Un Dio che risponde. Interpretare con gli altri
Riflessioni sull’Ebraico e il pensiero biblico di Giuseppe Messina*, seconda parte
Seconda Parola: “Non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro…” (Es 20, 3-5)
Comprendere un testo non mette in rilievo solo le mie qualità personali o le mie particolari capacità interpretative. Si cadrebbe immediatamente in una nuova idolatria, quella dell’io. La Torah è stata scritta per essere tramandata, affinché il maschile biblico si fecondasse con e nel femminile del commento, per annullare non solo il testo, ma l’io e offrirla agli altri, ai figli, ai discepoli, agli amici, a tutti coloro che accettano di vivere una nuova esperienza. Ciò che colpisce immediatamente il lettore del Talmud e del Midrash è l’importanza del dialogo nella messa all’opera del pensiero. Sono rari gli argomenti senza controversie.
Se un maestro propone un’interpretazione, accade, sovente, che sia contraddetto, e fatto vacillare se non addirittura destabilizzare dal suo interlocutore. Il dialogo è fondamentale e manifesta il rifiuto di rinchiudersi in una verità data una volta per tutte. Si potrebbe anche, a questo proposito, mettere in evidenza le pluralità dei commenti e interpretazioni, partendo da un altro punto di vista, che si congiunge alla tradizione cristiana separandosene in maniera fondamentale. Si tratta dell’idea di incarnazione. Per le due tradizioni, quella cristiana e quella ebraica, Dio entra nella Storia, l’infinito nel finito.
Per i cristiani, Dio diventa un uomo, il Verbo, – la Parola- diventa carne: è un’incarnazione nella carne. Per gli ebrei, Dio diventa testo. Dio si manifesta in un testo e nei suoi limiti. Ma per i rabbini la responsabilità degli uomini è quello di non fossilizzarsi definitivamente nel suo testo, ma leggerlo per esplosioni affinché dia significati diversi, all’infinito. Per la mistica ebraica la lingua sacra non esiste solo per dire il mondo, ma anche per crearlo. Infatti la Qabbalah per l’ebraismo è un linguaggio in movimento per un uomo in movimento. Forse, in questo modo bisogna intendere il secondo comandamento: “Non avrai altro Dio di fronte a me”.
“L’altro Dio”, non sarebbe altro che l’idolo sul quale si fissa lo sguardo. L’idolatria è essere tesi verso una sola cosa, un solo interesse. Invece è il molteplice, l’apertura al plurale, il più sicuro mezzo per sfuggire all’idolatria. Mantenersi nella domanda, nella dimensione del domandare. Solo la miseria o il limite “dell’ortodossia” pretende di dire una volta per tutte ciò che si ha diritto di dire e cosa no.
Dire ciò che si deve pensare e ciò che è proibito dire sfocia velocemente nella propaganda, nell’ideologia, le cui somiglianze con l’idolatria sono manifeste. Nello stesso modo, la ripetizione di gesti e rituali identici se non sono idolatri, lo diventano se l’interpretazione di tali gesti non è costantemente ravvivata e rinnovata.
* Giuseppe Messina è docente ordinario di filosofia e storia presso il Liceo Scientifico N. Copernico di Bologna e dal 12 marzo 2010 è presidente-fondatore dell’Associazione Amicizia Ebraico Cristiana (AEC) di Bologna, già membro dell’AEC della Romagna. Scrive articoli sul Bollettino dell’associazione AEC di Firenze. Dal 2006 studia Ebraico biblico presso la Fraternità di Charles de Foucauld di Ravenna con la maestra Maria Angela Baroncelli Molducci. Ha insegnato Ebraico biblico e Pensiero ebraico presso il Collegio San Luigi dei Padri Barnabiti di Bologna e presso il Centro Poggeschi dei Padri Gesuiti di Bologna.