Un Dio compromesso con i maledetti (Marco 1,40-45)
Restituzione* a cura di Mariella Colosimo dell’incontro di riflessione biblica del gruppo PAROLA… E PAROLE** del 18 gennaio 2025
In questo episodio di guarigione del lebbroso (Marco 1,40-45) mi colpisce la determinazione con cui Gesù dice al lebbroso “lo voglio!”. I lebbrosi in Israele e nella logica dell’Antico testamento erano esclusi dalla società e dall’ambito religioso. Impuri per eccellenza, considerati “castigati da Dio” per i loro peccati, di cui la lebbra era la prova e la manifestazione visibile. Il libro dei Numeri parla del lebbroso come “un bambino nato morto” e “come uno a cui suo padre ha sputato in faccia” (Numeri 12,12-14).
Essendo la lebbra ritenuta una malattia religiosa, era compito del sacerdote fare la diagnosi, ordinare la segregazione e verificare eventualmente la guarigione e la riammissione nella comunità.
Cosa prova, dice e fa Gesù quando il lebbroso si butta in ginocchio e gli chiede di essere “purificato”? Prova compassione, tende la mano, lo tocca e gli dice “lo voglio”. Prova compassione perché non può ammettere che in nome di una legge umana, ammantata di volere divino si possa tenere qualcuno fuori dalla comunità, separato e condannato. Tende la mano e tocca: entra in contatto con la carne delle persone, non le ritiene impure. Lo vuole: Dio desidera solo che tutti i suoi figli e le sue figlie siano guariti, rifioriscano, godano di una vita piena. In quel suo stendere la mano e toccare c’è tutta la potenza di Dio. Per Gesù non ci sono categorie: puro/impuro, sacro/profano, dentro/fuori. Siamo tutti fratelli e sorelle.
La sacralità appartiene alla religione non alla fede, la purezza del Vangelo non sembra volta a indicare il confine tra lecito e illecito, ma disponibilità a lasciarci attraversare dalla luce. Quando abbiamo bisogno di usare categorie siamo lontani dalla logica del Vangelo e vicini a quella della legge, che separa e distingue. E mi tornano alla mente le parole di mia figlia: “Io non vorrei essere definita, mamma!”. Anche oggi ci sono persone che, come i lebbrosi, si sentono esclusi, rimangono sulla porta della Chiesa. A loro la Buona Novella di Gesù, di cui sono i primi destinatari, non viene annunciata.
La lebbra me la sento come le mie zone d’ombra, la parte di me di cui provo vergogna, invece forse è proprio tramite la fragilità, quella parte di me che sono chiamata a riconoscere, che posso arrivare ad una vita piena.
L’amore guarisce, riavvicina, cerca la bellezza e la forza presente in ciascuno e ciascuna per farla fiorire.
Nel brano c’è anche il coraggio del lebbroso che, a sua volta, superando barriere e sensi di colpa, trasgredisce le norme della religione del tempo per avvicinarsi a Gesù: Se vuoi – lo supplica in ginocchio – puoi guarirmi! Una supplica, che può essere immaginata anche urlata, che rivela oltre alla sofferenza per l’emarginazione e la solitudine subite anche la grande fede nel potere di Gesù. Entrambi, dunque, con una fortissima determinazione decidono di trasgredire le norme della società del tempo in nome di una forza superiore che in quel momento sembra invincibile.
Il lebbroso si avvicina a Gesù con una richiesta forte di guarigione. E mi chiedo: ho insegnato alle mie figlie ad avvicinarsi a Gesù, ad affidarsi a lui? Io sento che Gesù mi ha toccata attraverso lo sguardo degli altri. Forse è attraverso il mio sguardo che le mie figlie si sentiranno toccate da Gesù.
I nostri ragazzi non sono accolti dalla Chiesa, c’è una grande responsabilità della Chiesa in questo rifiuto. Solo con l’amore si può costruire un ponte per dialogare. Io mi sento figlio di Dio, vorrei che anche loro si sentissero figli di Dio.
Il lebbroso, disobbedendo a quanto Gesù gli aveva detto, cominciò a divulgare la notizia al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in città e se ne stava fuori in luoghi deserti. Gesù rispetta la sua volontà, lascia che faccia le sue scelte.
Nel brano dei Numeri, Maria ed Aronne, forse gelosi della posizione di prestigio del fratello Mosè, lo contestano prendendo come pretesto il suo matrimonio con una donna etiope, non ebrea. L’ira di Dio si accende contro di loro – si legge nel testo – e Maria viene colpita dalla lebbra. Dovrà restare isolata fuori dell’accampamento per sette giorni, poi vi sarà di nuovo ammessa. In ciò che Dio fa, anche in una punizione, c’è sempre un’opportunità nascosta. Se non avessi avuto un figlio gay, non avrei sviluppato quelle capacità e sensibilità che non avevo e che ora sento di avere. Forse quei sette giorni da trascorrere fuori nel deserto sono serviti anche per me, per maturare la sensibilità che oggi mi appartiene. Forse spetta anche a me riflettere nel deserto al posto di mio figlio che in questo momento sembra lontano dalla Chiesa.
Ma perché solo Maria è colpita dalla lebbra se entrambi, Aronne e Maria, si erano macchiati della stessa colpa?
È la mentalità maschilista del tempo che trasferisce su Dio un atteggiamento maschilista? O è Dio che sbaglia e si ravvede dopo l’intervento di Mosè che gli chiede di guarire la sorella, limitando il castigo a sette giorni? Tanti sono i testi dell’Antico Testamento dove l’intervento degli uomini fa cambiare idea a Dio, modifica il suo comportamento o il suo proposito, riconciliandolo con il genere umano, nonostante il suo peccato.
Dio sceglie situazioni di fragilità, ce lo racconta la Bibbia, ed è lì che compie i suoi prodigi. Ma davanti ad una malattia che non guarisce, destinata a peggiorare, come riconoscere il prodigio di Dio? Rifiuto l’idea della malattia come di una croce da accettare rassegnati, come Gesù ha accettato la sua. Gesù non ha scelto la croce, ha scelto di rimanere coerente fino alla fine, di non rinnegare ciò per cui aveva speso la vita, si era contaminato con gli scarti della società e questo lo ha portato alla croce.
La croce è uno strumento di tortura, non qualcosa da adorare. Io non sto dalla parte delle croci, sto dalla parte dei crocifissi perché vengano liberati dalle loro croci. Ma quando si fanno i conti con una malattia dalla quale non ci si libera? Quando il futuro fa paura e l’unica difesa possibile è non pensarci, immergendosi nel presente, non c’è il rischio di essere presi da uno smarrimento profondo? Eppure quello smarrimento non l’ho incontrato; pur nell’incapacità di gridare una preghiera di richiesta, come quella che fa il lebbroso, la vicinanza di Dio la sento e la sento forte. E se fosse questo il miracolo? Se fosse la serenità che nonostante tutto mi porto dentro?
Se Dio sceglie la fragilità lo penso dalla parte dei miei figli. Durante la loro infanzia e adolescenza ho cercato di farli riflettere sul messaggio evangelico, sull’attenzione costante di Gesù alla fragilità umana in tutte le sue forme, al di là delle convenzioni religiose imposte. Continuo a interrogarmi sul modo di aiutarli a vivere un’autentica dimensione di spiritualità. Ancora oggi mi ritrovo a suggerirgli: “Non guardate sempre per terra cercando le ghiande, come fanno i maiali, alzate gli occhi al cielo. Lasciatevi le ali per volare”.
Con Gesù c’è un rovesciamento delle categorie: mangia con i peccatori, tocca i malati, rischiando che la loro esclusione lo contagi. Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Sono i malati, gli esclusi ad avere bisogno del ribaltamento della logica dominante, ribaltamento indispensabile per rinnovare radicalmente le relazioni umane.
Le categorie servono a dare sicurezza. Faticoso rovesciarle, ma si è rivelato indispensabile per me che ho dovuto attraversa la zona d’ombra del senso di colpa, della vergogna di fronte al coming out dei miei figli prima di potermi riavvicinare al Signore: un cammino doloroso dalla vergogna ad una fede più matura e vitale. È proprio attraverso il dolore, la vergogna che mi sono riavvicinata a Dio e mi sono lasciata toccare da lui.
Io le categorie non le ho mai accettate. Non sono toccata da quello che gli altri possono pensare.
Il rovesciamento delle categorie a cui ci invita Gesù rimanda per contrasto al nostro bisogno di definire, di classificare eventi e comportamenti delle persone nel tentativo di non lasciare nulla al caso, di dare ordine al mondo, di spiegarlo. Un tentativo di fare luce nell’oscurità del mondo. C’è la difficoltà a sospendere il giudizio, a rinunciare alla semplificazione degli schemi. È difficile pensare in modo complesso perché ci devi mettere dentro cose diverse, contraddittorie. Tentiamo di avere ragione sull’infinita complessità della vita sintetizzandola in un’etichetta, in una categoria. Le categorie non bastano, ci possono portare fuori strada, ma ci fanno vivere bene. O così ci sembra. Ma intanto ci allontanano da Gesù e ci fanno rischiare di non cogliere i segni. Forse la ricerca di una identità per noi e per tutte le persone che amiamo è un modo per definire l’infinita imprevedibilità degli eventi, in particolare quelli inquietanti, o addirittura drammatici. Di fronte all’orrore delle macerie di Gaza un segno di speranza proviene da alcuni versi di un poeta palestinese. Mentre con i piedi calpesta le macerie, alza lo sguardo e vede il cielo di Gaza: “Non si allontani il cielo / ora è giunto luminoso / lavato nel sangue bambino / in campi di rossi papaveri / soffocati sotto carri cingolati. / Non si allontani il cielo / è giunto finalmente /…/ è venuto pulito”. Forse per cogliere i segni bisogna allargare lo sguardo.
Gesù fa l’unica cosa che non avrebbe dovuto fare: tocca il lebbroso, così come si era lasciato toccare dalla peccatrice, e lo fa intenzionalmente, poi si ritira in luoghi deserti, facendo sua la condizione del lebbroso che non poteva avvicinarsi agli abitati. Un gesto profetico: Gesù morirà fuori, condannato alla crocifissione come un maledetto, un blasfemo. Dio si fa vicino a chi fa esperienza di situazioni di marginalità, prende su di sé la condizione di esclusione, non si tiene al riparo, neanche da ciò che non è lodevole, e ci invita a fare lo stesso, a comprometterci con i fratelli e le sorelle. Questo mi sembra proprio un bel Dio.
Marco 1,40-45
Allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi guarirmi!». Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, guarisci!». Subito la lebbra scomparve ed egli guarì. E, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse: «Guarda di non dir niente a nessuno, ma va’, presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro». Ma quegli, allontanatosi, cominciò a proclamare e a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte.
Numeri 12,1-16
Maria e Aronne parlarono contro Mosè a causa della donna etiope che aveva sposata; infatti aveva sposato una Etiope. Dissero: «Il Signore ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro?». Il Signore udì. Ora Mosè era molto più mansueto di ogni uomo che è sulla terra.
Il Signore disse subito a Mosè, ad Aronne e a Maria: «Uscite tutti e tre e andate alla tenda del convegno». Uscirono tutti e tre. Il Signore allora scese in una colonna di nube, si fermò all’ingresso della tenda e chiamò Aronne e Maria. I due si fecero avanti. Il Signore disse: «Ascoltate le mie parole! Se ci sarà un vostro profeta, io, il Signore, in visione a lui mi rivelerò, in sogno parlerò con lui. Non così per il mio servo Mosè: egli è l’uomo di fiducia in tutta la mia casa. Bocca a bocca parlo con lui, in visione e non con enigmi ed egli guarda l’immagine del Signore. Perché non avete temuto di parlare contro il mio servo Mosè?».
L’ira del Signore si accese contro di loro ed Egli se ne andò; la nuvola si ritirò di sopra alla tenda ed ecco Maria era lebbrosa, bianca come neve; Aronne guardò Maria ed ecco era lebbrosa. Aronne disse a Mosè: «Signor mio, non addossarci la pena del peccato che abbiamo stoltamente commesso, essa non sia come il bambino nato morto, la cui carne è già mezzo consumata quando esce dal seno della madre». Mosè gridò al Signore: «Guariscila, Dio!». Il Signore rispose a Mosè: «Se suo padre le avesse sputato in viso, non ne porterebbe essa vergogna per sette giorni? Stia dunque isolata fuori dell’accampamento sette giorni; poi vi sarà di nuovo ammessa». Maria dunque rimase isolata, fuori dell’accampamento sette giorni; il popolo non riprese il cammino, finché Maria non fu riammessa nell’accampamento. Poi il popolo partì da Caserot e si accampò nel deserto di Paran.
*La restituzione è una sorta di resoconto di quanto è stato detto nel corso dell’incontro. Come in un collage, sono messi insieme frammenti significativi degli interventi dei singoli partecipanti, parole e pensieri espressi da ciascuno e ciascuna.
** PAROLA… E PAROLE è un gruppo di incontro esperienziale cristiano per genitori di persone LGBT e genitori LGBT di Roma. Ci incontriamo per percorrere e tracciare insieme il cammino verso una società ed una chiesa inclusive, dove nessuno sia messo ai margini. Lo facciamo seguendo le orme di quel Gesù di Nazareth, che, sulle strade della Palestina, ha condiviso la sua vita con gli esclusi e le escluse del suo tempo. Ci incontriamo una volta al mese, normalmente il primo venerdì, alle ore 20 presso un locale attiguo alla chiesa di Sant’Ignazio. Coloro che sono interessati, possono contattarci a questi recapiti: Alessandra Bialetti cell. 346 221 4143 – alessandra.bialetti@gmail.com; Dea Santonico cell.338 629 8894 – dea.santonico@gmail.com