Rifiutare l’indifferenza. Portare il nome
Riflessioni sull’Ebraico e il pensiero biblico di Giuseppe Messina*
Terzo Comandamento: “Non pronunzierai il Nome dell’Eterno, tuo Dio, invano…” (Es 20, 7)
Portare il nome implica necessariamente caricarsi degli ordini che quel nome promulga. Gli sposi “si portano” l’un l’altro e la parola ebraica nissuim, erroneamente tradotta matrimonio, si dovrebbe tradurre come trasporto. Questa parola esprime bene l’essenza dell’unione: un portare insieme le gioie e i dolori della coppia.
Portare il nome implica un’alleanza, un matrimonio con Lui, un obbedienza ai Suoi ordini, un’adesione alla Sua volontà, un’aderenza alla Sua Presenza. Se volessimo interpretare le Scritture alla lettera dovremmo dire che più che portare il Suo Nome la traduzione dei Settanta lo ha “deportato” dal Sinài alle brume dell’Olimpo.
La Bibbia, una volta tradotta, ha fatalmente cambiato universo culturale e “cambiare luogo significa cambiare destino“, recita un detto ebraico. Dall’Asia semitica nella quale affonda le sue radici, fu trapiantata nel mondo greco-romano, dove YHWH divenne Kurios Theos in greco, quindi Dominus Deus in latino.
Nelle più di duemilaseicento traduzioni della Bibbia YHWH assumeva la forma di un idolo. L’ Elohim unico e solitario del Sinài diventava così un ospite dell’Olimpo, compagno di centinaia di divinità del pantheon. L’Occidente perciò dimenticò quindi il Suo Nome e talvolta la Sua identità. Nel XX secolo, la rinascita degli studi e dell’archeologia orientali, la resurrezione della lingua, della cultura ebraica permettono una lettura rinnovata delle Scritture, reinseriti nei mondi culturali delle origini.
Il Nome di YWHW, dotato di una potenza trascendentale, è impronunciabile. Dio è il Sacro e il Santo per antonomasia, e questo è, del resto, uno dei Suoi Nomi. La Sua luce è così intensa che si comunica al Suo Nome e il suo uso a fini profani è considerato un sacrilegio. La portata di questo Comandamento va quindi molto al di là del divieto cristiano di bestemmiare. Solo il gran sacerdote del Tempio di Gerusalemme era depositario della tradizione di questo Nome, che pronunciava una volta all’anno, il giorno di Kippur, giorno del Perdono.
In quell’occasione egli portava sulla fronte il Nome di YHWH, inciso come su “una lamina d’oro pura” entrava con timore e tremore nel Sancta Sanctorum, dove pronunciava il Nome per chiedere la grazia del Perdono. Dalla distruzione del Tempio, la pronuncia corretta di YHWH è andata perduta e gli ebrei rimangono nell’impossibilità di portare il Nome, anche invano.
* Giuseppe Messina è docente ordinario di filosofia e storia presso il Liceo Scientifico N. Copernico di Bologna e dal 12 marzo 2010 è presidente-fondatore dell’Associazione Amicizia Ebraico Cristiana (AEC) di Bologna, già membro dell’AEC della Romagna. Scrive articoli sul Bollettino dell’AEC di Firenze. Dal 2006 studia Ebraico biblico presso la Fraternità Charles de Foucauld di Ravenna con la maestra Maria Angela Baroncelli Molducci. Ha insegnato Ebraico biblico e Pensiero ebraico presso il Collegio San Luigi dei Padri Barnabiti di Bologna e presso il Centro Poggeschi dei Padri Gesuiti di Bologna