Trilogia delle identità. A teatro con le storie queer
Dialogo di Katya Parente con Marcus Lindeen
Reduce da una delle mille incursioni nell’OPAC (la rete bibliotecaria bresciana e cremonese), mia moglie richiama la mia attenzione sul libro di un certo Marcus Lindeen intitolato “Trilogia delle identità”. La sinossi è golosa e cerco di contattarlo: sarebbe un ospite perfetto per una delle mie interviste.
Marcus, gentile e schivo, è una di quelle persone immerse nell’arte – tra le sue opere possiamo citare “The raft”, “Dear director”, “Glorious Accidents” e le tre pièces della “Trilogia delle identità”. Conosciamolo meglio.
Prima di tutto, cosa ti ha avvicinato all’arte teatrale e cinematografica?
Penso di essere sempre stato un narratore e qualcuno a cui piace sia raccontare storie che ascoltarle. Sono una persona molto curiosa e ho sempre usato la mia professione come scusa per chiedere alle persone della loro vita. Quando ero adolescente, facevo sia teatro che giornalismo e, molto presto, ho iniziato a pubblicare un mio giornalino.
Poi ho lavorato in radio come produttore e a scrivere per i giornali. Ma, nel giornalismo, mi sentivo come intrappolato. Mi sono reso conto che spesso le storie della gente erano fantastiche, ma altrettanto spesso le persone non erano un granché nel raccontarle, così mi sono trovato a voler cambiare o aggiungere cose.
Poi ho deciso di utilizzare altre forme espressive e mi sono iscritto al corso di direttore teatrale all’Università delle Arti di Stoccolma. In quel periodo ho iniziato anche a girare film, e da allora mi sono mosso sempre tra questi due mondi. Sempre con i piedi ben piantati nella realtà, con ricerche ed interviste come metodo di lavoro, ma con un avvicinamento progressivo alla fiction come resa.
Ci racconti la genesi della “Trilogia delle identità”?
“La trilogia delle identità” (“La trilogie des identités”) è la collazione di tre pièce teatrali che esplorano il tema dell’identità e della trasformazione. Sviluppatisi in un periodo di almeno quindici anni, questi tre testi teatrali dal taglio documentale ci accompagnano in una vorticosa ricerca nel nostro mondo interiore e sfida le basi della nostra identità; inoltre sono presentati senza il tradizionale palcoscenico.
Il pubblico siede in cerchio insieme agli attori, ascoltando i loro dialoghi. In “Wild Minds”, siamo in una sessione di terapia di gruppo per sognatori ad occhi aperti compulsivi, un disordine psicologico reale anche se raro in cui la gente è ossessionata dai loro immaginari mondi segreti. “Orlando e Mikael” si basa sulle registrazioni di due uomini svedesi, diventati donna, che si pentono di essersi sottoposti ad un’operazione chirurgica per la riassegnazione del sesso. E ne “L’avventura invisibile”, gli spettatori ascoltano una conversazione fra tre personaggi che condividono storie spettacolari sulle trasformazioni delle loro identità.
Una di queste storie si basa su un’intervista con un francese, primo uomo al mondo a sottoporsi ad un trapianto totale del viso che parla delle difficoltà di adattarsi ad una nuova vita con le fattezze di qualcun altro. “Orlando e Mikael” ha debuttato nel 2006 con il titolo “Rimpianti” (“Ångrarna”) allo Stadsteater di Stoccolma e da allora è stato tradotto in molte lingue e recitato in Paesi come Messico, Argentina, Norvegia, Corea del Sud e Cile, in origine era stata scritta per il Moderna Museet in collaborazione col Dramaten – il Royal Dramatic Theatre e la Schaubühne di Berlin.
La Schaubühne ha messo in scena tutte e tre le opere durante il festival internazionale del new drama-FIND (2008, 2016, 2022). “L’avventura invisibile” (“L’aventure invisible”) ha debuttato al Festival d’Automne nel 2020. Il festival ha presentato tutti e tre i lavori insieme al Théâtre de Gennevilliers di Parigi nel 2022, inclusa una nuova produzione francese di “Orlando e Mikael”.
Nel 2022, i tre lavori teatrali hanno visto la luce come libro grazie all’editore italiano il Saggiatore.
Raccogliere in un volume delle opere teatrali, privandole così dell’azione sul palcoscenico, in qualche modo non le “castra”?
Intendi come libro? O, in generale, come trilogia? O anche solo definendole una trilogia? Credo che raggruppare insieme diversi lavori, sia un modo per sottolineare certi temi che ricorrono in molti lavori. E fare così è un modo per me come artista di accorgermi di certe correnti sotterranee presenti nei miei lavori.
Nella trilogia, in tutti i lavori, c’è certamente il tema dell’identità e della trasformazione. Ma anche una forma condivisa, visto che sono tutte pièces dialogate basate su tracce documentate. Così, c’è anche questo che accomuna i tre lavori. E definiscono un periodo di lavoro di quindici anni della mia vita come scrittore e direttore.
Ma se il problema è rendere questi lavori teatrali disponibili nel formato-libro, credo che sia sempre e comunque un compromesso. Il teatro è pensato per essere esperito.
Scrivo cose che immagino anche come direttore, il che significa che voglio il controllo sul cast, sulle luci, sulla musica – su tutto praticamente – affinché l’opera sia percepita come la penso io. Ma sicuramente, come libro ha anche un valore letterario.
Cos’è l’archeologia queer, soggetto della tua ultima opera, presentata a Bruxelles?
L’archeologia queer è qualcosa di cui ho sentito parlare qualche anno fa. Sostanzialmente è un tipo di procedura che cerca di usare la teoria queer per cambiare il punto di vista del passato – specialmente quello eteronormativo. Significa guardare al passato con lenti diverse.
Nella pièce, il personaggio dell’archeologo sta cercando tra diverse tombe, specialmente una in Egitto dove presume sia inumata, in una cripta, la prima coppia gay della storia. Ma la sua teoria è contestata da alcuni storici – cosa che, dal mio punto di vista, è pura omofobia.
Perché un argomento così particolare?
E’ un argomento molto interessante, dal momento che tutti vogliamo trovare tracce delle nostre origini nel passato, e per le minoranze e le persone queer si tratta di radici molto esigue, visto che quando due uomini sono sepolti insieme, si presume siamo amici o fratelli, e mai amanti.
Ciò mostra quanta parte delle nostre idee sia bloccata dal nostro modo di vedere le cose, e come la storia, sostanzialmente, ci dica molto più del presente che del passato come davvero è. E questa cosa può essere davvero pericolosa per persone che rischiano di essere dimenticate quando si scrive la storia.
Il personaggio del mio lavoro lotta perché nei libri di storia si parli anche di queste vite queer dimenticate.
Per chi volesse vederlo a teatro, Marcus sarà al Piccolo Teatro di Milano il 15-18 gennaio 2025 con Memory of Mankind. Nel frattempo, non ci resta che leggere!