I personaggi persi nelle loro utopie di Abdellah Taïa
Intervista ad Abdellah Taïa pubblicata sul sito Gaymaroc.net (Marocco) il 23 dicembre 2014, liberamente tradotta da Marco Galvagno
La fotografa americana Sunny Suits, che vive a Parigi, firma reportage intimi. Dopo aver passeggiato per le strade di Parigi con lo scrittore e drammaturgo Ariel Kenig, il ballerino Axel Ibot o l’icona Leslie Winer, stavolta posa lo sguardo sullo scrittore e drammaturgo Abdellah Taïa, il cui nuovo romanzo “Un pays pour mourir” è uscito in Francia l’otto gennaio. Lo scrittore e regista ci aiuta a cambiare l’atteggiamento finora tenuto a proposito dell’omosessualità in Marocco ed anche la nostra visione del mondo arabo in generale. Il suo talento singolare gli conferisce un posto unico nel paesaggio culturale, si situa con grazia e coraggio al confine tra il ruolo di artista e quello di attivista. La sua forza tenace e la sua generosità ci hanno fornito un punto di vista privilegiato sul viaggio. Lo seguiamo attraverso i suoi desideri, le sue passioni, i suoi sogni e le sue lotte, dal Marocco alla Francia, dalla Svizzera all’Egitto.
In occasione dell’uscita del suo settimo romanzo (“Un pays pour mourir”, Edizioni Seuil) e della diffusione negli Stati Uniti del suo film “L’armée du salut”, adattamento dell’omonimo romanzo, ha accettato di parlarci della sua partecipazione all’edizione 2014 della Biennale del Whitney Museum, di San Genet e delle politiche post Primavera Araba.
.
Parigi ha conosciuto un Autunno marocchino. Come ha trovato questo evento culturale fino ad ora?
Mi è piaciuta la mostra “Maroc Contemporain”, presentata all’Institut du Monde Arabe e ho adorato “Zu”, il nuovo spettacolo della coreografa Bouchra Ouizguen. Nutro molta ammirazione per lei, abbiamo danzato insieme nel 2012, creando un duo, “Karantika”. Abbiamo presentato il nostro spettacolo a Bruxelles, Charleroi e Casablanca.
.
Il DVD del suo film “L’Armée du Salut” è appena uscito. Uno dei bonus riguarda la tomba di Jean Genet a Larache, nel nord del Marocco. Genet era di una lealtà feroce, personale e politica, verso il Marocco, il Nord Africa e il Medio Oriente. Ci può parlare di questo cortometraggio e della conferenza che ha tenuto recentemente nell’ambito dell’Autunno Marocchino a Parigi?
Nel maggio 2008 mi sono recato a Larache in visita alla tomba di Jean Genet. Per la prima volta avevo portato con me la cinepresa. Da quando ho messo piede in città, ho avvertito il bisogno urgente di filmare, registrare, catturare immagini sulla strada verso la tomba “santa”. Ed è quello che ho fatto, l’ho fatto da solo ed è la prima opera cinematografica che mescola tutto il mio percorso esistenziale: le mie origini umili, l’omosessualità, il desiderio di nudità assoluta, il bisogno di creare e di donarsi a qualcuno, a un santo. Jean Genet sta per diventare un santo in Marocco, in modo misterioso, affascinante e magico. Non viene celebrato per i libri che ha scritto, ma per i ricordi delle persone semplici, dei poveri.
È mia madre, una donna analfabeta, che mi ha parlato negli anni ’80 di Jean Genet. Mi piace tutto ciò. Amo che lo scrittore esca dai confini della letteratura e sia nel cuore e nella vita di tutti. Non deve essere proprietà degli specialisti e di coloro che pretendono di capire i libri meglio degli altri.
.
Lei è una figura chiave del cambiamento della percezione e della liberazione dell’omosessualità in Marocco. È avvenuta davvero una specie di liberazione? Chi, oltre a lei, aiuta il movimento?
Ciò che è davvero cambiato in Marocco sul tema dell’omosessualità è l’atteggiamento dei mass media, che ora lo trattano in modo obiettivo. È già un cambiamento enorme, ma non basta, dato che i gay continuano a essere disprezzati e a volte cotti a fuoco lento. L’omosessualità rimane un reato per la legge marocchina e l’83% dei marocchini, secondo un recente sondaggio, si dichiara omofobo. La situazione è sempre pericolosa e triste per gli omosessuali marocchini. Ovviamente, nella vita quotidiana sono abituati ad aggirare i divieti e i vari livelli d’ipocrisia e a rubare istanti preziosi di libertà. Ma fino a quando il potere marocchino continuerà incessantemente a spezzare i sogni delle persone, sia gay che etero, e imporre loro un tremendo silenzio? Alla fine, siamo nel ventunesimo secolo…
.
Lei ha affermato che gli intellettuali marocchini erano rimasti in silenzio dopo il suo coming out pubblico e di non aver ricevuto alcun sostegno. È cambiato qualcosa nel frattempo?
Sono soprattutto i giornalisti che mi hanno sostenuto. Per gli altri ero solo un “frocetto” che voleva diventare famoso dichiarando pubblicamente la propria omosessualità e scandalizzando il paese. Ho dovuto dimostrare loro il contrario, cioè di essere una voce degna di rappresentare il paese. Un “io” libero, nonostante gli altri. E non ho finito, continuo tuttora a farlo. Da solo… Tre anni fa dei giovani omosessuali marocchini hanno creato un mensile gay in arabo, meraviglioso e importantissimo: “Aswat”. Si può leggere online. Li rispetto e li ammiro. Nel maggio scorso è uscito, in occasione della giornata contro l’omofobia, un loro video, nel quale professori universitari marocchini e intellettuali in genere sostengono la loro battaglia. È la prima volta in Marocco.
.
“Arabs are no longer afraid” è stato da poco pubblicato negli Stati Uniti, di che cosa si tratta?
Questo libro faceva parte della biennale 2014 del Witney Museum. Era esposto nella sezione riservata al mio editore americano Semiotext(e). Si possono leggere, tradotti in inglese, tutti i testi politici che ho pubblicato, a partire dal 2006 (su Le Monde, il New York Times, il Guardian etc.) su varie tematiche come il postcolonialismo, la Primavera Araba, la giovane artista egiziana Aliaa Magda Elmahdy, il 20 febbraio…
.
Come si sente in rapporto al clima attuale, politico e sociale, del Marocco e del mondo arabo?
Si sente sempre più spesso parlare di Autunno Arabo per descrivere ciò che sta avvenendo in questo momento nel mondo arabo. Ci si rallegra in Marocco di non aver vissuto sommovimenti politici in questo periodo. Si riascoltano vecchi discorsi: la paura dell’integralismo islamico, ad esempio. Si mettono gli Arabi davanti a scelte tremende: o il potere autoritario o l’islamismo come in Egitto, o la pace come in Marocco o la distruzione del proprio paese come in Siria…
Gli Arabi non meritano che li si seppellisca di nuovo, dopo che dalla fine del 2010 hanno trovato la forza necessaria per sollevarsi contro le dittature, per uscire nelle strade per reclamare giustizia, dignità, democrazia. Lo hanno fatto senza il sostegno del mondo occidentale. Avevano raggiunto una maturità storica, politica, culturale. Avevano capito la necessità di lottare contro coloro che li opprimevano davvero, cioè le classi dirigenti. Erano riusciti a superare la paura.
Per me si tratta di un capovolgimento storico. Nonostante le complicazioni e le tragedie del presente, gli Arabi hanno capito ciò che devono fare. Secondo, me non torneranno indietro. È impossibile, è impossibile. Sanno ormai quali sono i loro veri nemici. La speranza non è del tutto morta nel cuore degli Arabi. Ne sono certo.
.
Lei è stato recentemente invitato a partecipare al festival letterario Écrivains entre Cultures a Beirut. Le piace la città? Che cosa l’ha colpito?
Sono stato colpito soprattutto da due quartieri incredibilmente vivaci, caotici e affascinanti: Borj Hammoud, il quartiere degli armeni, e Dahiya, l’immenso e vertiginoso quartiere degli Sciiti. Ho molta voglia di tornarci e di filmare. Filmare la vita laggiù. La vita che ha un’intensità, folle, pericolosa ed esplosiva. La vita, in cui tutto si mescola, in cui le frontiere si muovono incessantemente.
.
Il suo nuovo romanzo “Un pays pour mourir” è uscito l’otto gennaio. Ci può raccontare un po’ la storia?
È un romanzo sul postcolonialismo, ambientato a Parigi nel 2010. La sua eroina è Zahira, una prostituta marocchina, che vive a Barbès, in procinto d’andare in pensione. Intorno a lei ci sono Aziz, che vuole cambiare sesso, Mojtaba, un iraniano in fuga dal proprio paese, Zineb, che sogna di diventare attrice… Si tratta di voci che parlano, urlano, che da sole ci impongono le loro utopie.
Persone che vivono nel cuore della Francia, fanno parte della vita, dell’economia e della sessualità francesi, ma restano invisibili, non considerate. Poste tra varie frontiere, sono chiuse nelle loro utopie romantiche e irrealizzabili. Non hanno paura, ma una fatalità, quella del mondo odierno, pesa su di loro. Forse solo la morte può liberarle. È un libro politico, triste, violento. La Francia è il paese evocato nel titolo? Il lettore si farà da solo un’idea. È un libro che mi porto dentro dal lontano 1999.
.
Su cosa sta lavorando ora?
Sto scrivendo un testo sull’eiaculazione maschile per il prossimo numero della rivista francese Numéro.
.
Testo originale: Abdellah Taïa: L’espoir n’est pas complètement mort