Un gay in seminario. ‘Il mio cammino per fuggire da me stesso’
Articolo di Verónica Dema tratto dal blog “Boquitas pintadas” (Argentina) del 31 agosto 2011, liberamente tradotto da Adriano C.
Matías ha letto la storia di Gabriel, che rifletteva sugli effetti del suo coming out avvenuto dopo i 30 anni, e ci ha chiesto di raccontare il suo. Voleva parlare sulla possibilità o meno di recuperare il “tempo perduto”.
La sua esperienza indica che non tutte le crisi diventano opportunità, questo non è sempre vero dato che le esperienze vissute sono sempre avvenimenti che ci aiutano a guardare al presente sotto un’altra prospettiva.
“C’era una strada che percorrevo a quei tempi, che non recupererò più, che se anche volessi scoprirla nuovamente o volessi darle un altro significato non esiste più… a parte la ferita che mi ha lasciato”, dice.
Successivamente, proprio dopo questa riflessione introduttiva racconta di essere entrato in seminario nel momento in cui si accorse che gli piacevano gli uomini, lì rimase 5 anni fino al momento in cui decise di non mentire più. Voleva cominciare a essere se stesso, andare oltre l’incomprensione iniziale della sua Chiesa e dei suoi genitori. Oggi crede che la vera benedizione è quella di essere sincero e libero.
“Essere sacerdote, il cammino per fuggire da me stesso” di Matías
Ho 28 anni. Con il passare del tempo, solitamente dico che “non mi pento di nulla”. Eppure a volte ricordo una cosa e dico: che bello sarebbe stato se a quel tempo lontano non avessi conosciuto questa persona che mi ha fatto così tanto bene, o quanto sarebbe differente se al momento di lanciare la monetina per sapere che strada imboccare arrivato a quel bivio della mia vita, avessi continuato sull’altra strada. Quando la mia adolescenza proseguiva e ad essa si assommavano i voti di uno studente “promettente”, decisi di diventare sacerdote.
Sì: volevo fare il prete. Lasciar tutto (presumibilmente) per consacrare la mia vita, per consacrarmi per gli altri al culto divino. Credo che questa frase (che scrivo in corsivo) riassuma molto di quello che passò allora nella mia testa, sebbene non me ne rendessi molto conto. “Consacrarmi”. Farmi sacro. E “per gli altri”.
In quelli che erano i miei 15 o 16 anni, con quelle posizioni che sembravano così “corrette”, tanto generose, era ben chiaro quello che “volevo guarire”. Come? Evadendo. Scappando. Da chi? Da me stesso. Da quello che ero. Da “questa parte” di me che non volevo, che fin da piccolo mi dava fastidio e che negavo di accettare.
Sento ancora l’aroma di un caffellatte spumoso, quando a 7 anni dal ritorno da scuola, in un giorno di pioggia, sentii un “vieni a giocare con me” e notavo gli addominali di un ragazzotto giovane e belloccio, che generavano in me una reazione che non comprendevo bene ma che sapevo che mi piaceva.
L’insegnamento che mi arrivò successivamente (un insegnamento senza verbalizzazione) mi diceva che “questo” non era un bene per me. Questo stesso insegnamento quando raggiunsi i 17 anni, mi indusse a “consegnare” la mia vita “al servizio di Dio e del prossimo”.
Entrai in seminario. Mezzo bambino, o mezzo uomo. Ma totalmente gay. Una colpa interiore, mascherata da “buone intenzioni”. Volevo seguire un ideale “alto e puro”. Ero sicuro di entrare in un paradiso, dove l’amore mi avrebbe senz’altro circondato. Però non mi rendevo conto che il mio inferno non veniva da fuori, ma da dentro di me.
Nessuno mi parlò “del tema” quando presi la decisione di diventare prete. Compresi il messaggio: senza profferir parola mi dicevano “di questo non si parla”. Invece tutti mi applaudivano: “che bello che in un mondo tanto perverso ci siano giovani come te, Matías, che vogliono essere tanto buoni”.
Oggi non ho dubbi. “Un posto nel mondo” era quello che cercavo: il mio posto nel mondo. Un posto che mi potesse difendere da quella colpa tanto “sporca” e nascosta. Non importava se fossi un buon amico, un buon figlio, un buon studente. No. Mi sembrava che ciò che contava di più fosse nascondere quella capacità di amare che appartiene a tutti noi. Ma che in me era così orrenda.
“Fummo fatti per amare”, mi dicevano parlando. “Ma non come vorresti amare tu, Matías”, mi dicevano senza parlare. Questa colpa dovevo pulirla. Come? “Consolando gli altri”. E in quanto Matías, il colpevole, cercavo la mia stessa consolazione e accettai l’accordo: tra tanta consolazione e sconforto, un po’ di pace poteva germogliare. Consolazione, sconforto: era chiaro, amare (come volevo amare io) era soffrire.
I 5 anni che restai lì dentro, furono più che singolari. “Pittoreschi”, direbbe un vecchio. Ho passato momenti belli, altri con alti e bassi e altri ancora dolorosi. Dopo pochi giorni dall’entrata, mi resi conto che con Cristian, “avevamo un voto di amicizia”. Passati cinque anni mi rendo conto oggi, con un sorriso, di quanto ero innamorato di lui. E lui di me. Un amore platonico ed incorporeo. Che non si concretizzò mai in sesso, né in baci, né in parole affini, ma con un cuore, o due… che pulsavano forti e in sincronia.
Ricordo i vari compagni “effeminati”, che venivano “marcati” dalla comunità. “Non sia mai che gli altri si accorgano che io… in qualcosa sono come lui …”; “non sia mai che la gente pensi che siamo tutti uguali”. Eccome se eravamo diversi! Mi ricordo anche con un altro sorriso come erano (…o eravamo) “frocette”: i più colti, i più saggi e i più preparati per organizzare le celebrazioni.
Una specie di dimensione scenica o teatrale, nella quale questi “maschioni”, passavano … come libellule. A volte quando racconto qualcosa di questa esperienza che senza dubbio mi ha colpito e molto, mi chiedono “hai visto altro?”. Ho visto quello che succedeva a me. Ho visto che la mia vita paradisiaca si trasformava via via e sempre di più in schiavitù. E mi sono anche accorto che il boia di Matías, non era nessun altro, se non lo stesso Matías.
Un giorno cominciai a provare la paura. Andai a parlare con i miei superiori. Ho raccontato loro tutto quello che mi stava accadendo. Tutto, tutto, tutto. Sperando che mi dicessero: “Beh, Matías, siamo arrivati fino a questo punto?”. Niente da fare.
Con molto tatto, mi dissero che loro, col tempo, con le preghiere, e con una “buona terapia”, mi avrebbero aiutato. Così cominciai ad uscire settimanalmente per una visita con un psichiatra “per correggere quell’inclinazione cattiva”. Oggi, con l’ennesimo sorriso (e questa volta piuttosto ironico), mi sembra che non fece molto bene allo psichiatra. Dopo pochi mesi decisi di andarmene. Sì, di lasciare. Da un giorno con l’altro. Come un pulcino che esce dall’uovo, ho rotto il guscio e ho detto ciao.
La forza fu di gran lunga maggiore alle aspettative esterne che molti ti impongono, ma non è giusto far così. Sono cazzotti che ad un adolescente, mezzo bambino e mezzo uomo, fanno male. Sono sostenuti da un messaggio “che sembra esserti d’aiuto” e ti fanno sentire al sicuro. Proprio così, fino a che non sbatti la testa contro un muro … o ci sbatti con uno spintone. Non rinnego nulla di quello che ho vissuto. Ma alcune esperienze mi sono state imposte, e questo mi fa arrabbiare.
Mi ricordo anche di quello che dice il Vangelo di Giovanni: “la verità ci rende liberi”. Non essere Matías, non essere “me stesso” era una menzogna. Non voglio essere schiavo, né essere “bugiardo e neppure essere un falso Matías.
Testo originale: “Dejé el seminario porque me asumí gay”