Tuo figlio è gay! Dove sta il problema? La mia storia di madre
Quando due anni fa mio figlio David mi confessò la sua omosessualità era all’ultimo anno delle superiori. Non me lo disse spontaneamente, fui io a chiedere perché avevo dei sospetti. Una mattina, dopo essermi tormentata sul come e se chiederlo, ho trovato il coraggio: dovevo sapere. Prima di porgli la domanda ho spiegato che non era mia intenzione intromettermi e che non stavo cercando di metterlo in imbarazzo, ma che c’era qualcosa che volevo chiedergli, anche se non sapevo come. Alla fine feci la domanda: “Sei gay?“.
Prima di replicare mi disse: “Dopo averti risposto voglio che ne parliamo, ma non ora perché mi sto preparando per andare a scuola” e dopo mi disse: “Sì” e, per sottolineare la questione, aggiunse: “Sono un maschio gay“. Volevo morire.
Avevo conservato un articolo intitolato “Questo bambino è gay?” con un elenco di numeri della PFLAG (ndr l’AGEDO italiana è la PFLAG Americana, sono entrambe associazione di genitori, famiglie e amici di gay e lesbiche), da cui ho tratto il numero dell’associazione.
Ho chiamato immediatamente e mi ha risposto la donna più comprensiva, Paulette Goodman. Dopo averle raccontato la mia storia, mi disse che sapeva esattamente cosa stessi passando perché anche lei aveva un figlio gay. Poi mi confidò ciò che ora considero la domanda magica: “Ma hai pensato a cosa sta provando tuo figlio?“, che cambiò completamente la mia prospettiva. Mentre ero devastata per il fatto che il mio unico figlio fosse gay quella domanda spostò la mia attenzione dai miei sentimenti a quelli di mio figlio che amo più della vita stessa.
Ponderai la domanda di Paulette per i tre giorni successivi. Non andavo al lavoro e piangevo nel letto di casa, al buio, senza mangiare. Dormivo nella speranza che una volta sveglia mi sarei accorta che era tutto un sogno. Quando effettivamente mi sono svegliata, mi sono resa conto che non era un sogno, ma la realtà e così ho ricominciato a piangere.
Dopo tre giorni di ciò che ora considero insensato, mi sono ricomposta e ho iniziato a rimpiangere di non essere stata presente quando mio figlio ha avuto bisogno di me. Aspettai davanti al lavoro che David uscisse perché sentivo un insopprimibile bisogno di vederlo ed abbracciarlo. Desideravo dirgli che mi dispiaceva non essergli stata accanto per confortarlo, ma che d’ora in poi ci sarei stata.
David ed io siamo afro-americani. La maggior parte degli afro-americani sono fortemente influenzati dalla chiesa nera. Ai tempi della schiavitù era la chiesa a tenerci uniti. Gli insegnamenti della Bibbia erano tramandati di generazione in generazione – e lo sono ancora – e uno di questi era che l’omosessualità è un abominio, una visione che mi trova fortemente in disaccordo. Sfortunatamente molti afro-americani hanno ancora oggi questa opinione e sono meno disposti ad accettare gay, lesbiche e bisessuali di qualsiasi altro gruppo.
L’impeto maggior che motivava il mio coinvolgimento nella PFLAG e nel movimento per i diritti dei gay era il mio tentativo di istruire le persone circa la natura dell’omosessualità e, soprattutto, la volontà di rendere le cose migliori per mio figlio e i suoi simili. Gradualmente ho parlato con la mia famiglia, i miei amici e i miei colleghi del fatto che mio figlio era gay, ma il vero “coming out” è avvenuto quando ho partecipato nel 1993 alla marcia su Washington (il Gay Pride) per l’uguaglianza dei diritti e la liberazione delle persone lesbiche, gay e bisessuali. Questo è stato probabilmente uno dei giorni più commoventi della mia vita.
Quando ho sfilato con la PFLAG e ho sentito urlare “Grazie, mamma” e “Ti vogliamo bene, mamma“. Forse ancora più commovente è stato il banchetto degli abbracci della PFLAG dove gay, lesbiche e bisessuali donavano dei soldi per ricevere un abbraccio da un genitore. È stato solo allora che ho appreso che molti genitori si sono allontanano dai loro figli quando sanno della loro omosessualità. Come madre lo trovo inconcepibile.
Questa consapevolezza mi ha spinto a diventare una volontaria della helpline della PFLAG con cui collaboro da allora. Siccome la mia unica telefonata alla helpline aveva cambiato le mie prospettive, volevo ricambiare aiutando altre persone a superare il trauma di sapere che il proprio figlio o amato fosse gay; la preziosa lezione di Paulette continua ad essere utile.
Quando ascolto la storia di un genitore e racconto la mia cerco di convincerlo a concentrarsi su come possa sentirsi suo figlio e non sui propri sentimenti. La maggior parte delle volte questo funziona, ma alcuni genitori ci impiegano più di altri.
Confesso di essere impaziente con coloro che sembrano incapaci di accettare l’omosessualità dei propri figli. Il mio pensiero è: dove sta il problema? È tuo figlio!!
Sono fiera di essere un membro della famiglia della PFLAG che fa uno straordinario lavoro nel mettere e tenere insieme le famiglie come anche nel combattere la propaganda anti-gay e la disinformazione diffusa da quelli che cercano di portare avanti la loro agenda politica e religiosa.
Noi soci della PFLAG dobbiamo continuare insieme nei nostri sforzi. Come ha scritto mio figlio in un tema: “Non possiamo più metterci di consentire a coloro che non sanno di parlare e a coloro che sanno di rimanere in silenzio“.
Testo originale: A mother’s story