Uganda, omosessualità e diritti umani. Il reato di esistere
Articolo di Manuela Fazia tratto COMBONIfem Magazine, mensile delle missionarie comboniane, del marzo 2013, pp.11-13.
Da qualche anno l’Uganda ha acquisito la fama di Paese “più omofobo al mondo”. La ragione è legata a un disegno di legge, presentato nel 2009 dal parlamentare David Bahati, che propone l’introduzione di misure estreme nei confronti delle persone lgbt (acronimo che indica lesbiche, gay, bisessuali, transessuali) e non solo. Tra le varie disposizioni, la norma precede l’obbligo di denuncia alla polizia da parte di chiunque sia a conoscenza dell’omosessualità di una persona (obbligo che include anche familiari e amici), il divieto di attività che possano in qualunque modo promuovere l’omosessualità, fino ad arrivare alla pena di morte per alcuni casi di omosessualità, come ad esempio quando l’arrestato è considerato recidivo o è sieropositivo.
In Uganda la vita delle persone omosessuali è particolarmente difficile. La legislazione vigente punisce già il reato di omosessualità con la reclusione, inoltre gay e lesbiche devono fare i conti con una fortissima disapprovazione sociale che li spinge, tranne poche eccezioni, a sposarsi e a condurre una doppia vita.
Il dibattito pubblico, nato a seguito della presentazione del Kill gays Bill, ha ulteriormente peggiorato le condizioni di vita degli omosessuali. Campagne mediatiche aggressive hanno amplificato le rigide posizioni di politici e leader religiosi (anglicani, cattolici e musulmani, tutti sostanzialmente favorevoli ai provvedimenti tranne che per la pena di morte), contribuendo a fondere nella popolazione pregiudizi e disinformazione.
In alcuni casi si è assistito a una vera e propria campagna di odio – tra queste, ricordo la pubblicazione sul magazine Rolllling Stones di un articolo dal titolo ‘Impiccateli’, con nomi e foto di 100 gay e lesbiche -, culminata con l’assassinio di David Kato, leader storico del movimento (gay), ucciso a colpi di martello nel gennaio del 2011 mentre si trovava in casa.
II coraggio di Kasha
In Uganda esiste un movimento Igbt piuttosto articolato e organizzato che lavora per combattere la discriminazione e contrastare l’idea, molto diffusa, che l’omosessuaiità sia stata importata dagli occidentali e che siano stati loro a volerla imporre in Africa. Gli attivisti ugandesi nei loro interventi pubblici ricordano gli episodi nella storia del loro Paese che testimoniano l’esistenza dell’omosessualità ben prima che arrivassero gli occidentali, che hanno la responsabilità di aver importato in Uganda l’omofobia. La legge ugandese attualmente in vigore, infatti, fu imposta dagli inglesi durante il loro protettorato.
Tra gli esponenti più attivi del movimento lgbt ugandese c’è Kasha Jacqueline Nabagesera, fondatrice e direttrice della ong Freedom and roam Uganda (Farug). Ho conosciuto Kasha in uno dei miei viaggi in Uganda; era il 2009, poco prima dell’inizio di tutta la vicenda legata al disegno di legge antiomosessualità.
Avevo scoperto l’esistenza di Farug tramite internet e desideravo incontrare quelle donne così coraggiose. Ho quindi conosciuto Kasha e le ragazze della sua associazione in un incontro sorprendente. Mai infatti avrei immaginato l’estesissima rete di relazioni che Farug aveva costruito in anni di lavoro con istituzioni e associazioni di tutto il mondo.
Una rete di vitale importanza che, di li a poco, si è rivelata essere fondamentale nei mobilitare la comunità internazionale per bloccare l’approvazione del famigerato disegno di legge.
In questi anni ho avuto modo di conoscere meglio Kasha e di avvicinarmi alla realtà ugandese. Ho visto da vicino la vita che conduce a Kampala, l’ho invitata a venire in Italia, grazie all’associazione Pianeta Viola di cui faccio parte, per partecipare a diversi incontri. Potrei raccontare tante cose di lei e della sua vita. E’ difficile capire cosa può spingere una ragazza giovane a vivere ringraziando Dio ogni sera per essere arrivata sana e salva al termine della giornata.
Quello che io ho capito è che la determinazione, anzi diciamo pure la cocciutaggine, il coraggio e la lungimiranza sono le sue qualità principali che, insieme a un piccolo gruppo di persone, l’aiutano a portare avanti una battaglia difficilissima.
Un merito che le è stato riconosciuto attraverso l’assegnazione di prestigiosi premi internazionali, tra cui il Martiri Ennals award 2011, considerato il Nobel per i diritti umani, e l’International Nuremberg Human Rights Award 2013.
II ruolo della comunità internazionale
La comunità internazionale, come già detto, è di fondamentale importanza per fermare il disegno di legge la cui approvazione continua a essere tuttora una terribile minaccia per gli amici ugandesi. La diplomazia ha avuto e continua ad avere un ruolo di primo piano, anche se non sempre le posizioni assunte da leader politici occidentali hanno sortito l’effetto desiderato, a volte anzi sono state controproducenti. Mi riferisco in particolare alla minaccia di diversi Paesi di ridurre, in caso di approvazione della legge i fondi destinati all’Uganda.
Una politica che da oltre un anno il movimento lgbt ugandese, e più in generale africano, denuncia come deleteria in quanto, oltre a rafforzare l’idea di un Occidente che vuole imporre l’omosessualità in Africa, alimenta un forte sentimento negativo nella popolazione – bisognosa di scuole, ospedali e anche cibo – nei confronti di gay e lesbiche. Purtroppo, però, la voce del movimento lgbt in certi casi (mi sembra importante sottolinearlo) è stata colpevolmente poco ascoltata.
Anche noi, nel nostro piccolo, possiamo dare un contributo per far accantonare definitivamente il disegno di legge.
Su internet, all’indirizzo www.avaaz.org/en/uganda_stop_gay_death_law, è possibile firmare una petizione che, con oltre un milione di firme raccolte finora, rende evidente quanto gli occhi del mondo siano costantemente puntati su quel Paese. Un aspetto, quello dell’attenzione internazionale, a cui i politici ugandesi sono molto sensibili. e come direbbe Kasha: “a luta continua!”. La lotta continua.
Geografia di un diritto negato
E’ solo dal 1992 che l’Organizzazione mondiale della sanità non considera più l’omosessualità una malattia. A oggi, i Paesi che prevedono la pena di morte per gli omosessuali sono: Nigeria, Mauritania, Somalia, Sudan, Arabia Saudita, Iran, Pakistan e Yemen.
E’ previsto il carcere in cinquantatre Paesi; in ventiquattro Stati la detenzione riguarda solo gli uomini. A oggi, l’omosessualità è 114 Paesi mentre i matrimoni tra omosessuali sono riconosciuti in : Olanda, Belgio, Spagna, Regno Unito, Canada, Sudafrica, Città del Messico, Argentina, Islanda, Portogallo, Svezia, Norvegia, Stati Uniti.