Quando un atleta gay lotta col suo segreto, il suo allenatore può aiutarlo o ucciderlo
Articolo di Scott Gleeson e Erik Brady pubblicato sul sito USA TODAY il 18 agosto 2015, libera traduzione di Silvia Lanzi
Andrew McIntosh, un atleta gay del college USA dove studia, ha pensato così tanto al suicidio da averlo già vissuto un sacco di volte nella sua testa. Mentire gli sembrava più semplice che dire la sua verità. “Ero un vero caos emotivo”, racconta a USA TODAY Sports. “La paura mi diceva che fare coming out fosse peggio che morire”.
Questo succedeva nel 2009, quando McIntosh giocava a lacrosse nell’Oneonta State di New York. Ricorda ancora il giorno in cui aveva sentito un compagno di squadra lanciare degli insulti omofobi – “questo allenamento è così gay!” – che gli sembrava ancor più offensivo per la sua estemporaneità. Improvvisamente l’allenatore, Dan Mahar, li fermò e disse con forza che quel linguaggio era inammissibile. Un semplice gesto che gli ha cambiato la vita e forse gli e l’ha salvata. “Stavo solo facendo il mio lavoro” dice il suo allenatore.
Per Cyd Zeigler, cofondatore di Outsports.com, è un lavoro che molti allenatori non fanno. Egli crede che gli allenatori debbano adoperarsi attivamente per sradicare il linguaggio omofobo dagli spogliatoi e dai campi da gioco – ma troppi lo tollerano finché non scoprono di avere un giocatore omosessuale nella propria squadra.
“Gli allenatori sono i presidenti e gli amministratori delegati di molte squadre del liceo e del college” dice Zeigler. “Danno l’esempio e se non le gestiscono bene, possono emarginare alcuni dei loro atleti. Gli allenatori vivono nella fantasia che si tratti solo di schemi di gioco”.
Uno studio internazionale su omofobia e sport di quest’anno, sottolinea che l’84% dei gay e l’82% delle lesbiche ha sentito insulti omofobi negli spogliatoi. L’autore dello studio, Out in the Fields, che ha intervistato quasi 9.500 persone (uomini e donne) di sei paesi, ha trovato una relazione tra questo tipo di linguaggio e gli atleti e le atlete omosessuali che scelgono di nascondere il proprio orientamento sessuale.
Lo studio dipinge gli sport come anacronisticamente poco accoglienti, in un’epoca in cui gay e lesbiche sono liberi di sposarsi, e suggerisce che trovano più appoggio nei tribunali che in campo.
“Se non dicono nulla o non fermano quel linguaggio, significa che tacitamente lo accettano” dice la cestista Brittney Griner del Phoenix Mercury, parlando degli allenatori che lasciano passare gli insulti.
“Il liguaggio omofobo non ha spazio né nello sport, né nella società” dice Kathy Behrens, vice presidente esecutivo NBA per la responsabilità sociale. “Abbiamo cercato di far capire ai giocatori cosa significhi quel linguaggio”.
Billy Bean, ambasciatore per l’inclusione della Major League Baseball, dice che il modo migliore per sradicarlo è che dai manager agli esecutivi delle squadre, e su fino ai loro proprietari, impongano determinate regole. “L’unico modo di cambiare è dall’alto al basso” dice Bean.
“Bisogna capire cos’è un posto di lavoro. Chiamare un atleta ‘frocio’ mente firma autografi ad un gruppo di ragazzini costituisce un precedente negativo. Si fanno un sacco di errori se non si pensa ad un contesto più ampio”.
Bean è stato il mentore di David Denson, il giocatore della minor league che ha fatto coming out lo scorso fine settimana, diventando così il primo giocatore dichiaratamente gay di una squadra affiliata all’MLB.
Denson, un atleta gay di 20 anni che gioca per il Milwaukee Brewers’ rookie league club di Helena, in Montana, ha raccontato il suo segreto ai compagni di squadra dopo essersi confrontato con uno di loro su un insulto omofobo. Bean ha detto a Denson di prendersi del tempo e di pensare alle conseguenze del suo coming out: “Dopo di che mi ha messo alla prova, ‘Non immaginerai mai cosa ho fatto oggi’. L’aveva detto ai suoi compagni di squadra perché qualcuno aveva fatto un commento. Aveva sfidato il ragazzo. Credevo scherzassero. Ma lui gli fece capire che dovevano fare attenzione a quello che dicevano. Da allora c’è stato un clima di accoglienza”.
Bean, che è uno degli ex-giocatori apertamente gay dell’MLB, dice che cambiare la cultura delle varie squadre non sarà semplice. “Bisogna che i vertici di ogni organizzazione si sforzino in modo continuativo” dice. “La difficoltà è che ci sono 30 club, e, almeno per adesso, una sola persona come me”.
Se, come suggeriscono gli studi, lo sport è di gran lunga l’ambiente dove si sviluppano questi insulti, l’allenatrice Jill Ellis dell’U.S. National Women’s Soccer Team pensa che si possano trovare delle soluzioni proprio nelle dinamiche dello sport stesso. “Lo sport fa incontrare un sacco si persone diverse tra loro, che hanno un obiettivo comune” dice “ed è necessario che questo sia ben chiaro, altrimenti si fallisce. Proprio perché gli spogliatoi sono stati un bastione per un certo linguaggio, penso che sia anche un luogo dove si possono far cadere barriere, creare uguaglianza e ambienti positivi”.
Ellis è l’allenatrice apertamente lesbica di una squadra diventata largamente popolare dopo aver vinto, il mese scorso, la coppa del mondo, con atlete parimente lesbiche dichiarate come Abby Wambach e Megan Rapinoe. “Sono consapevole che ci sono un po’ dappertutto molte squadre che non sono l’ambiente ideale per atleti/e omosessuali”. “Come allenatrice, non dovrebbero esserci pregiudizi di nessun tipo nell’ambiente. Ognuno dovrebbe sentirsi rispettato e al sicuro – ed è assoluta responsabilità dell’allenatore farlo”.
Anthony Nicodemo è una rarità nel campo degli sport liceali, essendo il primo allenatore di basket apertamente gay: capisce quanto il mondo dello sport sia profondamente impregnato di linguaggio omofobo. Anche lui diceva le stesse cose. “Io stesso, per molto tempo, sono stato disgustato dalla mia sessualità” dice Nicodemo, allenatore dei Saunders Trades and Technical in Yonkers di New York.
“Ci andavo giù pesante con un certo tipo di linguaggio. Dicevo, ‘Smettila di fare la fata’ o ‘Non essere una mammoletta’. Quale modo migliore di nascondersi che usare il loro stesso linguaggio?”. Adesso cerca di fare in modo che i suoi giocatori non si esprimano più così. Ma non sempre ha successo.
“‘È gay’ , “è omosessuale” sono espressioni che i liceali usano di frequente, ricorda Nicodemo. “Anche adesso che sono gay dichiarato, i miei ragazzi le usano. È parte del loro linguaggio naturale. Li guardo solo severamente. La mia squadra fa molta più attenzione, ma tutte le volte le sento in classe. Fa parte della loro cultura. Cerco sempre di spiegare ai miei ragazzi che dire ‘frocio’ è lo stesso che dire ‘negro'”.
Nicodemo conosce degli allenatori che non hanno ancora fatto coming out e dice che farlo è difficile quando si pensa di perdere il proprio lavoro. “Due mesi prima del mio coming out, avevo chiesto ai miei giocatori come si sarebbero sentiti se qualcuno nella squadra fosse stato gay dichiarato” dice Nicodemo. “Due ragazzi dissero non potremmo più giocare con lui”. Uno dei due adesso indossa una maglietta del Pride per sostenermi. Non aveva mai avuto a che fare con qualcuno (apertamente) gay. Una volta capito che non c’erano differenze, si è tranquillizzato”.
Nicodemo crede di conoscere la formula che, col tempo, sradicherà i commenti omofobi. Inizia con l’educare i liceali di oggi che saranno gli insegnanti di domani. “Alla fine della giornata, c’è una sorta di ‘effetto goccia”. “Bisogna iniziare con gli educatori quando sono ancora piccoli – farli smettere in settima o ottava così, quando arriverà il momento, le offese omofobe non diventeranno parte del loro vocabolario. Se si possono cambiare gli atleti, si può cambiare un’intera cultura”.
Steve Fisher, allenatore della squadra maschile di basket alla San Diego State, non permette ai suoi di bestemmiare. (È l’unico che può e quando lo fa mette un penny in un apposito secchio). Non permette insulti di nessun genere, incluso un linguaggio irriguardoso verso i gay.
“Parliamo regolarmente” dice Fisher “di quello che vuol dire essere un buon compagno di squadra ed una brava persona. Una persona capace di capire. Qualcuno che accetta gli altri… Diciamo ai ragazzi di avere rispetto. Primo, per se stessi, e poi per tutti gli altri intorno a loro. Non siamo tutti uguali”.
Fisher, ha 70 anni, dice di averne parlato nel suo spogliatoio quando Jason Collins e Michael Sam hanno fatto coming out. Dice di averlo fatto per preparare il terreno per il giorno in cui uno dei suoi giocatori si sentirà pronto di fare lo stesso. “Mettiamo in chiaro che va bene e li accetteremo”. ” Diciamo ai nostri ragazzi di essere aperti, comunicativi e cordiali. Si chiama ‘permettere alle persone di avere diritti e di non essere discriminate'”.
Fisher l’ha finita con il vecchio approccio militare del “don’t ask, don’t tell’” (non sapere, non dire) e dice che è suo compito di leader promuovere un’atmosfera positiva. “Come allenatori, abbiamo un grande impatto sulla gente con cui lavoriamo”, “Abbiamo l’obbligo di fare di più che impostare la strategia vincente. I nostri giocatori sanno che possono essere se stessi?… Avere qualcuno che è se stesso ci aiuta con il basket. Ma spiana il campo della comprensione anche nella vita”.
Amy Wilson, direttrice per l’inclusione di genere nell’NCAA, dice che l’NCAA tiene una riunione ogni aprile che si occupa di cinque aree di inclusione, compresa quella LGBT, e che il loro manuale richiama gli allenatori e i direttori atletici a sviluppare ambienti rispettosi. “Significa ascoltare e cercare di dare il proprio contributo. Su questo argomento, cerchiamo di alimentare il dialogo”.
Tom Izzo, allenatore della squadra maschile di basket della Michigan State, pensa che molti suoi colleghi riuscirebbero ad occuparsene bene se avessero giocatori apertamente gay. “Non è compito mio giudicare gli atleti. Ognuno è diverso. Alcuni sono tipi festaioli, altri studiano molto, altri ancora sono ultra-religiosi, altri potrebbero essere gay: mettiamola così: se giochi, è solo quello che conta” .
Quando Sean Conroy, un atleta gay della squadra non affiliata dei Sonoma (Calif.) Stompers, quando fece coming out e divenne il primo giocatore di baseball gay vide che gli insulti omofobi, che così spesso sentiva negli spogliatoi, velocemente iniziarono a scomparire. “La gente ci pensa due volte quando sa che nella squadra c’è un giocatore gay. Si scusano o dicono: ‘Non l’intendevo in quel modo”.
La Griner dice che negli spogliatoi delle sue Mercury “e in nessuna parte della nostra organizzazione” ci sono nomignoli omofobi. Aggiungendo che “Non posso parlare per gli altri. So che è tipico degli ambienti maschili. Lo so che succede anche in quelli femminili… ma se ci mettiamo insieme tutti, possiamo cambiare…”.
L’allenatore della squadra maschile di basket della University of Massachusetts Derek Kellogg ha allenato Derrick Gordon, il primo giocatore gay della Prima Divisione. “Non penso che prima del coming out di Derrick ci fosse la cultura di massa del linguaggio inappropriato, ma erano comunque battute da spogliatoio” afferma Kellogg “Dopo il suo coming out, ognuno cercava di non fare uscire nulla di sgradevole dalla sua bocca”.
Gordon poi si è trasferito alla Seton Hall per ragioni sportive ma l’allenatore Kevin Willard aggiunge che l’unico criterio da considerare era la possibilità che Gordon potesse aiutare la squadra ad essere competitiva. “Per noi il fatto che sia gay è una storia vecchia” dice Willard.
“I ragazzi sanno di Derrick, usano i social e sono molto informati. Questa generazione di atleti è molto più informata sugli atleti gay”. “Penso che tutta questa attenzione sia provocata dagli adulti. Ne facciamo qualcosa di più grande di quello che è in realtà. Alcuni di questi ragazzi possono insegnarci come affrontare faccende di questo tipo”.
Mahar sta ancora insegnando lacrosse all’Oneonta State, ed in questo periodo, McIntosh è uno dei suoi assistenti. Questa storia illustra con potenza come un allenatore può cambiare il mondo. “Quando l’allenatore Mahar smise di usarlo e disse esplicitamente a tutta la squadra che un tale linguaggio non sarebbe più stato tollerato, non ero ancora un gay dichiarato” dice McIntosh. “Questo mi diede una possibilità. Ho pensato: Forse posso farlo”.
Per McIntosh si è trattato di un momento chiave – lasciarsi alle spalle il fardello insopportabile della sua doppia vita. “Ci sono molti pezzi nel puzzle,” è sempre McIntosh a parlare “L’appoggio dei tuoi pari è senza dubbio importante. Ma c’è una persona che fa funzionare le cose, che ti aiuta ad accettare di più la tua identità. È davvero difficile accettarti senza che lo facciano gli altri. L’accettazione non puoi costruirtela. E, nell’atletica, si ha una specie di ‘visione-tunnel’. Quello che la tua squadra pensa di te è più importante più di ogni altra cosa”. Bean crede che un ambiente migliore in squadra e negli spogliatoi porterà ad una maggiore accettazione – e farà sì che più atleti si sentano liberi di fare coming out.
In quasi 150 anni di baseball big-league ci sono solo due ex-giocatori che hanno fatto coming out, incluso lui stesso, ma pensa che ogni giorno ci potrebbe essere il primo giocatore a fare coming out. “Potrebbe succedere domani” è la convinzione di Bean. La chiave è l’ambiente – club e spogliatoi dove il linguaggio omofobo è scoraggiato.
“Ci dovrebbe essere un movimento che permei tutto quanto l’ambiente degli spogliatoi” dice “Allora, improvvisamente, chi non è ancora dichiarato potrebbe iniziare a fare coming out. La ragione principale per cui hanno scelto di non condividere il proprio orientamento sessuale è l’ambiente. Ma credo che la musica cambierà presto”.
Testo originale: Coaches and coming out. When a gay athlete is struggling with a secret, the coach can be a savior or shirker