Un giorno con i transgender al Centro di Niguarda, tra dolore e illusioni
Articolo di Luciano Moia pubblicato su Avvenire il 14 dicembre 2017
Decuplicato il numero di chi chiede la «riassegnazione chirurgica» del sesso. Tanti adolescenti e giovani. Ma la legge del 1982 prevede un percorso lungo e complesso.
Searyl è probabilmente il primo bambino al mondo che, per il momento, non avrà sui documenti nessuna indicazione di genere. Né maschio né femmina. Kory Doty, la madre, ha ottenuto da un Tribunale canadese della Columbia Britannica, la possibilità di un documento neutro. La battaglia legale di Kory ha suscitato polemiche in tutto il mondo. È giusto sia data a un bambino la possibilità di crescere «fuori dagli schemi e dai condizionamenti derivanti dall’appartenere all’uno o all’altro sesso»? E cosa dice la Chiesa a questo proposito? Nel 1991 l’allora prefetto della Congregazione per la fede, cardinale Joseph Ratzinger, in risposta a un quesito posto dalla Conferenza episcopale tedesca sulla liceità di ammettere al matrimonio una persona transgender, con intervento di «riassegnazione chirurgica, scriveva: «Non è possibile… in quanto contrarrebbe le nozze con una persona che biologicamente appartiene al suo stesso sesso».
La disposizione è stata ripresa in una «Notificazione della Presidenza della Cei» il 21 gennaio 2003 in risposta alla richiesta – negata – di apportare variazioni anagrafiche sui Libri parrocchiali per i fedeli che, sottopostisi a interventi di cambiamento di sesso, avevano ottenuto il relativo riconoscimento civile. Sulla liceità etica dell’intervento nessun accenno. La questione è entrata spesso nel dibattito teologico, ma non è mai stata affrontata in documenti del magistero. Noi siamo andati a vedere da vicino cosa succede in un ambulatorio per la «riassegnazione del sesso» e abbiamo parlato con le persone che si avvicinano a questa ipotesi.
Ci sono le cosiddette teorie del gender. E c’è la realtà. Le teorie, come più volte spiegato su queste pagine, sono un confuso minestrone cucinato con tocchetti di vetero femminismo e con brodo di utopie biofilosofiche, quelle secondo cui il ‘binarismo sessuale’ (maschio-femmina) è un’arma del potere politico e religioso per tenere in schiavitù la persona. E quindi, solo fluidificando il genere sessuale, si può sperare di riconquistare la libertà perduta.
Poi c’è la realtà che, in questo caso, ha le pareti lunghe e spoglie di un padiglione dell’ospedale di Niguarda. Qui, negli spazi infiniti della più grande cittadella sanitaria del Paese, c’è un ambulatorio dove si accolgono i candidati per la «transizione di genere». Non è un prodotto della cultura gender. In Italia la legge che permette quello che in modo improprio si definisce «cambio di sesso» esiste da tempi non sospetti. Era il 14 aprile 1982 quando il Governo Spadolini varò la legge 164.
Una delle prime in Europa sul tema. L’ambulatorio esiste proprio in funzione di quella legge. Solo che, fino a pochi anni fa, l’attività era abbastanza limitata: poche decine di casi l’anno. Oggi l’ambulatorio, centro d’eccellenza in Lombardia per la cura della disforia di genere, si trova a dover gestire richieste decuplicate, uomini e donne – in numero quasi identico – che desiderano ‘transitare’ da un sesso all’altro. Arrivano adolescenti accompagnati dai genitori, ma anche persone mature di 50 o 60 anni, che dopo una vita «ingabbiati», come loro stessi spiegano, in un’identità che sentivano diversa rispetto al proprio sesso biologico, hanno deciso di riallineare psiche e corpo. Perché questa esplosione di richieste? C’entra qualcosa la dilagante cultura del gender? Se è vero che, secondo le stime degli studi scientifici più documentati, la disforia di genere – o disturbo della differenziazione sessuale – è un problema che riguarda una persona ogni novemila, quindi circa 7mila in Italia, si potrebbe concludere che si tratta di una minoranza. Da dove arrivano allora tutti questi pazienti?
Sarebbe facile puntare il dito contro i fantasmi di coloro che predicano l’urgenza di abbattere i paletti della differenza sessuale per allargare gli spazi di un genere senza schemi, senza maschi e senza femmine, popolato solo da genitori ‘1’ e ‘2’. In parte può essere così. Infatti secondo gli esperti, se il dato patologico è costante, sono invece aumentate le richieste da parte dei soggetti suggestionabili, le persone affette cioè da sofferenze psichiche di vario genere che si illudono di risolverle ‘provando’ a cambiare sesso. Ma per costoro il percorso è precluso. Lo sbarramento è costituito dalle visite psichiatriche e psicologiche preliminari che devono accertare le motivazioni per le quali ci si mette sulla strada della ‘transizione’. Come è preclusa a quelli che vengono riscontrati come ‘narcisisti’, coloro cioè che sarebbero disposti ad avviarsi su una strada complessa e dolorosa come il cambiamento di sesso quasi soltanto per avere l’occasione di mettere al centro la propria smodata egolatria. Anche queste persone vengono scoraggiate.
Rimane chi è davvero affetto da disforia di genere. A parte casi anatomici evidenti – ma si tratta di una minoranza nella minoranza – non è facile indagare la psiche di chi vive questo tipo di disturbi. Per questo il percorso è lento, passa attraverso incontri e consulti vari. Prima i colloqui, poi una lunga fase di accertamenti medici ed, eventualmente, di somministrazioni ormonali, mai irreversibili. Poi, dopo mesi, se la persona persiste davvero nel suo proposito, si arriva a valutare l’intervento chirurgico. C’è chi alla fine rinuncia e chi, nonostante tutto, non recede.
È la prova di quanto sia grande la sofferenza di queste persone, vasto e profondo il disagio di trovarsi in un corpo che non sentono come proprio. Un baratro di dolore che sarebbe davvero difficile spiegare soltanto con le influenze negative derivanti dalle cosiddette teorie gender. Teorie, appunto. Questa è invece una realtà di sofferenza e, come dice papa Francesco in Evangelii gaudium (231-233), «la realtà è superiore all’idea». Allora bisogna avere l’umiltà e la pazienza di andarla a vedere da vicino, senza pregiudizi e senza la pretesa di teorizzare su ciò che si ignora.
Maurizio Bini, che dirige l’ambulatorio di Niguarda, oltre al Centro sterilità, è un medico fuori dall’ordinario. Non solo perché oltre ad avere specializzazioni in ginecologia, andrologia e sessuologia, è anche laureato in filosofia. È fuori dall’ordinario perché, accogliere, ascoltare, comprendere e consigliare questa umanità dissociata e incerta, mantenendo il sorriso di un profilo umano leggero, ma sempre incoraggiante, è tutt’altro che agevole.
Oggi è giornata di controlli e Bini, naturalmente con il consenso dei ‘pazienti’ che si avvicendano, ci permette di assistere ai colloqui. Con lui c’è Grazia Aloi, psicologa e psicanalista, presenza indispensabile per cogliere le tante sfumature che si nascondono dietro parole dette e non dette, pause, gesti. Soprattutto quelli non sempre facilmente decifrabili, come l’atteggiamento di Leonardo (nome di fantasia), 25 anni, che sta dimenticando il suo corpo di ragazza per diventare maschio. Dimostra cinque o sei anni di meno, occhiali, sguardo acuto, non tace un attimo mentre il medico controlla gli esami periodici a cui il ‘ragazzo’ deve sottoporsi e aggiusta la terapia spiegandone le ragioni. Poi Leonardo comincia a raccontare la sua esperienza, i soprusi subiti, le difficoltà vissute con gli amici, i tentativi quasi sempre falliti di nascondere il suo orientamento. Di tanto in tanto la voce s’incrina e gli occhi luccicano. Come quando scopre che, diventato finalmente uomo, non potrà sposare la sua fidanzata in chiesa. «Ma io mi sento pienamente eterosessuale e, quando anche dal punto di vista anatomico, non ci saranno più problemi, chi me lo impedirà?». Questione complessa. Bini interviene, spiega, sostiene. Ma, su tempi e modi della ‘transizione’, non cede alla fretta che anima Leonardo. Quando, dopo circa 40 minuti lo congeda, ci spiega: «Il mio ruolo non è quello né di reprimere né di incoraggiare queste scelte. Verifico che si tratti di un percorso adeguato per i problemi che le persone manifestano, e controllo la correttezza della terapia, conservando la mia libertà, come i pazienti conservano la loro».
Dubbi etici? «Sempre, e sempre diversi, perché qui ogni persona è un caso a sé e mi pone nuovi interrogativi. In questo settore della medicina i protocolli non possono essere rigidi, bisogna mettere insieme i tasselli di vite sempre complicate e dense di vissuti amari».
Altro paziente, altro pugno nello stomaco. È ancora una ragazza che vuole dimenticare il suo corpo femminile. Ha 19 anni, con lei c’è la madre, una signora bella e gentile, che parla con apparente tranquillità del caso vissuto in famiglia. «Ho sempre saputo che Gianni (altro nome inventato) – spiega indicando la figlia – non sarebbe stato una bambina come le altre. Ha sempre rifiutato, fin da piccola, vestiti e giochi femminili. Poi, durante l’adolescenza, tutto è diventato palese». La svolta è stata vissuta prima con sofferenza, anche attraverso tutta una serie di visite psicologiche con esperti solo di nome, perché non preparati, che hanno complicato il quadro. Quando la madre ha capito che non sarebbe stata possibile alcuna retromarcia, è diventata alleata della figlia. Alla fine, qualche mese fa, l’approdo a Niguarda. «Sì, ora la vedo più tranquilla, speriamo…». E si comprende quanta ansia e quanta incertezza si concentrino in quel sospiro di madre.
Sono tanti i genitori che non nascondono sofferenza, attese, delusioni, incertezze in questo ambulatorio che è un po’ confessionale e un po’ girone dantesco. Genitori che si colpevolizzano e genitori che si dicono felici – o si illudono di essere tali – per la decisione dei figli. «Qualche anno fa l’opposizione di madri e padri era scontata, ma da qualche tempo – sottolinea ancora Maurizio Bini – la maggior parte mette al primo posto la ritrovata serenità dei figli. Certo, prima occorre in ogni caso capire se sia davvero questa la strada della felicità. E non è mai facile».
I pazienti successivi sono due uomini diventate donne. Non giovanissimi, sono alle prese con patologie varie legate a una ‘transizione’ che comunque per l’organismo ha quasi sempre l’effetto di un uragano, sia per il bombardamento ormonale, sia per l’equilibrio generale delle varie funzioni. Forse perché entrambi rispondono a schemi già noti e collaudati – lo stereotipo della trans – forse perché nessuno dei due sembra porsi interrogativi sulla scelta compiuta, ormai irreversibile, il coinvolgimento emotivo è minore. Un pregiudizio anche questo, probabilmente. E il direttore dell’Ambulatorio conferma: «Il passaggio per un uomo è molto più difficile. A livello sociale rinuncia a privilegi che, nonostante tutte le battaglie per la parità, ancora sono indiscutibili. Se l’intervento di correzione genitale è un po’ più semplice, nascondersi nel mondo evitando gli sguardi dubbiosi è un po’ più complicato».
Destini segnati, sarebbe facile concludere, forse per mettersi la coscienza in pace, forse per tentare di sistematizzare queste vicende che ci interrogano, ci disorientano, ci costringono a rivedere schemi definiti. Ma quando si legge il dolore sulla carne viva delle persone, quando si passa dall’accademia alla realtà, si restringe lo spazio per l’enunciazione teorica, e si allarga, ma a fatica, quello della misericordia.
Perché se è vero, come scrive papa Francesco, che «ogni persona, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto» (Al, 250) quanto è difficile farlo quando ci si trova davanti alle espressioni più complicate, contraddittorie e disturbanti di questo orientamento.