Benedetto XVI trascinato a fondo da Bertone
Articolo del 17 febbraio 2013 di Marco Politi pubblicato su Il Fatto Quotidiano
Chi crede ai presagi ricorda il 13 gennaio 2008. Nella Cappella Sistina Ratzinger celebra dimostrativamente la messa preconciliare, voltando le spalle ai fedeli. Gli cade l’anello papale. Perderà il regno. Nei fatti il lungo addio di Benedetto XVI dal pontificato comincia l’ultima settimana di luglio del 2010, quando concede al suo biografo Peter Seewald sei giorni di colloqui per un libro-intervista, destinato a risollevare la sua popolarità dopo la grave crisi seguita all’affare Williamson (il vescovo lefebvriano cui è stata tolta la scomunica benché sia un accanito negatore dell’Olocausto) e le aspre polemiche su come da cardinale ha trattato casi di pedofilia negli Stati Uniti e nella sua diocesi a Monaco di Baviera.
Il prestigio di Benedetto XVI è scosso. Accetta una domanda sulle dimissioni. Seewald gli chiede se c’è un momento “opportuno” per darle. Il papa risponde: “Sì”. In caso di stress “fisico, psichico e mentale” un pontefice ha il diritto e “a certe condizioni ha anche il dovere di ritirarsi”. Oltre due anni fa Ratzinger considera dunque concreta l’opzione dell’abdicazione. Unica remora: non fuggire nell’ora del pericolo. Lo scandisce a Seewald. (Il 2010 è l’anno della grande crisi sugli abusi sessuali nella Chiesa). Si può fare, spiega il Papa, in un “momento tranquillo”. La prima parte del 2011 trascorre mentre il pontefice rimugina sull’opzione-dimissioni.
C’è un flash back da fare. Aprile 2005: una lobby di cardinali conservatori lo porta a forza al papato. Ma i falchi della tradizione non riescono a imporre a Benedetto XVI un loro segretario di Stato, un conservatore efficiente. Ratzinger –“ timido ma ostinato”, così lo definisce un porporato nordeuropeo – vuole scegliere lui. Porta in Curia personaggi sbiaditi come i cardinali Levada, suo successore alla Congregazione per la Dottrina delle fede, o l’indiano Ivan Dias a Propaganda Fide. Per segretario di Stato sceglie Bertone, ex segretario al Sant’Uffizio. È la scelta che lo rovinerà.
Bertone è malvisto in Curia perché non ha esperienza diplomatica né conoscenza della macchina curiale. Collezionerà ostilità per la sua tendenza a collocare suoi uomini nei gangli del potere economico vaticano e perché ritenuto “accentratore ma improvvisatore”, come si esprime un monsignore. È troppo debole per fare cambiare opinione a Ratzinger in certi frangenti, che riguardano il rapporto con l’islam e l’ebraismo, e troppo ossequioso nei confronti del pontefice quando dovrebbe avvertirlo di disastri imminenti .
È responsabilità di Bertone non avere bloccato l’affare Williamson, è sua responsabilità lasciar designare arcivescovo di Varsavia una ex spia dei servizi segreti comunisti polacchi, monsignor Wielgus, dimessosi con gran vergogna della Santa Sede. Ma Benedetto XVI non riesce a separarsi da Bertone, che è il suo bastone d’appoggio psicologico, senza il quale è smarrito negli affari curiali. Sul finire del 2011 la destra curiale, irritata perché il papa non cambia segretario di Stato, lancia l’ultimo avvertimento per ridare efficienza alla Santa Sede.
Fa filtrare la notizia-provocazione di imminenti dimissioni papali. Ne parla il ciellino Antonio Socci su Libero il 25 settembre 2011. Poco dopo, agli inizi del 2012, approda in Vaticano il misterioso appunto sull’“attentato al papa” (pubblicato dal Fatto). È un documento grandguignolesco, manipolato da ambienti ecclesiali ultra-conservatori, che però allinea elementi fatti per riflettere: Benedetto XVI durerà ancora “un anno” (e in effetti…), c’è un forte contrasto fra lui e Bertone, il cardinale Scola è il successore in pectore.
A ruota un fan ratzingeriano come Giuliano Ferrara scrive a maggio: “Il mio sogno è che il papa si dimetta… Il governo tecnico della Chiesa non è il suo mestiere”. È il momento in cui Benedetto XVI si accorge che il malumore sinora indirizzato verso Bertone si sta rovesciando su di lui (che ha già perso da tempo il favore dei cattolici riformisti). La Chiesa divisa sembra convergere nel giudizio negativo sulle sue capacità di governo. Con l’escalation di Vatileaks Ratzinger si convince che il suo ciclo è chiuso.
(Lo stesso Osservatore certifica che le dimissioni entrano in agenda dal marzo 2012). Tanto più che Bertone ha compiuto scelte su cui Benedetto XVI e il segretario Gaenswein sono perplessi: il siluramento di Viganò, il ridimensionamento dell’Authority che doveva ispezionare i flussi di denaro in Vaticano, la cacciata di Gotti Tedeschi da presidente dello Ior.
Paradossalmente lo trascina a fondo il suo braccio destro. In autunno il papa ordina di restaurare il convento di clausura, in cui – si saprà l’11 febbraio di quest’anno – decide di ritirarsi. La macchina dell’addio si mette in moto.