Tutto concorre al bene… Quale vocazione per i cristiani LGBT+ nella chiesa cattolica?
Riflessioni di Tiziano Fani Braga
Negli ultimi giorni, il Papa è stato al centro di una polemica a causa dell’uso della parola “frociaggine” durante un’udienza privata con i Vescovi della Conferenza Episcopale Italiana. Questo termine, considerato offensivo e inappropriato, ha suscitato immediate reazioni e proteste da parte della comunità LGBTQ+ e dei loro sostenitori, ma soprattutto di chi, come me, hanno sofferto e soffrono ancora per una discriminazione riguarda propria identità e/o genere.
Non smetterò mai di ribadire che la vocazione è un qualcosa che si presenta nella vita, una sorta di chiamata a far fiorire il nostro battesimo, semino che ci è stato donato e che può germogliare solo con un rapporto quotidiano con il Signore, ma che in ogni caso trascende ogni identità e genere.
La successiva richiesta di scuse del Pontefice ha messo in luce una questione ben più profonda: il rapporto della Chiesa Cattolica con l’omosessualità, rapporto controverso perché è sempre esistito e sempre esisterà, e il bisogno di una riflessione interna su temi come l’amore, l’accoglienza e, andando nella pratica, il celibato presbiteriale.
Molti di noi, figli di questa Chiesa, hanno vissuto con speranza le parole del Papa Francesco nei vari anni del suo pontificato, quando sembrava aprirsi uno spiraglio di dialogo e comprensione verso la comunità LGBTQ+.
Il suo famoso “Chi sono io per giudicare?” aveva fatto sperare in un cambiamento di rotta, in una Chiesa più inclusiva e meno giudicante.Tuttavia, le recenti parole del Papa, e soprattutto dei Vescovi che hanno usato questo come un’arma, ci ricordano che il cammino verso l’accettazione e l’amore incondizionato, amore basato sul Vangelo e indicato da Cristo, è ancora lungo e irto di ostacoli.
Mi rendo conto che, parlando in prima persona, forse sono stato troppo “papista”, forse ho investito troppe speranze in un cambiamento che richiede tempi lunghi e una profonda revisione teologica e culturale all’interno della Chiesa. La questione dell’omosessualità, infatti, non riguarda solo l’uso di parole offensive, ma tocca anche temi fondamentali, come già accennato, il celibato presbiteriale e il ruolo dei sacerdoti.
La castità (mal interpretata) come obbligatoria, per esempio, è una questione che divide e che richiede una riflessione sincera: siamo tutti sacerdoti, chiamati a vivere la nostra fede e il nostro amore in modo autentico e rispettoso della nostra natura e del prossimo.Questa visione aperta forse ci consentirebbe anche un controllo maggiore riguardo agli abusi che continuano a perpetrarsi nella Chiesa, abusi che accadono di nascosto e con sotto questo clima di paura delle vittime, che vengono raggirate dal potere di pochi.
Anche la mia esperienza avuta quando in giovine età, ora non è che sia tanto vecchio, mi portò a entrare in contatto con il seminario, tutto andò bene, fino a quando dichiarai apertamente, dopo un lungo discorso sulla vocazione che viene sopra di tutto, la mia omosessualità, con parole poco garbate e un diverbio con il Rettore, fui invitato “caldamente” a lasciare il seminario e qualche mio compagno, nonostante fosse anche lui gay ma in un pauroso nascondimento, tacendo continuò il loro percorso.
Da quel momento qualcosa cambio in me, un martellamento continuo sulla sessualità, come una goccia cinese mi hanno portato a face scelte sbagliate per la mia natura e a ferire chi mi stava intorno, entrando in un loop di sensi di colpa, come fossi affetto da chissà quale morbo. Questa era la Chiesa che ho conosciuto e vissuto, dove ho coltivato anche un rapporto con Dio, segreto e ma al tempo stesso profondo e autentico.
Nondimeno come figlio di questa stessa Chiesa, non posso fare a meno di sentire un profondo legame con essa, nonostante i suoi errori e le sue rigidità. È come un rapporto con una madre che, pur sbagliando, continua a guardarmi con amore.
Questo amore materno, anche se a volte “sclera di brutto” (passatemi questo termine “coatto”), resta una fonte di speranza e di ispirazione per me. Credo fermamente che, nonostante tutto, la Chiesa possa evolvere e abbracciare una visione più inclusiva e accogliente, capace di riconoscere e rispettare la dignità di ogni persona, attraverso un cammino lento e a tappe, dove tutti noi stiamo lavorando incessantemente.
Per tutto il resto, esiste la mia libertà di vivermi per quello che sono, nel rispetto di me stesso e del prossimo. Una libertà che si nutre di un rapporto autentico con Dio, un Dio non della legge, ma un Signore consapevole della natura della sua creatura, che l’ama incondizionatamente e che mi invita a fare altrettanto.
Non c’è giudizio umano che possa scalfire questa libertà, perché essa è radicata nella mia esperienza vissuta di Dio, non da basi puramente teoriche, le parole ricevute come nel passato hanno fatto male, ma le carezze della Sua Parola e delle persone che mi hanno aiutato sono state come un balsamo che lenisce.
In conclusione, le recenti dichiarazioni del Papa e le successive scuse, magari anche goffe, possono essere però un’occasione preziosa per riflettere e dialogare. La speranza è che la Chiesa possa continuare a crescere e a trasformarsi, accogliendo con amore tutti i suoi figli, senza eccezioni.
E noi, come membri di questa grande famiglia, possiamo contribuire a questo cambiamento con la nostra testimonianza, il nostro coraggio e la nostra fede, uniti dal Suo Spirito che tutto può.
Con le ferite del passato e le gioie del presente, posso testimoniare che veramente tutto concorre al bene per chi ama Dio.