Un Dio che risponde. Il silenzio di Dio e il senso della vita
Riflessioni sull’Ebraico e il pensiero biblico di Giuseppe Messina*, quinta parte
Seconda Parola: “Non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro…” (Es 20, 3-5)
Sorge immediatamente un problema: nella nostra comune esperienza, Dio non risponde mai del tutto. Si può anche affermare che il Suo silenzio è fin troppo eloquente di fronte alla violenza della storia umana. Tenuto conto dei suoi sviluppi recenti, questo silenzio appare incomprensibile, scandaloso a più di un credente. Cosa rispondere a tutto ciò? A prima vista, dobbiamo ammettere che, rispetto a questo silenzio, non abbiamo alcuna risposta esplicita e chiara. La Storia sembra smentire l’idea che Dio risponda alle grida degli uomini annientati dalla violenza. La tradizione ebraica, forse, è quella che più di tutte ha riflettuto da millenni su tale interrogativo e, in particolare, si è confrontata in maniera drammatica, nel XX secolo, con il tema del silenzio di Dio: perché Dio non parla o sembra non parlarci?
Un midrash del Cantico di Mosè (Esodo 15,11) dove nell’originale ebraico si legge: Mi khamokha ba-elim?, Chi è come te fra gli dei? Questo versetto (lo ricorda André Neher nel suo libro “L’esilio della parola, che ha quale sottotitolo “Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz”) può essere chiamato il versetto biblico della presenza, ma nell’interpretazione midrashica è completamente capovolto, per diventare il versetto dell’assenza. Diventa il versetto dell’uomo ritto davanti al silenzio opprimente di Dio. Quindi, al posto di “Mi khamokha ba- elim ?” si legge: “Mi khamokha ba- illemim?” , Chi è come te fra i muti? Tuttavia, questa constatazione ci obbliga a ritornare al nostro modo di concepire Dio. Cosa significa: “Dio risponde?” Certo non possiamo ritenere che per “rispondere” Dio intervenga come un Deus ex machina nella storia degli uomini. In tal modo ricadremmo nell’idolatria. Allora come risponde Dio?
Questa, forse, è la vera domanda. Qualcuno potrebbe rispondere semplicemente: Dio non risponde perché non esiste e l’esistenza umana è inintelligibile quanto vacua e semplicemente non ha un senso. Ma se l’esistenza umana fosse realmente inintelligibile, sarebbe impossibile pronunciare un giudizio morale su di essa, come per esempio il giudizio che sia priva di significato. Equivarrebbe a liquidare come privo di senso un termine da una lingua straniera solo perché non possiamo tradurlo. Se il problema del senso della vita non consiste nel provare a dare senso a un non senso, nemmeno però è come chiedersi “Qual è il significato di Night in italiano? Non è come se stessimo cercando l’equivalente di un termine da un sistema all’altro, come facciamo quando cerchiamo una traduzione.
Nel romanzo fantascientifico “Guida galattica per autostoppisti” è celebre il brano in cui Douglas Adams parla di un computer chiamato Pensiero Profondo, al quale si domanda di trovare una risposta definitiva al problema dell’universo. Per fare ciò il computer impiega sette milioni e mezzo di anni, e alla fine se ne esce con la risposta: 42. A quel punto si è dovuto costruire un altro computer, più grande, per ritrovare la domanda. La cosa divertente del 42 di Pensiero Profondo non è solo il suo anticlimax, ma anche l’assurdità di supporre che 42 possa valere come risposta; sarebbe un po’ come immaginare che “Due pacchetti di patatine fritte e uova in camicia” possa valere come risposta alla domanda “Quand’è che il sole se ne andrà?” Insomma, in questo caso abbiamo a che fare con ciò che i filosofi chiamano errore categoriale, come chiedere quante emozioni occorrano per fermare un’automobile, che è uno dei motivi che rende divertente la cosa. Un’altra ragione della sua comicità sta nel fatto che stiamo attribuendo una soluzione precisa a una domanda a cui molte persone hanno desiderato avere una risposta: tuttavia è una soluzione che non ci serve assolutamente a nulla.
Il fatto è che 42 non è compatibile con nulla. Non è una risposta per cui possiamo trovare un uso. Sembra una precisa, autorevole soluzione al problema, ma in realtà è come se si dicesse “Fagioli”. Un altro aspetto comico della risposta è che essa affronta la domanda “Qual è il senso della vita?” come se fosse lo stesso genere di domanda di “Qual è il significato di notte?” Così come esiste una relazione di equivalenza tra l’inglese night e l’italiano notte, allo stesso modo la fantasia comica di Adams suggerisce che la vita può essere tradotta in un altro sistema significante (questa volta numerico invece che verbale), dal quale, come risultato, si estrapoli un numero che costituisce il significato del senso della vita. Oppure è un po’ come se la vita fosse una sorta di enigma, indovinello, un crittogramma che può essere decifrato come una definizione in un cruciverba per giungere a questa arguta risposta. Nascosta dietro questa storiella vi è l’idea che la vita sia un problema, nel senso di un problema di matematica, risolvibile come si risolvono i problemi di questa natura. A generare questo effetto comico convergono due diverse accezioni del termine “problema”: un cruciverba o un indovinello matematico e un fenomeno problematico come quello dell’esistenza umana.
È come se la vita potesse essere decodificata in un’illuminante esaltazione che facesse balenare nella nostra coscienza un’unica importante parola per il tempo di un incantevole istante. Nella frase “il senso della vita” il termine “senso” può avere l’accezione che ha nella categoria “che cosa vuol significare”? Forse no, se ci atteniamo rigorosamente alla filosofia, ma se crediamo in Dio la vita umana è sua espressione, è segno o discorso attraverso cui tenta di comunicarci qualcosa di significativo. Il filosofo Berkeley riteneva che il senso della vita si riferisce a un atto di senso (meaning), qualsivoglia sia la significanza (significance) che Dio o lo Zeitgeist intenda trasmettere attraverso di essa. E se uno non credesse in nessuna di queste maestose Entità? Se così fosse, ciò vorrebbe dire che la vita deve essere senza significato?
Non necessariamente. I marxisti, per esempio, solitamente atei, ma credono che la vita umana, o ciò che preferiscono chiamare storia, abbia un significato nel senso che rivela un modello di significato. Essi, ma non sono i soli, vedono la vita umana come la formazione di un modello significante, sebbene non un modello al cui interno si insinui Dio. È vero che oggigiorno queste grande narrazioni (marxismo o liberalismo) sono fuori moda; ma in ogni caso ci mostrano come sia possibile credere che la vita abbia pienezza di significato senza affermare che tale significato le sia stato attribuito da un Soggetto intenzionale. Ma una cosa è certa se non ci fossero modelli significativi nella vita umana, o se nessuno fosse in grado di comprenderli, interi ambiti delle scienze umane come la sociologia o l’antropologia finirebbero per arenarsi. Oppure ad esempio un demografo potrebbe dire che la distribuzione della popolazione in una data regione “ha senso”, quand’anche nessuno degli abitanti della zona fosse effettivamente consapevole di questo modello. Ma potremmo pensare che il cosmo non sia stato concepito scientemente? Forse sì, ma le sue leggi fondamentali rivelano una bellezza, una simmetria e un’economia in grado di commuovere gli scienziati e di smentire l’insensatezza.
Ma non dobbiamo nemmeno avere l’ansia nevrotica, tipica del fondamentalismo religioso, che senza un Significato dei significati non vi sarebbe significato alcuno. Si tratta semplicemente dell’altra faccia del nichilismo. Sottesa a questo assunto vi è una concezione della vita simile a un castello di carte: basta toglierne una alla base e viene giù tutta la fragile struttura. Coloro che vedono le cose da questa esclusiva prospettiva sono semplicemente vittime di una metafora. Non a caso moltissimi credenti respingono questa concezione della vita. Nessun credente sensibile e intelligente può immaginare che un non credente sia destinato a precipitare nella totale assurdità. Né sono tenuti a credere che poiché vi è Dio, il senso della vita diventa finalmente chiaro e intellegibile.
Al contrario, vi sono credenti, diremmo quelli adulti, che pensano che la presenza di Dio renda il mondo più misteriosamente imperscrutabile, e non meno. Se Dio ha uno scopo, tale scopo è assolutamente impenetrabile. In questo senso, Dio non rappresenta la risposta al problema. La Sua Presenza tende a intorbidire le cose piuttosto che renderle autoevidenti. Infine, mi viene in mente quello che si racconta della poetessa statunitense Gertrude Stein, la quale, sul capezzale, aveva insistentemente domandato “Qual è la risposta?” per poi alla fine, in un gemito, chiedere “Ma la domanda qual è?” Rispondere con una domanda con una domanda mentre si è sospesi sull’orlo del “precipizio” sembra un’icastica immagine adeguata alla fragile condizione dell’uomo contemporaneo.
* Giuseppe Messina è docente ordinario di filosofia e storia presso il Liceo Scientifico N. Copernico di Bologna e dal 12 marzo 2010 è presidente-fondatore dell’Associazione Amicizia Ebraico Cristiana (AEC) di Bologna, già membro dell’AEC della Romagna. Scrive articoli sul Bollettino dell’AEC di Firenze. Dal 2006 studia Ebraico biblico presso la Fraternità Charles de Foucauld di Ravenna con la maestra Maria Angela Baroncelli Molducci. Ha insegnato Ebraico biblico e Pensiero ebraico presso il Collegio San Luigi dei Padri Barnabiti di Bologna e presso il Centro Poggeschi dei Padri Gesuiti di Bologna.