi in parrocchia lo scorso mese di maggio 2011, don Piero ha affermato, poco prima della consueta recita del Padre Nostro: «Il coraggio della verità vince». (Genova, marzo 2011)
Una madre cattolica praticante
Grazia (ndr nome di fantasia) è una persona ultrasettantenne; è madre di Cinzia, la figlia lesbica quarantenne la cui compagna, V., viene definita, ancora oggi, dalla donna, “l’amica”, nonostante sua figlia tenda, ogni volta, a sottolineare che la sua non è un’amica, ma la persona amata.
Quando Cinzia fece il suo coming out[9] in famiglia, Grazia ricorda di aver lanciato un grido di disperazione. Stando al suo racconto, pare che il papà della ragazza abbia accolto la notizia con angoscia, mentre il fratello avrebbe manifestato incredulità.
Per quel che riguarda gli altri esponenti della famiglia, solo lo zio e la cugina sanno, mentre «ad amici e conoscenti – continua – non ritengo sia giusto raccontare i fatti nostri. Battutine e commenti (anche se velati) sono difficili da ingoiare».
Il suo pensiero in merito all’omosessualità giunge ad una biforcazione quando, nell’esprimere il suo parere a proposito delle persone velate, come “l’amica” di Cinzia, asserisce di essere alquanto irritata dal di lei atteggiamento poiché, mentre V. può trascorrere le feste cattoliche con sua figlia, lo stesso non accade all’interno della famiglia di V. la quale, secondo Grazia «preferisce lasciare sua mamma e suo fratello nell’ignoranza.
Questo (…) è spesso motivo di screzio con mia figlia – aggiunge Grazia – È troppo comodo affrontare così la vita, se poi chi ha questo problema (sic) pensa di battersi per la verità e la libertà di chi non ha il coraggio di esporsi».
La discrepanza diventa ancor più netta quando Grazia prova a commentare l’omonegatività sociale della chiesa cattolica nei confronti delle persone omosessuali: «Io amo mia figlia da morire sia per la sua rettitudine che moralità ma nel contempo rispetto la chiesa». (Milano, tra aprile e maggio 2011)
Una sorella cattolica si racconta
Maria frequenta il gruppo Bethel di persone LGBT credenti liguri da molti mesi. La sua presenza discreta conferisce un valore aggiunto alla compagine messa su da don Piero.
Sua sorella, Regina, ha affrontato la transizione di genere fino in fondo ed oggi è donna a tutti gli effetti, nel fisico e a livello giuridico. Non è stato facile, per i famigliari della donna, accettare la realtà.
Maria nacque in Sicilia da genitori emigranti. Il fulcro della sua numerosa famiglia era costituito da una madre credente che, tutte le sere, invitava figlie e figli a recitare il rosario con lei. Se oggi Maria ha un rapporto sereno anche con Regina, lo deve agli insegnamenti di quella madre, che educò le tre femmine ed i cinque maschi che aveva messo al mondo a restare uniti e a volersi bene sempre.
Alessandro e Mauro, i fratelli più giovani, nacquero con parto gemellare. Il primo morì ancor giovane per una dose tagliata male di eroina.
Il secondo intraprese, all’età di venticinque anni, la trasformazione fisica che lo avrebbe portato, di li a qualche anno, ad essere ciò che sentiva dentro, una femmina: «Tutto inizia lentamente – ricorda Maria – facendosi rifare prima il seno e, poi, ad intervenire con la chirurgia per i fianchi e i glutei. Lui diventa una lei ed avviene così una trasformazione fisica, capelli biondi, tacchi a spillo, vestiti aderenti e corti che sottolineano maggiormente seno e glutei».
Maria rammenta anche di aver vissuto la transizione di genere di Mauro come una profonda lacerazione, soprattutto a causa del disagio e della vergogna che le causavano le dicerie del vicinato. Poi il tempo, in modo lento ma inesorabile, curò sia le ferite del cuore che quelle del fisico e Mauro divenne Regina, la quale si trasferì a Viareggio «per non creare disagi alla famiglia – continua Maria – e lì ha iniziato una battaglia contro l’omofobia e lo sfruttamento verso le transessuali soprattutto brasiliane[10] diventando la presidente di un consultorio voluto dalla regione Toscana per le persone che devono (…) prepararsi ad una trasformazione».
Maria ama Regina. La conclusione della sua testimonianza è di grande speranza, nonostante lo stigma sociale cui la sorella è sottoposta: «Ho sempre cercato di non giudicarla (…), facendole sempre sentire il mio amore senza condannarla, c’è già un mondo che la condannerà». (Genova, aprile 2011)
Maria e Tonino. Due genitori fuori dalle righe
Alessandro è il figlio ventitreenne di Maria e Tonino, due genitori ultrasessantenni che hanno contribuito a fondare, insieme a Gabriele Scalfarotto, don Dino D’Aloia e don Michele De Paolis, AGeDO Foggia, il primo gruppo pugliese di genitori ed amici di omosessuali.
La sofferenza vissuta da questa famiglia di cattolici osservanti è stata tanta nel momento in cui Alessandro, ancor prima di prendere coscienza del suo orientamento sessuale “altro”, ha iniziato a provare dolore per la discriminazione cui lo sottoposero alcuni suoi coetanei: «Quando ne è divenuto consapevole sia lui che noi abbiamo sentito il bisogno di farci aiutare da persone competenti», afferma Maria.
A proposito dell’ostracismo che la chiesa cattolica riserva alle persone omosessuali, Maria e Tonino stanno provando una rabbia sorda dovuta al fatto che, secondo il Vaticano, la condizione di Alessandro è una perversione e, come tale, deve rappresentare una croce da portare per tutta una vita fatta di privazioni e solitudine.
Maria è una persona assai determinata. All’interno della sua testimonianza cita un testo di José M. Castillo[11], in cui è possibile leggere che la diversità è non solo un valore ma anche un diritto, soprattutto dal punto di vista giuridico.
Dalla lettura di questo testo Maria e Tonino hanno tratto grande forza, mentre continuano a confidare nel messaggio di Gesù che, con la Sua vita, ha insegnato loro che la chiave di tutto, nell’esistenza umana, è l’amore incondizionato per tutte le creature e conclude: «Lui non ha mai discriminato, allontanato e condannato nessuno.
Questa è la ragione che mi lega alla mia fede religiosa naturalmente con l’intento di lottare dall’interno affinché la chiesa possa allargare le sue braccia per accogliere senza giudicare e condannare. Amare un figlio che risponde a tutti i canoni stabiliti dalla nostra società è scontato, amare un figlio a prescindere è vero Amore!» (Foggia, maggio 2011)
Anna e Piero
Non è stata la rivelazione dell’omosessualità del loro figlio a sconvolgere questi due genitori, esponenti dell’AGeDO di Roma[12], bensì l’aver appreso che per la chiesa cattolica essere omosessuali non rientra nel disegno voluto da Dio per le donne e per gli uomini.
Questa asserzione li ha addolorati ed ha «offeso la nostra e la dignità di nostro figlio come persona». Mentre l’altro figlio ha accettato con affetto ed accoglienza l’orientamento sessuale del fratello, gli altri parenti, più o meno stretti, nulla sanno della faccenda.
Anna e Piero sono lapidari: «La chiesa dovrebbe documentarsi sui testi scientifici e medici riguardo all’identità omosessuale, evitando di considerala una malattia da curare, creando dolore alle famiglie e ai loro figli che in alcuni casi si sono suicidati per la disperazione.
Forse per chi non è credente è difficile da capire, ma essere rifiutati dalla chiesa che dovrebbe accogliere chiunque, lascia un vuoto incolmabile». (Roma, maggio 2011)
Daniela, il buddhismo e il battesimo di Karen
Quarantasette anni, madre di Karen, una giovane lesbica di ventotto anni che convive con R. in una cittadina del nord ovest poco distante dalla sua, Daniela ha abbracciato il buddhismo, nel 2002, anche perché non riesce ad accettare le regole della chiesa cattolica; nel cammino spirituale del Buddha ha ritrovato la speranza per un mondo di pace, amore ed uguaglianza.
Daniela ricorda di aver avuto un rapporto “conflittuale” con sua figlia, almeno fino al giorno in cui Karen, nel lontano 2003, le confessò di essere omosessuale: «In quel momento tirai un sospiro di sollievo, finalmente compresi il suo disagio ed ero felice che non era nulla di preoccupante, era soltanto omosessuale.
Da quel momento iniziai ad approfondire il legame con mia figlia che oggi è molto profondo basato sul dialogo e sul rispetto».
Il problema più grande, di lì a poco, sarebbe stato rappresentato dal padre di Karen, secondo il quale è preferibile avere una figlia tossicodipendente o morta, piuttosto che lesbica. Questo fu uno dei motivi della rottura di un legame matrimoniale già traballante. La sorella ed il fratello di Karen, gemelli, (all’epoca avevano dieci anni) erano del tutto tranquilli: sorridendo, i due asserirono che quello omosessuale è solo un diverso modo di amare.
Quando Daniela parla della sua famiglia d’origine, formata da madre, padre, sorella, fratello e cognata, afferma che in essa il pregiudizio nei confronti delle persone omosessuali è pressoché assente. L’orientamento sessuale di Karen viene vissuto da tutte e tutti “con naturalezza”.
Per Daniela, non tanto le feste comandate, quanto il compleanno di Karen rappresenta l’occasione per ritrovarsi in serenità ed armonia, inoltre da tempo frequenta la mamma di R.; fra loro è sorta da subito una certa complicità: «Percepisco lo stesso amore di mamma, in più ci sosteniamo e sosteniamo le nostre figlie».
La conclusione della sua testimonianza è commovente: «Nonostante la chiesa non accetti la diversità, Karen ha ricevuto il battesimo l’anno scorso; dopo un suo lungo percorso spirituale, ha sentito che Gesù l’ama e l’accetta cosi come è e quindi ha deciso di essere una praticante cattolica omosessuale». (Provincia di Cuneo, aprile 2011)
Giancarla, l’IKEA e Giovanardi
Giancarla Codrignani è una grande scrittrice italiana, una giornalista ed un’intellettuale cristiana impegnata da decenni nella battaglia per la pace. Da me raggiunta via e-mail al fine di avere un suo parere sull’omofobia della chiesa cattolica, in modo breve ma alquanto chiaro così si è espressa: «Mi dispiace fare involontaria pubblicità a un’impresa, ma probabilmente è giusto: se avere mostrato l’immagine di due uomini che si tengono per mano può suscitare le inquietudini pubbliche e le denunce politiche di un “governativo” come il cattolico Giovanardi, evviva l’Ikea.
Credo che i pregiudizi siano duri da scardinare – lo sappiamo soprattutto noi donne, peggio se straniere – ma il meno che si può fare (…) è domandarsi che male producono le relazioni personali e, in particolare, le manifestazioni affettuose tra le persone. Se non fanno danno, perché diventare talebani? (…) Forse anche l’educazione resta legata a tradizioni falsamente universalizzate. (…)
Quello che irrita di più è che quanti condannano gay e lesbiche si astengono dal condannare (…) la mercificazione della sessualità. di fatto la Chiesa cattolica non aiuta la società neppure a distinguere criticamente che cosa sia il bene.
A prescindere dalla crudeltà dell’imposizione celibataria per i propri sacerdoti, la presunzione di definire “la natura” della sessualità dà profonda tristezza in chi pensa di essere credente e che sa che la vera natura umana è la cultura. È nella cultura che si iscrivono anche i fatti religiosi, del tutto estranei ad una “natura” in cui Dio dovrebbe commettere errori nella distribuzione dei generi.
La storia può far capire il perdurare di tradizioni, non la conferma teorica di affermazioni che finalizzano la sessualità a solo strumento procreativo e non a possibilità di crescita delle persone. Arretratezza non evangelica; soprattutto, non umana». (Bologna, aprile 2011)
Una riflessione del teologo statunitense John J. McNeill
A gennaio del 2011 il noto teologo statunitense, nonché attivista omosessuale dei diritti civili, John J. McNeill [13], oggi ottantacinquenne, ha indirizzato una lettera aperta a Papa Benedetto XVI.
In essa chiede con insistenza, fra le altre cose, che la chiesa cattolica smetta di divulgare falsi documenti ufficiali che obbligano le migliaia di persone cattoliche omosessuali ad indirizzare alla volta del Vaticano un monito di tipo istituzionale.
L’ignoranza dell’omosessualità mostrata dalla chiesa di Roma, lungi dall’essere innocente, è apparsa ai più come un fatto deliberato e tendenzioso.
In essa si grida «Basta! Basta! Basta!» e si invitano i suoi ministri di culto a prestare ascolto ai tanti professionisti, psichiatri e psicoterapeuti che, in nome delle più recenti acquisizioni scientifiche in tema di omosessualità, avvertono che l’orientamento sessuale non può essere scelto, non può essere modificato e che, chiunque prometta un ritorno all’eterosessualità, non fa altro che ingannare.
Le parole di McNeill sono dure: «Basta! E ancora basta per il fatto che ci scacciate dalla casa di nostra madre, la Chiesa e che tentiate di negarci la pienezza dell’intimità umana e dell’amore sessuale. (…) Dio vi ha dato il compito di discernere la verità, ma non vi è alcun mandato da parte di Gesù Cristo a “creare” la verità.
Noi preghiamo ogni giorno affinché lo Spirito Santo vi porti a cercare umilmente la verità sull’omosessualità attraverso il dialogo con le vostre sorelle lesbiche e con i vostri fratelli gay». (Estratto dall’intervista rilasciata all’autrice a metà maggio 2011 e pubblicata qui: https://www.gionata.org/vite-consacrate/testimonianze/con-i-piedi-piantati-a-mezzaria.-il-viaggio-spirituale-del-teologo-gay-john-mcneill.html)
Da un dialogo con mia madre
«Mamma, tu ti consideri ancora una persona credente?»
«No. La chiesa cattolica mi ha delusa profondamente…»
«Intendo dire: ti ritieni una persona illuminista oppure spirituale? Credi tu che un’energia cosmica ci guidi?»
«Non mi sento illuminista. Credo che qualcosa si trovi sopra di noi e che vegli sull’umanità. Se poi mi chiedi della chiesa cattolica, non ne parliamo proprio…»
«In che senso?»
«Si tratta di un istituzione che di religioso ha ben poco, forse solo gli abiti… Sta facendo tanti danni e non mi riferisco solo alle persone omosessuali.
Pensa solo al tema del “fine vita”… I suoi vertici non accetteranno mai il discorso dell’autonomia di decisione, sacrosanto di ogni persona, che garantirebbe a tutti di scegliere se e quando staccare la spina.»
«Hai letto che, da più di un documento del magistero cattolico, emerge che noi persone omosessuali siamo fuori del presunto disegno che Dio ha voluto per le donne e per gli uomini?»
«Mi chiedo chi sia il Vaticano per affermare ciò… Guarda, io so solo una cosa: provo una rabbia cieca, quando sento o leggo affermazioni del genere. Questa è discriminazione bella e buona… La natura non fa distinzioni. Se una persona è nata in un determinato modo, vorrà dire che a Dio va bene così.
E, nel momento in cui la chiesa cattolica si mette a fare distinzioni, quando entra nel merito delle coppie di fatto dello stesso sesso e del loro diritto – negato – a contrarre un matrimonio civile, ha già messo in atto una discriminazione.»
«E lo stato italiano? Come vedi il suo atteggiamento, in merito a questo tema?»
«Asservito in modo totale a quel pensiero discriminante… A destra come a sinistra. E ciò mi fa ancor più rabbia.
Se questo andazzo continuerà, le cose resteranno così come sono per molto tempo, mentre il resto dell’Europa sarà andato oltre. Pensa solo alla legislazione della Germania in merito alle unioni di fatto e ai due delicati temi della fecondazione assistita e dell’adozione.
In Italia l’una è preclusa del tutto a qualsiasi coppia che non sia sposata, omo o etero che sia, sulla seconda calo un velo pietoso…»
«Insomma… Un disastro su tutta la linea?»
«Sì, per ora le cose, per me, stanno in questi termini. E quei signori in tuniche nere (i cardinali. n.d.a.) troppo spesso dimenticano che parlano di persone.»
«Pensi che ci sia un divario incolmabile fra il magistero della chiesa cattolica e la vita delle persone, al di là dell’orientamento sessuale?»
«Sì, io la penso così… Ciò che sta scritto nei suoi documenti è lontano mille miglia dal buon senso che spinge le persone a vivere secondo coscienza. Solo che i vertici della chiesa cattolica pretendono di controllarle, le coscienze e mi sembra che fino ad ora ci siano riusciti alla grande.»
«E che mi dici del fatto che l’omosessualità, all’interno dell’istituzione cattolica, viene vissuta, il più delle volte, in segreto e, quando scoperta, passata sotto silenzio?»
«Sono troppe le faccende che la chiesa cattolica ha passato sotto silenzio, come per esempio le molestie sessuali alla gioventù.
Questo gioco al massacro fa parte della sua politica: tacere della poca o nulla rettitudine di molti fra i suoi esponenti, al fine di continuare a predicare bene dai pulpiti o dai balconi del vaticano. Altrimenti le masse non la seguirebbero più.
C’è una piccola questione, a tal proposito: l’allontanamento di migliaia di fedeli ha già decretato, secondo me, un punto di non ritorno che porterà il cattolicesimo a scomparire dalla faccia della terra.»
«Molti preti direbbero che sei categorica e drastica…»
«Proprio loro, che sono pronti ad alzare il dito indice in segno di giudizio e a suscitare la vergogna nelle bimbe e nei bimbi, in confessionale, come accadde a te…»
«Quindi, tirando le somme, sei per la libertà assoluta dell’essere umano, in tema di volontà?»
«Certo! I regimi totalitaristici di tutti i tempi hanno fallito, quando hanno cercato di controllare le masse con la forza e la violenza.
L’unico stato che, ancora, riesce a tenere in scacco un’intera nazione, quella italiana, con i suoi ricatti morali, è quello della chiesa cattolica. Un motivo dovrà pur esserci!» (Genova, aprile 2011)
Da una conversazione telefonica con mio padre
«Papà, ti consideri ateo?»«Agnostico, non ateo, perché l’ateismo è una scemenza. Io non nego l’esistenza di Dio, dico solo che non posso provarla con la ragione.»
«Come vedi l’assurdo ostracismo del Vaticano nei nostri confronti?»
«Nessun passo delle Sacre Scritture ostracizza le persone omosessuali. Un conto è la versione ufficiale della Bibbia, con le sue assurde interpretazioni, un conto sono le diverse traduzioni. Se analizzate da un punto di vista filologico, non danno adito a dubbi.
Il punto vero è che date fastidio. Quel che dà fastidio è il vostro cercare di difendervi a tutti i costi. Secondo me sbagliate. Non siete obbligati a dare spiegazioni.»
«Ricordo ancora la tua reazione quando, a 42 anni, ti confessai, dopo aver avuto un pesante diverbio con la mamma, che sono lesbica. Mi buttasti le braccia al collo. Fosti felice per me.»
«Quando mi hai detto di essere omosessuale sono stato contento, perché tengo alla tua felicità. Per me è l’unica cosa che conta. Per me non c’è nulla di sbagliato.
Sono sempre stato così, anche nei confronti degli altri gay. Pensa a quante manfrine ho dovuto assistere, al lavoro, in ferrovia, quando qualche collega veniva deriso dagli altri, al grido di “brutto buliccio!” (termine dialettale genovese con cui vengono apostrofati i gay. N.d.a.)
Per me è importante che la cosa venga fuori. Dovete uscire allo scoperto, dichiararvi. Non restate in silenzio. Vivete per ciò che siete. È un vostro diritto.»
«Il resto della nostra famiglia è ormai ridotto al lumicino. Di parenti stretti ne resta uno solo, il fratello della mamma.
Il fatto che io non veda da più di tre anni lui, che è il mio padrino di battesimo, mi rammarica molto. Non me la sento di ascoltare le sue frasi di disprezzo nei confronti delle persone omosessuali. Come vivi questa situazione, per nulla positiva?»
«Lo zio è una persona che ha dimostrato di essere sciocca, nel mettere in atto un’assurda forma di prevenzione, nei confronti degli omosessuali, che deriva dalla sua cultura famigliare.
Sia la mia famiglia di origine che la sua avevano un’idea ben precisa del gay, come di una persona che andava contro natura, perciò non mi stupisce la sua reazione sopra le righe, quando afferma di odiare i “bulicci”. Io resto dell’idea che tu non devi dare spiegazioni a nessuno. La cosa si spiega da sé.»
«Quando presentai Laura a Luca (mio fratello. N.d.a.), lui mi rispose, con una calma olimpica, che già lo sapeva. Nel suo consueto modo spiccio, che adoro, di dire le cose, non aggiunse altro, se non un sorriso appena accennato. Dopo di che, una volta stretta la mano di Laura, ultimate le presentazioni, riprese a fare ciò in cui era impegnato. Come vedi la cosa?»
«Il fatto che tuo fratello la pensi come me è bella. Vuol dire che vi ho insegnato bene, tutto sommato. Mi fa piacere, Luca è una persona intelligente…»
«E a proposito del fatto che Laura ed io possiamo frequentare le nostre rispettive famiglie senza vivere tensioni, a tutte le feste comandate o ai compleanni, che mi dici?»
«Si tratta di una cosa assai positiva ed è bello avervi qui, ogni volta che potete, a cena o a pranzo, per trascorrere qualche ora insieme.
E poi, come sai, io mi riferisco a Laura come a mia nuora… (pronuncia il termine in genovese: “neua”, che si pronuncia nëa, con la lettera “e” stretta. N.d.a.)»
«Torniamo all’ostracismo della chiesa cattolica. Come giudichi il fatto che, neppure di fronte alla scienza, che considera l’omosessualità una variante naturale della sessualità umana, essa si ostini a definirci al di fuori del disegno di Dio per l’umanità o che veda le nostre relazioni come sterili, sia da un punto di vista fisico che spirituale?»«Non dovete far nulla per farvi accettare! Non dovete dimostrare nulla a nessuno! Pensa solo a quel che dice la Costituzione italiana: in essa si aborre ogni forma di discriminazione e si parla di natura, anche se una pecca quell’articolo ce l’ha e pure grossa: l’assemblea costituente, all’epoca, si dimenticò di comprendere l’omosessualità fra le cose naturali. Una pecca non da poco…
Ti risulta che l’omosessualità sia un reato? Risulta tale nei 4 codici? Anche io, come invalido, vengo rifiutato o discriminato.
Vengo anche disprezzato, solo perché sono su una sedia a rotelle. Trovo delle analogie fra le due cose. Spesso sono considerato un diverso. Ebbene, mi auguro che la mia diversità non diventi, un domani, la normalità di qualcuno o qualcuna.
Ecco, voi non dovete cadere nella trappola della cattiveria altrui, con reazioni sopra le righe, che la gente comune possa interpretare come esagerate.
So che ne avete il diritto sacrosanto, ma sappiate che non dovete dimostrare nulla a nessuno. La cosa migliore da fare è, per voi, vivere per quello che siete. Ti voglio bene, figlia…» (Genova, maggio 2011)
Mila, Jacopo e l’attivismo civile
Mila Banchi è forse la più nota attivista LGBT dei diritti civili in Italia. Sulla sessantina, sempre sorridente e propositiva, trentadue anni fa mise al mondo Jacopo, un mite ed intelligente ragazzo che si scoprì omosessuale all’età di diciassette anni. Durante un’assolata giornata di inizio maggio le ho fatto visita a Livorno, la cittadina toscana che le ha dato i natali e che la vede in prima linea nella lotta per il riconoscimento di pari dignità alle persone LGBT.
Armata di telecamera per non perdermi neppure una virgola delle sue parole e sostenuta dalla mia compagna, comincio a dialogare con lei sui più recenti fatti di attualità, per approdare, subito dopo, all’annosa questione dell’esclusione totale, da parte della chiesa cattolica, delle persone omosessuali.
Quando avvertì che l’orientamento sessuale di Jacopo non era quello etero, si preoccupò fin da subito delle reazioni di una società, quella italiana, intrisa di omofobia: «Pensare alla vita di tuo figlio in mezzo a quelle difficoltà non è piacevole.
Per i propri figli si vorrebbe sempre il meglio, si vorrebbe risparmiare loro il dolore… Ricordo che ero titubante ed ho atteso che il momento fosse quello giusto, per andare a chiedergli qualcosa. Dopo di che tutto è arrivato all’improvviso…»
Per Mila il bene di Jacopo è sempre venuto prima di ogni altra cosa e, soffermandosi sulle reazioni, spesso rabbiose, di molte madri e di molti padri, di fronte al coming out di figlie e figli, mi confessa: «Dietro a quella rabbia c’è di tutto: paura, sensi di colpa…
Non credo che ci siano così tanti famigliari che siano propensi a cacciare i propri figli di casa, nonostante tutta la tristezza che la scoperta della loro omosessualità comporta. C’è anche molta confusione… E anche questa è spesso motivata dalla paura…
Sai, molti genitori sanno essere assai pesanti, come quel padre che raccontava spesso barzellette umilianti sui gay. Da quando ha saputo dell’orientamento sessuale del figlio, non solo non lo fa più, ma ne è divenuto l’alleato più caro… Una persona eccezionale…»
Il nostro dialogo diventa sempre più intenso. Insisto sui sensi di colpa dei famigliari delle persone omosessuali – soprattutto di madri e padri – e le chiedo di approfondire il concetto.
Mila mi risponde che, nel suo caso, il ragionamento che seguì alla presa di coscienza dell’orientamento sessuale di Jacopo, fu: “Se ho dovuto intuirlo da sola, ciò vuol dire che lui non si è sentito abbastanza libero per dirmelo. Allora qualcosa non è andata come avrebbe dovuto…”
Nonostante la famiglia di Jacopo sia composta da persone aperte ed esenti da pregiudizi, in merito all’omosessualità, una madre come Mila ha pensato di non essere stata accogliente a sufficienza, nei confronti del figlio.
Inoltre, di fronte ad una società così omonegativa, la donna ha pensato di essere in possesso di tanti strumenti validi che, davanti all’atteggiamento di chiusura dimostrato anche da molti famigliari di persone LGBT, a poco servono se si pretende di tenere intere parti delle famiglie di origine all’oscuro di tutto.
E mi fa un esempio concreto: «Emma, la nostra nipotina (figlia quattordicenne di Marta, la sorella maggiore di Jacopo. N.d.a.): nei suoi confronti abbiamo avuto un’apertura totale, come famiglia. Il nostro percorso di trasparenza ed autenticità è a tutto tondo ed ha coinvolto tutta la famiglia, anche i parenti meno stretti.
Ciò le sta fornendo alcune sicurezze in più, in un delicato momento di crescita personale come l’adolescenza. Dico sempre che sarà quel che sarà e che, in ogni caso, nessun nostro gesto ha fatto sì che lei potesse sviluppare un atteggiamento omofobico nei confronti dello zio».
Inutile sottolineare che tutti i famigliari di Jacopo, da quelli più stretti in poi, sanno del suo orientamento sessuale “altro” e ciò ha conferito ancor più autenticità non solo al ragazzo, ma all’intera compagine famigliare di Mila.
Quindi, affronto con la donna il discorso della totale chiusura dimostrata dalla chiesa cattolica nei confronti delle persone omosessuali. La distinzione che Mila fa tra i vertici del Vaticano e la sua base è importante; la chiusura della CEI[14] è intransigente e, quel che è peggio, rivolta a tantissime questioni, tutte inerenti – e non è un caso – alla libertà individuale: «Questo che sta vivendo la chiesa cattolica – continua Mila – è un momento particolare: molte persone se ne stanno allontanando a causa della mancanza totale di adeguamento alla modernità da parte del Vaticano.
E poi si stanno affacciando, anche in Italia, diverse altre confessioni, non ultima quella islamica, per non parlare della chiesa evangelica, di quella valdese, ecc.
Tutte confessioni che, qual più qual meno, stanno portando via fedeli al cattolicesimo. L’atteggiamento dei suoi vertici è, secondo me, dettato da una politica sbagliata perché, invece di affrontare, di comprendere e di riprendere il cristianesimo delle origini, al fine di riportare al centro del messaggio evangelico la sacralità della persona, va nella direzione opposta.
Dio è amore per la persona! E purtroppo il Vaticano è diventato un potere politico ed economico mondiale, per cui ha tutte le sue cose da curare e, magari, sta perdendo di vista tutta la parte vera della chiesa».
Dalle sue parole emerge un fatto ancor più problematico di quello rappresentato dall’ostracismo della chiesa di Roma nei confronti del mondo LGBT ovvero la mancata accettazione, salvo rarissimi casi, delle persone omosessuali credenti da parte delle associazioni LGBT italiane.
E mi spiega: «Esse non hanno mai accolto in modo pieno e totale queste persone… E ciò accade in prevalenza perché questi gruppi sono molto politicizzati e tendono a vedere nel connubio politica/fede qualcosa di incomprensibile.
Il fulcro sta tutto qui, nel concetto di laicità di uno stato: spesso si tende a non voler capire che si può essere credenti, indipendentemente dalla confessione religiosa, pur continuando ad essere laici… Altra cosa è l’impegno civico di ognuno di noi.
Ogni cittadina ed ogni cittadino ha necessariamente dei rapporti con uno stato che dovrebbe tutelare ogni persona, in modo laico, indipendentemente dal credo, dal sesso, dall’orientamento sessuale. (…) Non ravviso la necessità di tutta questa chiusura…»
E, spinta da una mia domanda riguardante il dolore che può provocare la chiusura del Vaticano nei famigliari delle persone omosessuali, mi confessa di provarne molto, in quanto madre e in quanto persona. A ferirla, aggiunge, è l’ignoranza di persone che si spingono ad un punto tale di ostinazione, da giungere a negare la dignità delle persone e la libertà individuale.
Arrivate quasi alla conclusione di questo proficuo dialogo, inframmezzato da telefonate, brevi scambi di battute fra Jacopo e Laura e rapide incursioni da parte della micia di casa sul luogo delle riprese, Mila ed io ci ritroviamo a parlare del diritto ad amare delle persone omosessuali, quel particolare che, dalla chiesa cattolica, è considerato come qualcosa di insignificante e viene collocato in secondo piano rispetto alla presunta mancanza di moralità di un’intera fetta della popolazione italiana: «E già… Il diritto ad amare…
Mi chiedo come si possa riconoscere il diritto ad amare… La trovo una cosa impensabile… Chi può mettersi su un piedistallo e dire “io amo meglio, io sono più bravo come genitore e la mia famiglia è la più bella?” Già una persona del genere a me darebbe evidenti segni di squilibrio…»
La mia intervista a Mila Banchi termina con un suo riferimento chiaro e netto all’omogenitorialità[15].
La madre di Jacopo è convinta che la chiesa cattolica si sia resa complice della diffusione di una falsa convinzione, in Italia, quella che vuole le coppie omosessuali sterili o incapaci di amare e, a proposito dello scottante tema delle adozioni negate alle persone LGBT, aggiunge: «(…) come se ci fossero due modi diversi di amare, uno lecito e l’altro illecito perché immorale.
Si tende troppo spesso a dimenticare che l’importante è che il bimbo o la bimba da adottare è in cerca di amore e che, se quell’amore proviene da una coppia lesbica o gay, piuttosto che una etero, il discorso non cambia. È il contesto affettivo ad essere basilare…».
E conclude dedicando un pensiero alle tante veglie in ricordo delle vittime dell’omofobia che, a partire dal 12 maggio 2011, si sono svolte in molte città italiane, a volte all’interno delle parrocchie: «Ritengo che (le veglie. N.d.a.) andrebbero diffuse di più, perché tante persone questo fatto dell’omosessualità collegata alla fede non lo conoscono. (…)
Il concetto di omosessualità nella fede, in un periodo storico, in Italia, in cui il dibattito sulla spiritualità è così forte, andrebbe approfondito. Lo ritengo assai importante, anche perché è necessario mostrare una società possibile per tutte le persone che, attraverso i flussi migratori, giungono nel nostro Paese e vedono una società omofobica.
Quindi, se noi non riusciamo a lavorare su questo particolare così importante e se non riusciamo a scrollarci di dosso la falsa credenza di una chiesa cattolica preminente, con la sua omonegatività sociale così radicata, non facciamo altro che incoraggiare certi atteggiamenti che, magari, le persone che giungono in Italia, non hanno. (…)
L’importanza delle veglie, io credo, dovrebbe prevedere momenti di preghiera e di riflessione che coinvolgano anche i migranti e le loro diverse confessioni. Questo è un vero modo di andare avanti, altrimenti rischiamo di restare al palo». (Livorno, 7 maggio 2011)
Michela, Vladimir e le malelingue
Ho conosciuto Vladimir Luxuria[16] ad un convegno che ci vedeva entrambe relatrici, a Roma, presso il Teatro di documenti[17], per parlare del femminismo lesbico italiano con diverse donne impegnate nel civile, fra cui Maria Laura Annibali, autrice del documentario L’altra altra metà del cielo,[18], la storica femminista lesbica Edda Billi[19] e, fra le altre persone presenti, la femminista Paola Mastrangeli.
Subito dopo quell’evento presi la decisione di chiedere a Vladi il recapito telefonico dei suoi genitori, al fine di riuscire a strappare loro una breve testimonianza. La trans più famosa d’Italia mi ha accontentata di lì a poche settimane e, alcuni giorni dopo, ho chiamato casa Guadagno.
Dall’altra parte dell’immaginario filo telefonico mi ha risposto Michela, la mamma di Vladi e, dopo aver ascoltato la mia breve presentazione, in modo assai spontaneo mi ha narrato la sua vicenda di madre credente di una persona trans cresciuta nel profondo sud d’Italia: «Sono credente ma non mi considero cattolica. Dio e Gesù accolgono tutti.
La chiesa dovrebbe aiutare tutti nel momento del bisogno e invece lascia le persone LGBT sole. Io non vado in chiesa… Come ci entro mi sento discriminata.
Preferisco pregare a casa, piuttosto che vedere una sfilata di vestiti e di pettegolezzi a mezza voce, mentre vengo additata come la madre della trans. La chiesa me la faccio io. Quelle sono solo ipocrisie.
Se i genitori accettano i propri figli per ciò che sono, la chiesa cattolica, che è composta di persone estranee, non dovrebbe escluderli. In tutti questi anni sono riuscita a superare il peso delle dicerie della gente in modo semplice, iniziando a non dare più importanza alla faccenda. Questa è stata la mia forza.»
Per Michela e per Antonio, il padre di Vladi, non fu facile la vita quando, alcuni decenni fa, Vladimiro Guadagno, ospite del Maurizio Costanzo Show, davanti alle telecamere di Canale 5 dichiarò di essere una persona transessuale.
Il lapidario commento di Antonio fu: «Lui è mio figlio, può fare ciò che vuole» anche se, ogni volta che Vladi passava la notte a casa, lui se ne andava a dormire nel camion che gli serve a svolgere l’attività di autotrasportatore. Solo con il passare del tempo ha cambiato atteggiamento nei confronti della figlia.
Fra le tante vicende assurde accadute a Michela ci fu quella riguardante i parenti, più o meno stretti, suoi e del marito, i quali fecero terra bruciata intorno alla coppia, non appena la scandalosa storia di Vladimiro venne fuori, salvo riallacciare i rapporti quando Vladimir Luxuria – questo è il nome d’arte assunto negli anni dalla giovane – divenne famosa.
Prima che sua figlia venisse eletta deputata nelle file del partito della Rifondazione comunista, Michela fu costretta a passare momenti assai duri e dovette cavarsela da sola, anche perché il marito era sempre fuori con il camion per lavoro.
Al telefono, Michela aggiunge: «I figli sono sacri, per me, guai a chi me li tocca. Nessuno deve giudicarmi! Perché le persone trans non possono andare in chiesa?! Io penso che sia perché i preti hanno paura di fare brutte figure, di trovarsi davanti dei maschi imbellettati con lustrini e boa di struzzo e, in ciò, mostrano di non aver fiducia nelle persone. Io spero tanto che si faccia qualcosa, in questo Paese, dato che, attualmente, le cose stanno andando male.»
La madre di Vladi ricorda ancora la sfilata finale del gay pride di Roma del 2000, che coincise con il giubileo straordinario indetto da Giovanni Paolo II.
In quell’occasione le forse estremiste di destra avevano minacciato attentati e così, mi dice Michela: «io presi la decisione di accompagnare mia figlia in modo che, se necessario, avrei potuto farle da scudo. Anche se, poi, non accadde nulla.»
Quando Michela rimase incinta di Vladimiro, nel lontano 1965, aveva diciotto anni e sei mesi e stava frequentando la quarta classe di una scuola superiore. Con suo sommo dispiacere, il padre la costrinse a piantare lì la sua istruzione perché, in un paese del sud, un’alunna in stato interessante avrebbe dato scandalo. (Genova/Foggia, maggio 2011)
Donatella e Darianna. La morte e la rinascita
Darianna Saccomani, nata Dario, è una persona transessuale che ha completato la transizione di genere, il che la rende a tutti gli effetti una femmina. Nata in Piemonte, vive a Livorno, dove ho avuto il grande piacere di conoscerla e di scambiare con lei un dialogo assai proficuo. Darianna appartiene ad una delle famiglie protestanti più antiche d’Italia, è laureata in teologia, è esponente della REFO, la Rete Evangelica Fede e Omosessualità[20] che accorpa molte persone cristiane evangeliche di vari orientamenti sessuali ed oggi è una manager affermata nel campo immobiliare.
Donatella, che con lei condivide un forte legame di sangue, mi ha rilasciato una breve testimonianza, scritta via mail fra un impegno e l’altro: «La rivelazione, come sorella, l’ho vissuta inizialmente come un trauma, una perdita. Vivevo la “morte” di Dario come un lutto e aspettavo di maturare l’accettazione della nascita di Darianna.
A distanza di 5 anni tutto mi è chiaro e non trovo nessuna difficoltà a riconoscere mia sorella come persona e non per la sua appartenenza a un genere. Dal punto di vista di credente ho trovato essere una benedizione il fatto che Darianna avesse come riferimento e sostegno la propria fede in un Dio di giustizia e amore.
Penso che lei si sia sentita abbracciata e consolata dallo Spirito nei momenti in cui le persone non l’hanno capita. Come dei genitori pieni d’amore, privi di giudizio, Dio ha difeso Sua figlia.»
Donatella non ha dubbi in merito all’ostracismo della chiesa cattolica nei confronti delle persone LGBT: la sua è una chiusura nei confronti di «ogni forma di vita, di espressione, di creatività, che oltrepassano i confini tracciati dalla suo potere, ben studiato per mortificare il corpo»; secondo la sorella di Darianna questo rappresenta il modo più scellerato di far vivere le persone immerse nella paura. «La paura – conclude – è sempre stata usata dal potere per manovrare le menti e gli spiriti». (Genova, fine maggio 2011)
Ursula, Enrico e l’AIDS
Durante un’afosa mattinata di tarda primavera ho incontrato Ursula Rütter Barzaghi, la madre di Enrico, un ragazzo attivista dei diritti civili deceduto di AIDS all’età di 29 anni. Appena scesa dal tram, a Milano, mi trovo davanti una donna che mi sorride e mi accoglie come se mi conoscesse da sempre e, senza lasciar spazio ai convenevoli, decide di offrirmi un caffè.
Sedute ad un tavolino del bar, le racconto un po’ di me e della prima inchiesta sui famigliari credenti di persone LGBT che sto curando. L’attenzione che dedica alle mie parole è unica, esclusiva. Ursula vuole essere sicura di capire tutto ciò che le dico e fa attenzione a non perdersi neppure una mia parola.
Quando saliamo a casa sua, mi viene incontro Alberto, l’architetto milanese di cui Ursula si innamorò in Etiopia, appena diciassettenne. Come mi confesserà poche ore più tardi, questa giovane donna tedesca di Düsseldorf, figlia di un ufficiale delle SS[21], era passata dalla vita scolastica a quella di moglie in men che non si dica. Poco tempo dopo nacque Enrico.
Mentre preparo la videocamera, tenuta su da un cavalletto, al fine di intervistare Ursula, con grande emozione mi soffermo a pensare che sto per ascoltare una storia speciale, quella di un ragazzo con un’enorme voglia di vivere, il quale ha dovuto lasciare la vita proprio nel momento in cui aveva trovato la via giusta per abbattere un durissimo pregiudizio nei confronti delle persone sieropositive e ammalate di AIDS.
La vicenda di Enrico, Ursula, Alberto, Elena e Marco – sorella e fratello di Enrico – Francesca e Laura – figlie di Elena – è narrata nel libro Senza vergogna. Una storia di coraggio contro l’AIDS[22] ed è il resoconto, sotto forma di cronaca, mese per mese, anno dopo anno, della scoperta, da parte di Ursula, dapprima dell’omosessualità di Enrico, complice una lettera d’amore nascosta all’interno di un libro, poi, otto anni più tardi, della sieropositività del figlio.
Chi si attendesse un libro intriso di pietismo, resterà deluso dalla lettura di Senza vergogna che, lungi dal voler presentare le persone ammalate di AIDS come dei poveri cristi messi in croce da una sorta di punizione divina, ci propone una lettura lucida, puntuale e approfondita, anche grazie alla grande capacità di sintesi della sua autrice, sul dramma sociale di chi viene colpito dal virus dell’HIV ed è circondato da una società del tutto impreparata, per pregiudizio ed incompetenza, a gestire un’emergenza sanitaria che, oggi, lungi dall’essere risolta, è in pieno svolgimento, mentre la stampa nazionale ha, da tempo, scelto di non parlarne.
Durante la lunga intervista che mi ha rilasciato, Ursula si riferisce con parole decise all’omofobia della chiesa cattolica e mi confessa che, se qualcuno le dovesse chiedere mai che cosa sia la fede, lei avrebbe dei seri problemi a dare una risposta certa.
Di una cosa, però, è sicura: il Vaticano è formato da una gerarchia sorda e cieca di fronte al duro lavoro che, ogni giorno, le case famiglia e le associazioni cattoliche svolgono “sul campo” per assistere le persone degenti che sono in AIDS conclamata.
Il divario tra dirigenza e base è immenso, all’interno della chiesa di Roma e ciò è comprovato, aggiunge Ursula, dal fatto che quell’atteggiamento, intriso di omonegatività, cozza in modo evidente con l’attività di tanti preti e molte suore che si mettono a completa disposizione di chi ha bisogno di braccia volenterose che aiutino le persone ammalate di AIDS a giungere in punto di morte mantenendo intatta la propria dignità umana, appunto senza vergogna.
Dopo aver citato un passo del suo libro in cui, riferendosi alla parola “cattolico”, afferma che per lei «è sinonimo di negazione di quell’amore che dovrebbe essere la base fondamentale del Cristianesimo», chiedo ad Ursula quali siano, oggi, i suoi rapporti con il Vaticano. La sua risposta mi stupisce non poco: «Pessimo… Inesistente… Anche se lo rispetto. E mi piacerebbe che cambiasse rotta. Ed io sarei disposta a lavorare perché questo accadesse. (…)
Io dico sempre che gli esponenti della chiesa cattolica hanno bisogno di essere convertiti… All’amore… Facciano pure, se il loro intento è quello di convertire il mondo al cattolicesimo. La fede non si discute.
Solo che coloro che la portano in giro dovrebbero basarsi su qualcosa di veramente cristiano. Comunque io dico sempre che non è mai troppo tardi… Vedrai che, piano piano, li convinciamo a ritornare al cristianesimo…»
Altrove, mi confessa di essere convinta che il problema più grande delle gerarchie cattoliche abbia a che vedere con l’uso della vergogna come sistema di controllo e, quindi, di potere e aggiunge, con un sorriso aperto: «Forse si tratta di un filo della santa inquisizione che non è stato tagliato del tutto… Piccolo e modesto, sì, ma prima o poi andrà tagliato!
E pensa che danno che stanno facendo, quelle gerarchie! Sai che c’è? Io imporrei il copyright sulla parola “cristianità” e vieterei alla chiesa cattolica di pronunciarla, al fine di evitare che quei farabutti definiscano “cristiano” ciò che non lo è».
Quando il suo discorso finisce per giungere, in modo inevitabile, sul tema del volontariato cattolico, ci tiene a precisare che esso è, da sempre, il più efficiente in merito all’assistenza delle persone affette da AIDS, per cui – aggiunge – «si è venuta a creare una rottura anche profonda tra i vertici vaticani e le associazioni religiose cattoliche che operano sul campo, attraverso le varie case famiglia.
Diciamo che, nell’insieme, la chiesa attacca tutte le categorie di persone che, secondo lei, vanno contro il suo Magistero e, in questo senso, non è pensabile che rinunci al suo potere, che viene tenuto su proprio da quella vergogna di cui abbiamo a lungo parlato… Anche se ultimamente qualche intellettuale è riuscito a tirar fuori la vergogna “giusta” al fine di reagire a quelle assurde prese di posizione».
Una delle ultime domande che ho fatto ad Ursula riguarda il rapporto dello stato laico con la chiesa cattolica. Le chiedo: «a pagina 82 del tuo libro fai una netta differenza tra una chiesa “cui poteva anche non importare di salvare la pelle di giovani peccatori, ma era dovere di uno stato laico tutelare la salute dei suoi cittadini più a rischio”.
«Come stanno oggi le cose, nel nostro Paese, in fatto di prevenzione? Pensi che sia cambiato molto?»
Anche in questo caso, senza esitazioni, mi risponde che l’unica cosa ad essere cambiata, in tema di HIV ed AIDS, è la presenza di quel gruppo di tre farmaci che, oltre a rendere meno aggressivo il virus, non fa altro che tenerne sotto controllo l’evoluzione.
Per il resto «la prevenzione nelle scuole non è sollecitata, diffusa o sostenuta da enti pubblici e si basa unicamente su iniziative private di volontariato, come è accaduto a me, all’epoca, quando ho divulgato a migliaia di studenti questo argomento.
E anche oggi, se càpita una cosa del genere, si tratta di una divulgazione asettica, che tende a rendere il virus interessante – come dico spesso – come un personaggio di Agatha Christie, ma viene tralasciato tutto l’aspetto, fondamentale, dei comportamenti a rischio che ne velocizzano la diffusione».
Alla fine dell’intervista, chiedo ad Ursula di parlarmi, in breve, della scelta di Enrico, di farsi battezzare, durante una delle numerose degenze in una struttura ospedaliera nata per accogliere le persone ammalate di AIDS. Era il 26 ottobre del 1989, il giorno del cinquantesimo compleanno di sua madre e il “cucciolo” di casa Barzaghi decise di ricevere il primo sacramento cristiano.
La reazione di Ursula fu di un certo stupore e non solo alla luce del suo personale rapporto con la chiesa cattolica: «Sai, la mia fede è in bilico da tempo immemorabile…
Quando qualcuno mi chiede se credo in Dio, invariabilmente rispondo che non lo so… Nonostante io sia uno dei tanti prodotti del condizionamento sociale operato dal cristianesimo e la cosa non mi turba, anzi, mi fa piacere; ci credo e ritengo sia importante continuare a divulgare il concetto di amore dei Vangeli.
Quel che mi ha sorpreso – e che ho sempre rispettato – della scelta di Enrico, è che essa non faceva parte di tutto il percorso di vita di mio figlio, percorso svolto insieme a noi, suoi genitori (Ursula ed Alberto scelsero di non battezzare i due figli e la figlia. N.d.a.). Enrico era sempre stato molto lontano dal mondo cattolico…
Per prima cosa ho pensato alla reazione di mio marito, un ateo convinto; poi ho pensato a qualcosa di più profondo ovvero il rapporto di Enrico con la fede e la sua paura della morte: un conto è la sofferenza fisica all’approssimarsi della morte ma, se ci soffermiamo a pensare alla sofferenza post mortem, la cosa assume un aspetto più spiccatamente fideistico.
E poi c’era questo rapporto meraviglioso di Enrico con la burbera suor Celeste, come ho narrato nel libro, una figura forte, fondamentale nella vita di mio figlio, durante i lunghi periodi di degenza presso la struttura ospedaliera in cui la donna svolgeva l’attività di infermiera.
La sua saggezza ha insegnato molto a tutti noi. Sai… Sono domande che mi sono posta io sola, dato che, all’epoca, non ho avuto il tempo materiale per indagare… Era una cosa sua. Se aveva deciso di fare questo passo, era giusto rispettarne la scelta».
Alla fine dell’intervista c’è spazio per un ultimo commento, da parte di Ursula. E si finisce nel punto preciso dal quale il nostro lungo dialogo ha avuto inizio, quando la madre di Enrico mi ha chiesto: «…Hai inserito anche la domanda, per esempio, riguardante gli interrogativi che io mi sono fatta, insieme alle critiche, dopo la morte di Enrico?
Qualcosa che avrei potuto fare o dire o chiedere a mio figlio e che non ho fatto, nonostante il gran dialogo che c’era fra noi? – No… E direi che possiamo iniziare senz’altro da questo punto…
Anche perché in molte parti del libro “Senza vergogna” sottolinei l’importanza, per la serenità di Enrico, di evitare il più possibile atteggiamenti o quesiti che potessero minarne la tranquillità durante quegli ultimi mesi di vita…»
E così Ursula mi confessa che la domanda più pressante, per lei, il quesito che ha taciuto ad Enrico, fino all’ultimo, è stato quello sulla paura in quanto, qualora lui avesse avuto paura, sua madre ne avrebbe sofferto, poiché questo sentimento paralizzante è la cosa peggiore che si possa provare.
E conclude: «Occorre guardarla in faccia e abbatterla, insieme alla vergogna. Entrambe rappresentano dei condizionamenti sociali pesantissimi.
E tutte quelle domande che avrei voluto fargli e che mi sono rimaste dentro, con la voce strozzata dal dolore, è giusto che siano rimaste lì, perché allora tutti ci aggrappavamo a quei frammenti, anche minuscoli, di speranza, pur di non rompere l’incantesimo. Quel che davvero importava era il qui e ora, per Enrico e per noi.»
Quando il nostro lungo colloquio giunge al termine, a videocamera ancora in funzione, Ursula mi chiede se mi fa piacere fermarmi a pranzo a casa Barzaghi. Con un lieve imbarazzo, ma lietissima della cosa, accetto e, a tavola, durante un pranzo semplice e assai gradito, Alberto, Ursula ed io parliamo del più e del meno, come se io fossi un’esponente della famiglia.
Poche ore più tardi, dopo aver condiviso una bella passeggiata nel parco, Ursula mi lascia alla fermata di piazza Cadorna della metropolitana e mi dice che è come se lei mi avesse adottata e, mentre mi prende il viso tra le mani, mi ringrazia e ci promettiamo di rivederci presto, magari a Genova, dove Ursula e Alberto non si recano da molti anni.
Non appena ho rimesso piede in casa, dopo aver trascorso questa memorabile giornata, così educativa, mi rendo conto che l’incontro con la madre ed il padre di Enrico mi ha arricchita e che il cucciolo di casa Barzaghi, deceduto all’età di ventinove anni, a gennaio del 1990, a seguito delle complicanze del virus dell’AIDS, è sempre stato lì con noi, a vegliare sui suoi genitori e sulla sua nuova amica. (Milano, 25 maggio 2011)
L’intervista a GianFranca Saracino
Madre e padre cattolici praticanti di una figlia omosessuale: come avete vissuto la rivelazione?
Quando abbiamo saputo dell’omosessualità di nostra figlia abbiamo vissuto molto male la scoperta del suo orientamento sessuale – di cui, però, avevamo avuto già sentore.
Abbiamo avuto paura – sto parlando di 16 anni fa – di qualcosa che non conoscevamo e che ci era stata sempre dipinta come negativa, contro natura, disdicevole, una via da non percorrere, insomma. È stato soprattutto lo stigma sociale che ci ha spaventati e che si è sovrapposto al nostro vuoto totale di informazioni a riguardo.
Pur se di religione cattolica per educazione – le nostre figlie hanno seguito tutto il percorso canonico di istruzione e preparazione ai sacramenti – mio marito ed io siamo stati, in cuor nostro, sempre molto critici verso l’apparato, la struttura temporale della Chiesa, verso ildogma che non ammette discussione, verso alcune posizioni francamente anacronistiche e verso la lettura “letterale” della Bibbia.
Noi credevamo, però, e crediamo ancora nei valori del Vangelo che riteniamo valori “umani” prima di tutto. Il resto lo consideriamo, mi si passi il termine, “sovrastruttura”.Nonostante questo, tuttavia, la connotazione di immoralità data all’omosessualità dalla Chiesa si è aggiunta al giudizio negativo complessivo che abbiamo sentito riguardo all’omosessualità in genere.
Ora è passato tanto tempo, abbiamo capito e saputo molte cose. Siamo orgogliosissimi di nostra figlia lesbica così come lo siamo dell’altra figlia eterosessuale. La amiamo così come è. Non c’è niente che in lei che non vada bene e la sua è una differenza naturale.
…E la famiglia di appartenenza (eventuali sorelle o fratelli)?
Mia sorella, con la quale ho parlato della cosa abbastanza presto, ha cercato di sdrammatizzare, per lei non era un problema, ma a me, a quel tempo, non bastava, avevo bisogno di un confronto super partes. Avevo bisogno di capire e di sapere di più.
Mia madre che è anziana ed ha 87 anni, ha cambiato il suo modo di vedere le cose dopo tante conversazioni con me, prima di sapere e questo è stato un bene, perché quando mia figlia le ha rivelato la sua omosessualità lei non ha avuto assolutamente alcun problema ed è stata subito dalla sua parte. È affezionata anche alla compagna della nipote ed ha conosciuto i suoi genitori ed anche la sua nonna.
Per non parlare dei parenti più o meno stretti. loro ne sanno qualcosa? se sì, come l’hanno presa?
Abbiamo i parenti tutti lontani. Ci sentiamo di rado, quindi, non abbiamo sentito alcuna necessità di parlarne con tutti. Le mie figlie lo hanno fatto con i parenti che sentivano più vicini alcun* cugin* e zi* e non ci sono stati problemi.
So di altri parenti che lo hanno appreso dalla TV, durante una mia partecipazione ad un programma di tematiche sociali, ma a parte qualche accenno indiretto non mi hanno personalmente detto niente. Non so perciò cosa ne pensano, ma non è un problema e francamente non mi interessa. Quando dovessero aver voglia di parlarne, siamo qui.
Mia madre e la madre della mia compagna si sono da poco conosciute, dopo tre anni circa di frequentazione, da parte mia e di laura, delle rispettive famiglie d’origine, a tutte le feste comandate. trovate analogie rispetto alla vostra? Vostra figlia ha una compagna fissa che frequenta la vostra casa?
Sì, c’è un rapporto sereno e affettuoso sia di mia figlia con la famiglia della sua compagna, sia della compagna di mia figlia con noi. Ed anche fra noi genitori. Abitiamo lontano, purtroppo, perché le due ragazze abitano al nord così come i genitori della sua compagna, ma quando andiamo su, i nostri incontri sono sempre cordialissimi anche con la nonna.
D’estate, poi, mia figlia viene qui con la sua compagna a passare dei giorni di vacanza ed è una vera gioia rivederle entrambe. Siamo felici che stiano bene insieme e ci piacciono tanto anche i suoi genitori che, fra l’altro, sono sempre stati molto ospitali ed affettuosi con mia figlia.
Sapere che lei ha una compagna e che la sua famiglia le è vicina mi fa sentire più tranquilla. Ho detto tante volte all’altra mamma quanto le sono grata per questo.
Ve la sentite di commentare l’atteggiamento omonegativo della chiesa cattolica nei confronti delle persone omosessuali, alla luce del fatto che le sacre scritture in alcun modo escludono le fedeli ed i fedeli omosessuali dal rapporto con dio e con gesù e, soprattutto, alla luce del fatto che la scienza considera l’omosessualità una variante naturale della sessualità umana e non una malattia o una perversione?
Ci siamo molto allontanati dalla Chiesa dopo che mia figlia è stata trattata malissimo sia dai prelati che ha voluto contattare, sia dal gruppo di capi scout di ispirazione cattolica di cui lei stessa faceva parte.
Era stata lei a volerne parlare, per franchezza, per lealtà: voleva farsi conoscere completamente. È stata ripagata con la sottrazione di tutti gli incarichi in nome di assurde regole e direttive morali cattoliche che venivano dalle gerarchie cui il gruppo si ispirava.
Eppure lei era convinta che sarebbe andata diversamente, visto che era conosciuta da tanto e amata per tutte le sue qualità e la sua dedizione. È stato un trauma, è stata una delusione grandissima per mia figlia. Ancora oggi sta male al solo ricordo. Noi abbiamo fatto esperienze variegate a riguardo.
Abbiamo recentemente conosciuto sacerdoti illuminati, che rivestono anche ruoli importanti nella comunità, in totale disaccordo con le linee della gerarchia ecclesiastica che, ritengono, debba convertirsi, evolvere e aprirsi al cambiamento e, allo stesso tempo, siamo stati quasi cacciati via da un parroco, cui volevamo presentare la nostra associazione[23], che ci ha chiesto se approvavamo gli “atti” omosessuali e a cui abbiamo risposto “certamente sì”. Si leggeva nei suoi occhi un chiaro Vade retro, Satana.
Continuiamo sempre a credere nei valori del Vangelo come valori umani, crediamo che la Chiesa come comunità con le sua varie voci debba essere distinta dalla Chiesa come Gerarchia che ha una posizione ufficiale inaccettabile quando predica il rispetto della persona ma nega una pulsione affettiva emotiva e sessuale legittima degli esseri umani.
Riteniamo che la negazione da parte della Chiesa Cattolica della espressione della sessualità (che deve essere comunque sempre rispettosa dell’altro) al di fuori del matrimonio per le coppie etero, e tout court nelle coppie gay e la conseguente negazione dei diritti sia uno strumento per continuare ad esercitare un controllo ed un potere all’interno e all’esterno dei suoi apparati, sulla comunità tutta.
Il vero problema, però, non è, o non è solo, la posizione condizionante ed arretrata della Chiesa, il problema è che abbiamo una classe politica che, per opportunismo bieco, fatto passare per rispetto dei valori tradizionali, si rifiuta di prendere atto delle esigenze e dei diritti di milioni di cittadini e delle loro famiglie, nonché dell’evoluzione di questa società e della sua strutturazione, compiendo una vera e propria ingiustizia ai danni di tante persone.
CONCLUSIONI
A mano a mano che analizzavo le testimonianze dei famigliari e quelle dei preti impegnati nella cura pastorale di persone LGBT, mi sono resa conto che alcuni punti, più di altri, venivano da loro messi in evidenza, a proposito del travagliato rapporto che hanno con l’istituto cattolico, nel nostro Paese.
Prima di tutto mi sono chiesta quali fossero le istanze più cogenti di quei famigliari cristiani: il pieno riconoscimento dei loro figli, delle loro figlie, dei loro fratelli e delle loro sorelle da parte dei vertici del Vaticano, il ritorno al messaggio cristiano presente nei Vangeli che, secondo molti di loro, non fa più parte del magistero cattolico e, ultimo ma non per questo meno importante, il fatto che il cattolicesimo, che hanno teso a distinguere dalle loro origini cristiane, sta perdendo fedeli proprio a causa delle tante dichiarazioni che vedono nell’omosessualità agita una pratica “contro la natura di quello che Dio ha originariamente voluto“[24]. Soprattutto, ho avvertito il loro sconforto, a volte la loro rabbia, oltre ad una profonda vergogna, nel momento in cui ad essere stati chiamati in causa, insieme a figlie e figli, sorelle e fratelli, sono stati loro stessi, in qualità di parenti stretti.
La volontà di queste persone è una ed una soltanto: contribuire, anche attraverso le loro testimonianze dirette, a mutare il quadro sociale di una nazione, quella italiana, la cui opinione pubblica continua a nutrirsi di pericolosi pregiudizi, anziché porsi – in modo evangelico – nella condizione di conoscere l’altro da sé per comprenderlo ed accettarlo.
Dall’altro lato ci sono quei preti di frontiera che, come ho avuto modo di sottolineare in un articolo pubblicato sul mensile Tempi di fraternità[25], stanno agendo per modificare il limite territoriale che discosta la superata mentalità cattolica dal nuovo significato di famiglia; in particolare mi sono domandata in che modo don Piero Borelli, don Michele De Paolis e John J. McNeill agiscano nei confronti delle persone LGBT che a loro si rivolgono, grazie alle cure pastorali che mettono in pratica.
Le parole che, più di tutte, sono emerse dalle loro testimonianze sono le seguenti: accoglienza, ascolto, condivisione, compassione, assenza di giudizio morale alcuno ed assoluzione. Tutti termini che non lasciano spazio a dubbi semantici e che ci offrono una visuale molto più ampia, rispetto alle affermazioni contenute, per esempio, nel documento Fede e omosessualità[26] di don Valter Danna; nel paragrafo 7.4, intitolato Il rispetto dovuto e la lotta alla discriminazione e al pregiudizio, a proposito della differenza tra omosessualità in quanto “tendenza” – termine di per sé esecrabile, in quanto presupporrebbe un’inclinazione che può essere corretta – ed omosessualità agita (differenza fondamentale per il Magistero della chiesa cattolica) si legge quanto segue: «Accettarsi non significa ancora giustificare tutto di sé, compresa la pratica omosessuale, ma significa riconoscersi in profondità come persona con un proprio valore oggettivo e capace di trovare un senso pieno alla propria esistenza anche sessuata nella linea del Vangelo.»[27] Come a dire che la chiesa dei papi continua a condannare gli atti omosessuali come intrinsecamente disordinati e che l’unica via percorribile dalle persone con orientamento omosessuale è la castità ovvero la vita passata lontane e lontani dai piaceri della carne.
Nello stesso documento, al paragrafo 7.5 – La proposta della castità, don Danna auspica, fra l’altro: «una educazione dei propri desideri, e in particolare del proprio desiderio di intimità (…) accettandone anche i limiti, superando cioè l’illusione di un’intimità capace di far scomparire le frontiere per arrivare a una comunione pura e totale (…).»[28]
La risposta a quest’affermazione, con cui non si fa altro che ribadire l’esclusione delle persone omosessuali da un presunto disegno divino che includerebbe solo le relazioni amorose e sessuali fra maschi e femmine, è quella che don Michele De Paolis mi ha fornito all’interno di un’intervista risalente ad aprile 2011; ho citato le parole del prelato a pagina 4 di questa indagine, nel paragrafo intitolato Un padre ed un prete.
Nonostante i lodevoli – ancorché lacunosi – intenti di don Valter Danna di inclusione delle persone omosessuali, all’interno del documento da lui firmato si legge, fra le righe, la difficoltà, presente anche all’interno del Magistero della chiesa cattolica, di considerare le persone LGBT dei soggetti del tutto coinvolti nel disegno divino, che vuole tutte e tutti noi partecipi della Sua Grazia incommensurabile; nonostante ciò, molti gruppi di omosessuali cattolici italiani hanno plaudito al testo dell’Arcidiocesi di Torino, avendovi ravvisato chiare intenzioni di accoglienza[29].
Per spiegare questo per altro condivisibile atteggiamento, proveniente da persone che sentono profonda, in cuor loro, l’appartenenza ad una chiesa cattolica che le esclude, mi vengono in aiuto le parole di Chiara Lalli, la quale scrive: «Se è comprensibile, quando si è affamati, gioire anche per una crosta di pane indurito, è però rischioso convincersi che quella crosta sia un pasto da re.»[30]
L’intento di questa indagine è stato quello di far emergere una questione civile assai urgente. Lungi dal voler essere un’approfondita inchiesta sociologica, essa ha teso a dar voce ad un gruppo di persone che, mai prima d’ora, erano state interpellate in merito alla domanda: “Può, oggi, la chiesa cattolica continuare a discriminare una parte così consistente della popolazione italiana, mentre lede l’identità personale di donne e uomini di orientamento omosessuale con affermazioni intrise di omonegatività sociale?”
Pur con tutti i limiti del caso – motivo per cui sto lavorando alla stesura di un libro, in cui saranno presenti i contributi di alcune persone addette ai lavori, oltre a nuove testimonianze di famigliari cristiani – questo reportage è riuscito nel suo scopo, che era quello di far parlare i testimoni diretti di un sopruso sociale cui sono sottoposti essi stessi ed i loro parenti stretti con orientamento sessuale altro. Quel sopruso non fa che fomentare il pregiudizio, che a sua volta ha dato vita allo stigma sociale. I tempi sono maturi per sradicarlo una volta per sempre.
RINGRAZIAMENTI a:
Innocenzo Pontillo, oltre alle volontarie ed ai volontari di Progetto Gionata, per il prezioso aiuto. Andrea Rubera per la grande competenza e per i contatti con AGeDO Roma. Emanuele Macca per avermi dato la possibilità di conoscere la famiglia Barzaghi.
Il mio presbitero, don Piero Borelli, grazie al quale anche a Genova è presente un gruppo cristiano di persone LGBT. Mila Banchi, una madre amorevole ed un’amica impagabile. Ursula Rütter ed Alberto Barzaghi per avermi accolta in casa loro come una figlia ed Enrico Barzaghi per aver vegliato su di noi. Gabriele Scalfarotto per i molti contatti che mi ha fornito (grazie a lui ho potuto conoscere don Michele De Paolis) e per l’affetto che nutre nei miei confronti. Darianna Saccomani per la grande forza che mi ha trasmesso. Giancarla Codrignani per il suo intervento di grande valore. John J. McNeill per l’amore che mi ha trasmesso durante l’intervista.
Ultime, ma non per questo meno importanti, tutte le persone che hanno trovato il coraggio di uscire allo scoperto e di raccontare il loro disagio di parenti stretti, cristiani, di persone LGBT: Susanna, Maura e Mario, Anna e Piero, Maria e Tonino, Adriana e Stefano, Francesco, Grazia, Daniela, Susanna, Maria, Donatella, Michela, GianFranca. Senza il loro fondamentale contributo questo reportage non sarebbe mai nato.
(*) Lidia Borghi è laureata in storia medievale. Pubblicista, blogger (http://lidiaborghi.blogspot.com/) e scrittrice, ha al suo attivo diverse pubblicazioni su periodici cartacei (Varchi, Tempi di fraternità e Adista) oltre che su alcune realtà on-line (Tracce, Settimo Potere, Di’ Gay Project, Outsourcing Blog, Progetto Gionata).
Attivista dei diritti civili e volontaria, fa parte del “Gruppo Bethel di persone LGBT credenti liguri” (http://gruppobethel.blogspot.com/). Da poco meno di un anno collabora con il Progetto Gionata (https://www.gionata.org/index.php), grazie al quale ha pubblicato il primo reportage italiano sui famigliari credenti di persone lesbiche, gay, bisessuali e transessuali.
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[1] Acronimo che sta per Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali/Transgender
[2] Per il concetto di omonegatività si veda il prezioso volume di Vittorio Lingiardi Citizen Gay. Famiglie, diritti negati e salute mentale, Il Saggiatore, Milano 2007
[3] «Gionata è un progetto di volontariato culturale volto a far “conoscere il cammino che i credenti omosessuali fanno ogni giorno nelle loro comunità e nelle varie Chiese”, in modo che queste esperienze possano aiutare la società e le Chiese ad aprirsi alla comprensione e all’accoglienza delle persone omosessuali.”» https://www.gionata.org/
[4] Azione Cattolica dei Ragazzi. http://www.azionecattolica.it/settori/ACR
[5] Associazione di Genitori di Omosessuali (AGEDO). Nata a Milano, in cui è presente la sede nazionale, è “costituita da genitori, parenti e amici di uomini e donne omosessuali, bisessuali e transessuali che si impegnano per l’affermazione dei loro diritti civili e per l’affermazione del diritto alla identità personale.” http://www.agedo.org/
[6] Per approfondimenti: http://www.focolare.org/
[7] http://www.agedofoggia.it/
[8] La mia inchiesta è partita da Gabriele, grazie a Claudio Cipelletti, il regista milanese autore di due documentari di utilità sociale, Nessuno uguale e Due volte genitori, che rappresentano altrettante pietre miliari, dei veri punti di riferimento per le persone lesbiche, gay, bisessuali e transessuali (da cui la sigla internazionale LGBT) ed i loro famigliari.
[9] Letteralmente: Coming out of the closet – Uscir fuori dall’armadio. In gergo americano la dichiarazione del proprio orientamento omosessuale a famigliari, amici e colleghi di lavoro
[10] Regina Satariano è ora vice presidente nazionale dell’associazione TransGenere – Movimento di Identità Transessuale
[11] José Maria Castillo, Fuori dalle righe. Il comportamento del Cristo, Cittadella editrice, Assisi, 2010
[12] http://www.agedo.roma.it/
[13] Per approfondimenti sulla figura di John J. McNeill: http://www.johnjmcneill.com/ o il suo blog http://johnmcneillspiritualtransformation.blogspot.com/ . Per notizie relative al documentario Taking a Chance on God: http://www.takingachanceongod.com/
[14] Conferenza Episcopale Italiana
[15] Per approfondire il concetto di omogenitorialità si rimanda ad uno dei più completi saggi in merito: Chiara Lalli, Buoni genitori. Storie di mamme e di papà gay, Il Saggiatore, Milano, 2009
[16] Già deputata tra le file di Rifondazione Comunista, attrice, scrittrice, speaker radiofonica http://www.vladimirluxuria.it/
[17] http://www.teatrodidocumenti.it/
[18] Per approfondimenti: http://www.digayproject.org/Home/laltra_altra.php?c=2100&m=9&l=it
[19] Si veda il suo profilo su Facebook: http://it-it.facebook.com/people/Edda-Billi/100000849557152
[20] http://refoitalia.wordpress.com/
[21] Da quell’esperienza nacque il libro Un bambino piange ancora, scritto da Ursula per i tipi di TEA, Milano, 2004
[22] Ursula Rütter Barzaghi, Senza vergogna. Una storia di coraggio contro l’AIDS, TEA, Milano, 1998
[23] GianFranca appartiene, assieme al marito, al gruppo leccese di AGeDO ed è comparsa nel documentario Due volte genitori di Claudio Cipelletti. A giugno 2011 sono riuscita ad ottenere la sua intervista La sezione leccese di AGeDO (http://www.agedolecce.blogspot.com/)
[24] Questa ed altre affermazioni sull’omosessualità è possibile leggere nel libro: Benedetto XVI, Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi, Una conversazione con Peter Seewald, libreria editrice vaticana, Città del Vaticano, 2010. Fonte della citazione papale: http://www.libero-news.it/news/537459/Il_Pontefice___Omosessualit%C3%A0_mai_giusta__%C3%A8_contro_natura_.html: “un conto è il fatto che sono persone con i loro problemi e le loro gioie, e alle quali, in quanto persone, è dovuto rispetto, persone che non devono essere discriminate perché presentano quelle tendenze. Il rispetto per la persona è assolutamente fondamentale e decisivo. Ma non per questo l’omosessualità diviene moralmente giusta, bensì rimane qualcosa che è contro la natura di quello che Dio ha originariamente voluto”.
[25] Lidia Borghi, Barlumi di accoglienza spirituale. La storia del gruppo Bethel di donne e uomini omosessuali liguri, in Tempi di fraternità, mensile di attualità, ricerca e confronto comunitario, n° 6, anno 40°, giugno/luglio 2011, pagg. 14-15 (http://www.tempidifraternita.it/)
[26] Valter Danna, ufficio per la Pastorale della famiglia – Arcidiocesi di Torino, Fede e omosessualità. Assistenza pastorale e accompagnamento spirituale, Effatà editrice, 2009
[27] Op. cit., pag. 53
[28] Op. cit., pagg. 54-55
[29] Si veda, ad esempio, il documento – di tenore simile – Always Our Children: A Pastoral Message to Parents of Homosexual Children and Suggestions for Pastoral Ministers, Origins 27, 1997 (Sempre nostri figli: un messaggio pastorale ai genitori di figli omosessuali e suggerimenti ai collaboratori pastorali), emesso dal Comitato Pastorale Statunitense per il Matrimonio e la Famiglia, la cui versione integrale è possibile leggere qui: https://www.facebook.com/gruppolafontemilano/documenti/semprenostrifigli.html
[30] La citazione è a pag. 184 dell’edizione 2009