La vita è divenire. Sesso, genere e identità
Articolo di Alice Gombault tratto dal sito dei Réseaux du Parvis (Francia), del maggio 2013, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Tutti, anche chi più si oppone alle analisi di genere, è d’accordo nel riconoscere all’approccio costruttivista una certa pertinenza quando si prendono in considerazione le ingiustizie e le discriminazioni tra uomini e donne.
Tony Anatrella ha dichiarato che l’affermazione dell’uguaglianza tra uomini e donne rappresenta un notevole progresso a livello mondiale, in modo particolare in quelle culture in cui le donne, soprattutto le più giovani, sono considerate inferiori e disprezzate.
Ma il sospetto appare molto presto: “Se gli studi del “gender” hanno avuto il merito di mettere in luce le disuguaglianze e le ingiustizie sociali che colpiscono le donne, tali studi sociologici si sono trasformati molto velocemente in un movimento ideologico e di lotta tra uomini e donne”.
Le analisi di genere (gender studies) sono accusate di inasprirsi in una “teoria di genere” che predica il libero accesso a una identità costruita e rigetta ogni dato di ordine biologico, definito naturale. In questo modo si potrebbe scegliere il proprio sesso! Questa eventuale fluidità del sesso getta nel panico la gerarchia cattolica e gli ambienti conservatori. Esiste un certo disagio nei confronti di una sedicente teoria del genere sospettata di sopprimere la differenza sessuale.
Noi facciamo l’ipotesi che, composta di uomini maschili, sia la mascolinità che si sente minacciata. L’obbligo del celibato, che costringe a difendersi dalle donne, e una determinata morale sessuale che ha a lungo assimilato il piacere al peccato, non favoriscono la costruzione di una identità sessuale serena.
Il concetto di genere ha il vantaggio di rendere visibili gli uomini come individui sessuati, il che ha permesso l’emergere di una storia degli uomini, dello studio della costruzione della virilità, delle sofferenze degli uomini. Genere e costruttivismo appaiono uniti nel timore e nel rifiuto che provocano. Ma cos’è il costruttivismo?
Cos’è il costruttivismo?
Questa filosofia, che ha già una lunga storia alle spalle, non nega la realtà (all’occorrenza, i dati che si definiscono naturali) ma afferma che noi non la conosciamo che attraverso l’esperienza che ne facciamo e che è sempre relativa alla nostra cultura, alla nostra situazione in un mondo ben preciso, al nostro ambiente, dipendente dal modo in cui guardiamo, dalle nostre esperienze passate… Non si può quindi mai contare su una realtà totalmente oggettiva.
La realtà non è nemmeno totalmente soggettiva, perché facciamo tutti la stessa esperienza e incontriamo la stessa realtà; ma non possiamo dimostrare l’oggettività delle nostre percezioni.
Esiste certamente un reale che resiste, al quale però non abbiamo accesso che attraverso la percezione e l’organizzazione che ne compiamo. Einstein ha detto che è la teoria che determina ciò che può essere osservato. Senza teoria, senza ipotesi, noi non vediamo nulla. Di più: quando osserviamo la realtà, la modifichiamo. È il capovolgimento del modo abituale di pensare, secondo il quale la realtà esiste indipendentemente da noi.
Così spesso si concepisce la creazione dell’universo da parte di Dio: una realtà data, di cui l’uomo scopre le leggi naturali, mentre in realtà potremmo parlare di co-creazione. Aggiungiamo che i nostri sforzi di conoscenza creano una realtà che possiamo essere tentati di considerare come unica e definitiva, naturale, potremmo dire. Il costruttivismo mette in guardia contro l’assolutizzazione della nostra verità.
Noi costruiamo un’immagine della realtà, una visione del mondo; si tratta di una immagine globale, integrata in un insieme, che possiede una sua coerenza. Una tale costruzione è anche una costruzione di senso. L’essere umano non può vivere nel non senso e nell’assurdità senza cadere nella follia. Di qui l’importanza di passare dal caos al cosmos (Piaget).
Questa immagine del mondo non è il mondo, ma non abbiamo alcun mezzo di conoscere il mondo che attraverso le immagini che ce ne facciamo e che sottoponiamo a un processo di verifica confrontandole con le immagini degli altri, con i fatti e gli avvenimenti. Questo processo può confermarle perché si rivelano pertinenti o rigettarle come inadeguate, o ancora lasciarci nell’indecisione. In logica si tratta del vero, del falso e dell’indecidibile.
Allora, la persona umana è un essere unicamente costruito culturalmente, in particolare in ciò che riguarda il corpo sessuato, l’identità sessuale e le relazioni sociali? Lo stesso processo precedentemente descritto è all’opera nella definizione di noi stessi e degli altri. Anche in questo caso, noi non abbiamo accesso al nostro io, alla nostra identità che attraverso un processo di comunicazione con gli altri.
Talvolta ci si è chiesti perché passiamo tanto tempo in conversazioni e scambi dal contenuto informativo praticamente nullo, come le conversazioni sulla pioggia e il bel tempo. Noi abbiamo bisogno di sapere chi siamo a passiamo dunque il nostro tempo a proporre a chi ci circonda un’immagine di noi stessi e ci aspettiamo che venga confermata. In molti casi, poco importa il contenuto degli scambi, è la relazione che si instaura tra gli interlocutori che conta.
Tuttavia, quando lo scambio viene condotto su argomenti forti che ci stanno a cuore, la nostra immagine può riceverne una conferma che ci valorizza o uno sferzante rifiuto. In quest’ultimo caso bisogna allora proporne una variante. Accade anche che il nostro discorso non venga percepito, come se non esistessimo. Se questa situazione è abituale, soprattutto in un essere in formazione, sfocia in gravi disturbi della personalità.
Più spesso, fortunatamente, ci costruiamo grazie alla conferma o al rifiuto della nostra immagine. Agiamo per gli altri: non soltanto ogni parola pronunciata, ma ogni atteggiamento, ogni comportamento acquista un significato di conferma, di rifiuto o di negazione. È grazie a questo incessante processo di comunicazione che noi siamo quel che siamo. Privato di scambi, privato di ambiente umano, un essere non può costruirsi e divenire veramente umano. Non esistiamo da soli, non abbiamo una realtà al di fuori dello sguardo dell’altro, senza il suo riconoscimento.
Ecco allora che Simone de Beauvoir aveva ragione: “Non si nasce donna, lo si diventa”; e aggiungeva: “sotto lo sguardo di un uomo”. Il suo ragionamento ometteva la proposizione reciproca: “Non si diventa uomo che sotto lo sguardo di una donna”. Ci si identifica solo nel gioco sottile tra il Sé e l’Altro, al tempo stesso simili e diversi. Non prendiamo coscienza del nostro sesso che di fronte al sesso dell’altro.
Le identità si elaborano all’interno di sistemi relazionali i cui elementi sono interdipendenti, come possono essere il mascolino e il femminino. Se, effettivamente, l’identità è costruita, tuttavia non è creata ex nihilo.
Il sesso, come il genere, l’orientamento sessuale e molte altre cose ancora che costituiscono l’essere umano, sono materiali di base della nostra identità. Non scegliamo tutto. Classifichiamo, organizziamo, diamo senso.
Non è una libertà priva di pastoie: ciascuno e ciascuna ha le sue costrizioni. Lui, lei non ha scelto né il suo sesso, né il suo orientamento sessuale, nemmeno i genitori, l’ambiente, l’ambiente sociale, la cultura o la razza. Ed è con tutto questo che bisogna fare i conti. La persona umana è più del suo sesso.
Bisogna “fare attenzione a non assimilare l’individuo al suo sesso biologico” (Sylviane Agacinski). Inoltre, l’ambiente cambia costantemente con l’età e le circostanze di vita, costringendo a indossare delle nuove identità.
Questo processo di costruzione dura tutta la vita. Di solito pensiamo che è nell’infanzia e nell’adolescenza che questo processo è particolarmente attivo e che in età adulta si arresti. Adolescente è un participio presente che designa qualche cosa che si sta facendo, mentre adulto è un participio passato, è fatto, è terminato. Non è affatto così. Se è vero che questo processo è al suo apogeo negli anni giovanili, il suo arresto significa la morte.
L’essere umano non smette di divenire umano, è l‘antropolescenza, autentica natura dell’umanità. Da una parte abbiamo dei materiali che contribuiscono a costituirci, ma dall’altra, a partire da tali dati bruti, vi è la costruzione personale di cui siamo responsabili.
L’immagine di Dio
Il primo comandamento (Esodo 20:1-5; Deuteronomio 5:6-8) proibisce le immagini di Dio: “Non farti scultura, né immagine alcuna… Non ti prostrare davanti a loro e non li servire”. Ma come accedere a Dio senza l’intermediazione delle immagini? Come l’uomo costruisce se stesso e il suo mondo, così costruisce il suo Dio. La storia di Dio riflette la storia dell’uomo.
Jean Onimus ci mostra come, seguendo la sua evoluzione, l’umanità è passata dal dio della tribù agli dèi cosmici, poi al dio assoluto, astratto, evanescente, alienante, liberatore, da quello dei mistici a quello del male passando per il dio orologiaio e il Dio del bene.
Questa costruzione, di immagine in immagine, non è terminata. Di quale Dio abbiamo bisogno oggi? Quale sarà il Dio di domani? In che modo questa successione di avatar divini è conciliabile con la proibizione di farsi immagini di Dio? Anche qui interviene il costruttivismo. Infatti, c’è un aggettivo che attira l’attenzione in questo primo comandamento, ed è la parola scultura.
Quando è scolpita, l’immagine si trova a un livello di fissità e di rigidità. L’immagine è divenuta più reale del reale; è divenuta un idolo. L’idolo non è solamente la scultura di legno o di metallo (il Vitello d’oro) ma è la nostra idea di Dio, assolutizzata al punto di scambiarla per Dio stesso e di prosternarci di fronte ad essa. Ma la nostra realtà, quella dell’altro e quella del mondo sfuggono alle immagini nelle quali vorremmo rinchiuderle e delinearle. Il reale è sempre altro da ciò che di esso afferro. A fortiori Dio è il totalmente altro sul quale non posso mettere la mano.
Il Vitello d’oro ci fa sorridere nella sua inadeguatezza a rappresentare Yahwé e tuttavia anche le nostre immagini di Dio non sono altro che misere rappresentazioni, che possono diventare dei sentieri che portano a Dio solo nella misura in cui accettano di essere tinte di indecidibilità. Più ci sforziamo di farci un’immagine di Dio coerente e ricca di senso per la nostra esistenza, più è difficile abbandonarla. Quando le circostanze o nuove conoscenze teologiche o scientifiche vengono a rimettere in discussione la nostra immagine di Dio ci sentiamo invasi dal dubbio, dall’assurdità dell’esistenza, scossi nelle nostre convinzioni più profonde.
È comprensibile allora che ci aggrappiamo alle nostre immagini obsolete che emanano sicurezza e che le legittimiamo attraverso la fedeltà o l’obbedienza; siamo entrati però in un atteggiamento idolatrico. La verità, compresa quella di Dio, non si deve trovare perché esiste da qualche parte, è da farsi nel corso di un processo mai terminato.
È forse nel pieno della prova, quando siamo abbandonati da Dio (dalla nostra immagine di Dio?), quando molliamo la presa, travolti dall’indecidibile, che il Dio vivente e inafferrabile è più vicino a noi.
Impariamo a surfare
In ogni epoca cerchiamo di confortare la nostra identità: guardiamo per esempio i costumi regionali, gli abiti femminili e maschili molto differenziati, i segni distintivi che marcano la classe sociale o l’appartenenza, gli emblemi, le insegne etc. L’evoluzione del mondo ha scosso le nostre identità di razza, di ambiente sociale, di genere, di sesso.
C’è un mescolamento nuovo di popolazioni, di religioni, di classi sociali e di sessi, una nuova ripartizione di compiti e di ruoli. Gli antichi punti di riferimento non valgono più. Dobbiamo allora rafforzare le nostre identità minacciate o entrare coraggiosamente in un processo di costruzione e ricostruzione dell’immagine di sé? Le identità così elaborate sono più ricche e flessibili.
Non siamo più chiusi in una identità univoca. Al posto della logica esclusiva dell’aut-aut, che rende impossibili le appartenenze plurime, non dovremmo introdurre la logica dell’et-et nella quale rimangono in tensione ruoli e valori diversi quando non divergenti? Passando da una logica all’altra raggiungiamo la logica multidimensionale e complessa che si enuncia così: o questo, o quello, o tutti e due. Non siamo forse chiamati a un tale cambiamento logico?
Dobbiamo utilizzare le nostre diverse appartenenze, mantenendo in tensione il femminino nel mascolino e il mascolino nel femminino, capaci di assolvere a vari ruoli e a cambiarli secondo le circostanze, aperti a valori nuovi. Questo movimento perpetuo, questa fluidità, questa inconsistenza, questa assenza di punti fissi possono dare il capogiro e invitare a ripiegarsi su una proposta identitaria che ha il merito di essere antica.
Una volta stabilita e considerata soddisfacente una rappresentazione globale, possiamo avere la tendenza di renderla intoccabile; alla fine abbiamo stabilito il vero e, così facendo, prendiamo la rappresentazione per la realtà. Se degli elementi arrivano a contraddire tale verità, possiamo preferire non vederli o deformarli per farli quadrare con la nostra visione del mondo.
Le contraddizioni tra la realtà così com’è e come dovrebbe essere in funzione delle nostre premesse vengono allora utilizzate per rafforzare la nostra rappresentazione. L’opinione si irrigidisce e si trasforma in dogma: doxa diviene dogma. Ci si accanisce tanto più a difendere la propria immagine quanto quest’ultima corrisponde alla realtà comunemente ammessa nel proprio gruppo di riferimento.
Trovarsi in armonia con il proprio gruppo o la propria cultura è anche più importante della testimonianza dei propri sensi. Facciamo allora orecchie da mercante, ci copriamo gli occhi, facciamo la politica dello struzzo.
Condannati a non poter fare a meno di immagini per apprendere la realtà, dobbiamo anche però conservare l’immagine, il suo status di immagine, vale a dire di rappresentazione significante ma che non reca in sé tutta la significazione, immagine pertinente per l’oggi, per la tale persona, per la tale cultura scientifica o altro ancora, ma priva di pertinenza per il domani o per altre culture.
Dobbiamo allora cambiare le nostre premesse. È qui che bisogna ridare all’indecidibile la propria funzione. In effetti non è confortevole vivere nell’indecidibilità, oscillare tra il vero e il falso lasciando in sospeso ogni azione. Chi sono io? Cosa devo fare? Ma questa è anche l’apertura della ricerca, la sorgente della creatività e di una possibile libertà.
L’accesso alla libertà apre la porta di una enorme responsabilità di fronte a noi stessi e agli altri. La costruzione di sé è permessa dallo sguardo degli altri e quella degli altri dipende dal nostro sguardo.
Non siamo lontani dalla regola d’oro: Agisci verso gli altri come vorresti che essi agissero nei tuoi confronti. Mentre il costruttivismo è accusato di sopprimere i punti di riferimento, in realtà non ne è sprovvisto: “La tolleranza, il pluralismo, la distanza che dobbiamo mantenere verso le nostre percezioni e i nostri valori per prendere in considerazione quelli degli altri”; la responsabilità, perché noi siamo in gran parte responsabili della nostra immagine e di quella degli altri; se la nostra costruzione non è pertinente, possiamo prendercela solo con noi stessi.
Un altro punto di riferimento consiste nell’agire sempre in maniera di aumentare il numero di scelte. Tutto ciò che rinchiude dentro un ruolo, un genere, un sesso, una identità è contrario al pieno sviluppo delle potenzialità della persona.
Aprire il ventaglio del possibile, rendersi in grado di modificare significazioni che non hanno più pertinenza per l’oggi. Certamente la conseguenza è l’instabilità, la precarietà, la messa in discussione permanente che fanno parte del nostro complesso mondo postmoderno. Si tratta di restare in equilibrio su questo oceano che si muove sviluppando la nostra rete di interazioni, il nostro potenziale relazionale, la nostra capacità di riflessione.
Prendiamo l’immagine del surfista. Invece di seguire un percorso chiaramente delimitato, il surfista si lascia portare dall’onda. Sotto l’apparente disinvoltura del gesto si nasconde una grandissima forza interiore che non è intimorita o destabilizzata da ciò che accade, ma che al contrario utilizza ciò che si presenta per andare più veloce e trarne un maggior piacere.
Se, per combinazione, il surfista perde l’equilibrio, egli mostra allora tutta la sua capacità a incassare senza essere demolito. Utilizzando ancora una volta gli elementi, ritorna in superficie e ricomincia per fare una scivolata ancora più bella.
Per i cristiani, questo atteggiamento non può non ricordare quello della fede. La fede non comincia forse quando non c’è più un cammino? La fede richiede di avanzare ancora, di saltare chiudendo gli occhi senza sapere se avremo il terreno sotto i piedi, e senza dubbio non ne avremo.
Talvolta, di sfuggita, abbiamo sperimentato che, anche senza terra sotto i piedi, non cadiamo. Come Pietro che cammina sulle acque: è proprio la fede che lo fa camminare, una volta che ritorna alla realtà ragionevole, Pietro affonda.
Testo originale: Vivre c’est devenir. Sexe, genre et identité. Approche constructiviste