Transessualitá. Diario di una metamorfosi
Recensione del teologo Giannino Piana* pubblicata sulla rivista cattolica quindicinale ROCCA n.14 del 15 luglio 2019, pp.25-27
Il racconto che si sviluppa nelle pagine del bel libro di Giovanna Cristina Vivinetto (Dolore minimo, ed. Interlinea, Novara 2018), è un racconto singolare. E un’autobiografia sotto la forma di un poema in versi o, più propriamente come scrive Alessandro Fo nella Postfazione – il «diario di una metamorfosi», la narrazione di un percorso di vita insolito, contrassegnato dal passaggio da un’identità ad un’altra: dall’essere uomo all’essere donna.
Un percorso che ha condotto alla conquista della propria vera identità, quella che si celava dietro le appparenze di un’appartenenza biologica, che non coincideva con la percezione che si aveva di sé sul piano psicologico e spirituale.
Emerge dunque, in queste pagine, lo spaccato di una condizione, quella transessuale, segnata da pesanti conflitti – la duplicità non può che suscitare profonde lacerazioni interiori – ma attraversata anche dalla tensione alla scoperta di sé, alla ricerca del senso vero di un destino, che appare, per molti aspetti, enigmatico ed oscuro.
Le tappe in cui si snoda il racconto ripercorrono le diverse fasi dello svilupo della vita personale – dall’infanzia all’adolescenza fino alla giovinezza – in cui si fa strada gradualmente la presa di coscienza della propria condizione.
La scoperta di uno sdoppiamento, che man mano prende forma e voce, è avvertita con
stupore, con un misto di attesa e di paura. Il transito dalla prima nascita che vera tutta casualità, biologia, incertezza» all’altra che «fu scelta, fu attesa, fu penitenza» (p. 35) non è indolore. «Il suo continuo essere e non essere quel corpo, vedersi diventare a poco a poco un’altra persona, la gioia, la sorpresa e anche il senso di vuoto di quella nuova nascita» – come acutamente osserva Dacia Maraini nella Presentazione (p. 6) sono i sentimenti (anche contraddittori) che si agitano nel profondo dell’anima.
Il dialogo tra sé e l’altro da sé, un sé che non c’è più, che se ne è andato senza possibilità di ritorno, ha accenti struggenti.La possibilità di colmare la distanza tra i due mondi che convivono, trasformandola «in spazio vitale» (p. 34), è legata alla capacità di affrontare dilemmi «annidati ben oltre la carne», scavando dentro «le menomazioni della mente» nello sforzo di «determinare con esattezza / le idee che regolano l’identità» e di risalire così alle sorgenti dell’«amore che ci tiene in piedi» (p. 75).
Ed è proprio questa esperienza, d’altronde, che vince le resistenze delle diversità, facendo crollare ogni barriera, perché quando l’amore si manifesta, quando il corpo transessuale «siincastra a un altro corpo / non è più transessuale. Quando /si lega a una carne che accoglie / forse non è più nemmeno un corpo» (p. 72).
Un percorso ad ostacoli, dunque, reso più difficile dall’esposizione faticosa al mondo esterno, in cui è ampiamente diffuso il pregiudizio che fa della stessa parola transessuale «una parola terribile» (p. 67) o che conduce a definire tale condizione «contro natura», spingendo chi la sperimenta all’ «autonegazione» (p. 89).
La denuncia di questa situazione è forte e accorata, come si evince da questi versi carichi di sofferenza: «Noi così giovani, fummo costretti / ella scrive – a riabilitare i nostri corpi, / obbligati a guardare in faccia la nostra natura e sopprimerla con un’altra. / A dirci che potevamo essere / chi non volevamo, chi non eravamo» (p. 89).
Il sostegno dell’ambiente familiare, in questo caso non è tuttavia mancato. La presa di coscienza shoccante della situazione della figlia si trasforma per i genitori (e non solo) in occasione di solidarietà – bellissime sono a tale proposito le pagine di colloquio della e sulla madre -, e il «dolore minimo» (il titolo della raccolta, apparentemente sibillino, è del tutto appropriato) rivela l’ambivalenza di una situazione che è pienamente dentro la condizione umana, pur presentando aspetti inusuali e di particolare drammaticità.
Una raccolta, dunque, quella di Giovanna Cristina Vivinetto che nasce dal desiderio di rendere partecipi di un’esperienza che merita di essere conosciuta dal di dentro per coglierne la densità dei si significati esistenziali.
La grande dignità, con cui viene reso trasparente (non senza un senso profondo di pudore di chi non cerca consolazione e tanto meno compassione) il turbinio di sentimenti, non sempre componibili, che si alternano nell’animo, è la chiara manifestazione di una grande maturità umana. E il lirismo severo e composto, che conferisce intensità ed efficacia alla narrazione, testimonia di una decisa (e promettente) vocazione poetica.
ALCUNE LIRICHE DAL LIBRO
L’altra nascita portò con sé
la distanza degli alberi
– la verde solitudine dei tronchi.
A noi parve – per così tanto tempo
di non toccarci mai, mai raggiungerci
per quanto ci prendessimo
l’uno tra i rami dell’altra –
mai poterci dolere con foglie
solamente nostre e che la tempesta
non rendesse indistinguibili.
Ci vollero diciannove anni
per prepararsi alla rinascita,
per trasformare la distanza tra noi
in spazio vitale, il vuoto in pieno.
il dolore in malinconia – che altro
non è che amore imperfetto. Aspettammo
i nostri corpi come si aspetta
la primavera chiusi nell’ansia
della corteccia. Capimmo così
che se la prima nascita era tutta
casualità, biologia, incertezza – l’altra,
questa, fu scelta, fu attesa, fu penitenza:
fu esporsi al mondo per abolirlo.
pazientemente riabilitarlo (pp. 34-35)
Non ho ferite che appaiono. I miei
dilemmi sono annidati ben oltre la carne.
Eppure chi mi definisce addita
il corpo come sola dimensione possibile.
Come se la colpa fosse tutta
tra le gambe o nel tono della voce,
in un cromosoma destinato
a dover restare tale e quale.
Risulta più difficile scovare
Le menomazioni della mente,
determinare con esattezza
le idee che regolano l’identità,
l’umore, l’amore che ci tiene in piedi.
Ma il corpo non mente: non nega
la sua terrosa concretezza,
non allude, non travisa, c’è
e si espone, materializza.
Il corpo è solo, perciò è esatto,
circostanziato, dunque corruttibile.
E questa è sua debolezza
e sua corticale potenza.
Assediata, piegata, avvilita
è l’unica forma sana che mi rimane (p. 75).
Noi eravamo fra quelli chiamati
contro natura. Il nostro esistere
ribalta e distorceva le leggi
del creato. Ma come potevamo
noi, rigogliosi dei nostri corpi
adolescenti, essere uno scarto,
il difetto di una natura
che non tiene? Ci convinsero,
ci persuasero all’autonegazione.
Noi, così giovani, fummo costretti
a riabilitare i nostri corpi,
obbligati a guardare in faccia la nostra
natura e sopprimerla con un’altra.
A dirci che potevamo essere
chi non vogliamo, chi non eravamo.
Noi gli unici esseri innocenti.
Gli ultimi esseri viventi, noi,
trapiantati nel mondo dei morti
per sopravvivere (p. 89).
* Giannino Piana, già docente di Etica cristiana all’Istituto Superiore di Scienze Religiose della Libera Università di Urbino e di Etica ed economia alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Torino, collaboratore di diverse riviste, ha presieduto l’Atism (Associazione Teologica Italiana per lo studio della Morale) e diretto il Corso di Morale in 6 voll. (2 ed., 1989-1995), il Nuovo Dizionario di teologia Morale (1990), le collane “Cronache Teologiche” (Marietti) e “Morale” (SEI). Dirige attualmente “Questioni di etica teologica” e “L’etica e i giorni” (Cittadella Ed.). Tra i suoi libri segnaliamo: Testamento biologico. Nodi critici e prospettive (2010), Omosessualità: una proposta etica (2010), La verità dell’azione. Introduzione all’etica (2011), Politica etica economia: Logiche della convivenza (2011), In novità di vita. Morale fondamentale e generale (2012).