Un Dio che risponde. Se tu maltratti lo straniero, io ascolterò il suo grido
Riflessioni sull’Ebraico e il pensiero biblico di Giuseppe Messina*, quarta parte
Seconda Parola: “Non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro…” (Es 20, 3-5)
Sfogliando le pagine della letteratura profetica noteremo come il Dio di Israele risponde alle invocazioni. Egli sa ascoltare il grido dell’uomo liberandolo dalla sofferenza. Al contrario, il profeta Isaia descrive l’idolo in questo modo: “Ognuno lo invoca, ma non risponde; non libera nessuno dalla sua angoscia”. (Is 46, 7). L’idolo non risponde all’invocazione dell’uomo. Che cos’è un’invocazione? Per capirlo si potrebbe applicare la regola della “prima coincidenza”, ossia la prima volta che la parola appare nel testo biblico. Ciò avviene all’inizio del libro della Genesi, nell’episodio di Abele e Caino (capitolo 4).
Dopo che Caino ha ucciso il fratello, Dio gli domanda: “Dov’è Abele, tuo fratello?”, Caino risponde: “Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?”. Dio riprese: “Che hai fatto! La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra!”.
Il grido nasce con la violenza e il sangue versato. E Dio lo ascolta.
Si legge nel libro dell’Esodo, al capitolo 22, versetto 22 (nel quadro delle leggi e dei precetti da osservare): “Se tu lo (la vedova o l’orfano) maltratti, io ascolterò il suo grido”. Gli uomini che ascoltano questa ingiunzione, devono capire questo versetto, perché essi stessi sono in questa situazione di “gridare” e di essere stati “ascoltati” quando erano stranieri, come non manca di ricordare il versetto 20 che precede: “Non molesterai lo straniero né lo opprimerai, perché siete stati stranieri nel paese d’Egitto”. Quanta verità c’è dentro questo versetto, così attuale! Bisognerebbe leggerlo più spesso nelle nostre chiese e nelle nostre assemblee cittadine. E perché no, scriverlo in qualche striscione non guasterebbe il decoro dei nostri palazzi e delle nostre case. È proprio un versetto così antico e così nuovo.
Questa “estraneità” – il fatto di provenire da un paese straniero, di essere stranieri in un paese – non è solo un incidente della storia ebraica: è un elemento che appartiene alla condizione ebraica. Nella storia di Abramo, c’è la promessa della terra, ma, per meritarla, bisogna fare, innanzitutto, l’esperienza dell’esilio. Un Midrash racconta che Abramo vuole sapere che cosa ha fatto questo popolo per andare in esilio in Egitto. Dio risponde che non ha fatto niente, ma che la storia di questo popolo implica che faccia l’esperienza dell’estraneità e della schiavitù. Questa storia è parte integrante del suo essere. Essere stranieri è la condizione per amare e rispettare lo straniero.
* Giuseppe Messina è docente ordinario di filosofia e storia presso il Liceo Scientifico N. Copernico di Bologna e dal 12 marzo 2010 è presidente-fondatore dell’Associazione Amicizia Ebraico Cristiana (AEC) di Bologna, già membro dell’AEC della Romagna. Scrive articoli sul Bollettino dell’AEC di Firenze. Dal 2006 studia Ebraico biblico presso la Fraternità Charles de Foucauld di Ravenna con la maestra Maria Angela Baroncelli Molducci. Ha insegnato Ebraico biblico e Pensiero ebraico presso il Collegio San Luigi dei Padri Barnabiti di Bologna e presso il Centro Poggeschi dei Padri Gesuiti di Bologna.