Un imam coraggioso, una piccola moschea, un Islam diverso
Articolo di Emily Wax pubblicato dal quotidiano Washington Post (Stati Uniti) il 17 aprile 2013, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
L’imam Daayiee Abdullah arriva in autobus tutto sudato, con una pesante borsa verde contenente un Corano, due libri di poesie del mistico persiano Rumi e tre tappeti per la preghiera islamica.
Stasera parlerà in una sala piena di giovani attivisti gay di sinistra dopo la visione del documentario “I Am Gay and Muslim” al Centro per l’Uguaglianza di Human Rights Campaign, che splende di bianco nel centro di Washington. Ma quando l’imam apertamente gay si presenta sul palco, perfino questo pubblico è stupito. “Penso che stiamo iniziando un movimento: un Islam americano più inclusivo” dice Abdullah, che a Washington gestisce la moschea Light of Reform (Luce della Riforma) e che probabilmente è l’unico leader islamico notoriamente gay nell’emisfero occidentale. “Quindi, se volete celebrare un matrimonio omosessuale, io sono disponibile” dice stringendosi nelle spalle con un sorrisino. Alcuni giovani musulmani tra il pubblico mormorano “Wow!” e “Sul serio?”.
Mentre sempre più stati legalizzano il matrimonio omosessuale, è facile dimenticare che alcuni segmenti della società, in particolare alcune comunità di immigrati, considerano l’omosessualità un segreto potenzialmente mortale, che raramente viene rivelato ai parenti in luoghi come il Sudan o l’Arabia Saudita, dove essere gay può essere punito con la morte. Per molti immigrati gay, i valori del loro paese adottivo fanno a botte con quelli del loro paese di origine. Gli americani musulmani gay che vivono relativamente alla luce del sole a Washington e dintorni ne sono un esempio perfetto. Frequentano apertamente altri gay e spesso hanno fatto coming out sul lavoro, ma quando arrivano a sposarsi non osano farlo sapere alla famiglia rimasta nel paese d’origine, che potrebbe divenire bersaglio di abusi o di boicottaggio economico – fino al carcere – se la cosa fosse risaputa.
Abdullah, un afroamericano convertito all’Islam che fa parte di un network nazionale di musulmani progressisti, è il depositario dei loro segreti. Aiuta discretamente le coppie gay musulmane a sposarsi, agendo da consulente prima del matrimonio e celebrando la cerimonia in sordina. “Abbiamo dovuto chiedere a tutti i nostri ospiti di non far trapelare nulla del nostro matrimonio sui social media. Niente Facebook, niente Twitter, niente Instagram” dice M. Q., trentacinquenne musulmano sposato con J. C., 40 anni, quacchero. “I nostri parenti potrebbero venire uccisi e le loro case distrutte lì in Medio Oriente se il nostro matrimonio finisse su Internet.”
Una prospettiva poco comune
Abdullah, un uomo alto e ben piantato, con una barba curata sale e pepe, spesso indossa una spilla arcobaleno sul risvolto della giacca. I musulmani gay di Washington lo vedono quasi come un eroe popolare. “È un po’ l’Harvey Milk dei leader islamici gay in America” dice Abdelilah Bouasria, che insegna sociologia araba all’American University e ha recentemente stilato una dispensa per un possibile corso chiamato “Medio Oriente proibito”. “È importante che gli americani sappiano che esistono molti musulmani progressisti.” Faisal Alam, un attivista musulmano già residente a Washington e ora parte del comitato direttivo della nuova associazione Muslim Alliance for Sexual and Gender Diversity (Alleanza Islamica per la Diversità Sessuale e di Genere), dice che Abdullah “ha aiutato enormemente le persone che cercano di conciliare sessualità e fede”.
Abdullah ha un sacco di detrattori, per esempio gli imam locali che “si rifiutano di dirmi Salam [Saluto e pace]”, per non parlare delle voci che su Internet lo definiscono “contorto e pervertito”, un trafficante di idee “chiaramente proibite nell’Islam”. Pur esistendo tra i musulmani una varietà di opinioni sull’omosessualità, la visione generalmente condivisa è che il sesso sia riservato alle coppie sposate e che il matrimonio sia riservato a due persone di sesso opposto, dice l’imam Johari Abdul-Malik, membro del comitato esecutivo del Council of Muslim Organizations in Greater Washington (Consiglio delle Organizzazioni Islamiche nell’Area di Washington). “Non sono d’accordo con l’interpretazione del Corano dell’imam Daayiee”, aggiungendo tuttavia che pensa che tutte le comunità abbiano bisogno di una guida spirituale. “Quindi lo sfido a prendersi cura dei suoi seguaci.” Abdullah fa parte di un movimento islamico progressista che guadagna seguaci in tutto il paese, simile, in un certo senso, all’unitarianesimo universalista e al giudaismo riformato, come afferma Ani Zonneveld, presidente dei Muslims for Progressive Values (Musulmani per i Valori Progressisti, MPV), un gruppo con sede a Los Angeles fondato nel 2007. Gli MPV hanno nove filiali negli Stati Uniti e all’estero. Come il giudaismo riformato, le moschee MPV permettono alle donne di guidare la preghiera e accolgono coppie di fede mista e coppie omosessuali. Gli MPV sponsorizzano anche un ritiro annuale per musulmani LGBTQ. “Ci siamo chiesti: non c’è nessun musulmano favorevole ai diritti riproduttivi delle donne, ai diritti LGBTQ, alla separazione tra Stato e religioni? Ce n’erano, ma molti musulmani progressisti si sentivano tagliati fuori dalla loro fede” dice Zonneveld, originaria della Malesia.
Il primo atto di Abdullah come imam è stato il funerale islamico per un americano gay originario del Medio Oriente, residente a Washington, morto a seguito dell’AIDS. Dice che nessun altro leader islamico della zona avrebbe celebrato i riti funebri. “Ho pensato che c’era veramente bisogno, soprattutto per chi era stato maltrattato per il fatto di essere gay.” Il cinquantanovenne imam, che soffre a un ginocchio, viaggia in autobus su e giù per la costa orientale, tenendo conferenze nelle università – di recente è stato a Princeton – e offrendo consulenze ai musulmani gay depressi, sull’orlo del suicidio o semplicemente confusi. Molto prima di essere conosciuto come l’”imam gay” Abdullah crebbe come Sid Thompson a Detroit, dove lui e sette tra fratelli e sorelle appartenevano ai Battisti del Sud. Poco prima del suo sedicesimo compleanno fece coming out con sua madre, un’insegnante, e suo padre, postino. Ambedue erano attivi nel movimento per i diritti civili e lo accettarono. Nel 1979 venne a Washington per la Marcia Nazionale per i Diritti di Lesbiche e Gay: era uno dei coordinatori dell’evento. “Washington era la mia mecca. C’erano parecchi gay di colore, e molti erano usciti allo scoperto.” Poco dopo si trasferì nella capitale: lavorava come stenografo in tribunale. Scoprì l’Islam nel 1984, in un luogo improbabile. Mentre stava studiando lingua e letteratura cinese all’Università di Pechino fece la conoscenza di una grande comunità di musulmani cinesi che lo invitarono alla loro moschea. Poco tempo dopo divenne un musulmano, tornò a Washington e spese anni a studiare arabo e diritto islamico. Nel 1995 si laureò alla facoltà di giurisprudenza dell’Università del Distretto di Columbia. Oggi Abdullah gestisce la sua moschea e prosegue il suo attivismo con un piccolo budget in massima parte proveniente da donazioni degli MPV. All’inizio di questo mese [aprile 2013] ha parlato a un convegno alle Nazioni Unite intitolato “Sesso, amore e violenza” sugli attacchi alle comunità LGBTQ in luoghi come l’Iraq e l’Iran.
“La mia visione è un po’ diversa”
In un venerdì primaverile insolitamente afoso l’imam appiccica un cartellino un po’ sgualcito – “Moschea Luce della Riforma” – alla porta d’ingresso del centro quacchero di Washington, nel quale dirige la preghiera. “Spero che venga della gente” dice tergendosi il sudore dalla fronte – bisogna prendere due autobus per arrivare qui da casa sua, nel quartiere di Shaw. “Qualche volta non arriva nessuno, qualche volta arrivano dieci persone. In ogni caso, io sono qui.” Indossa occhiali rotondi, un copricapo da preghiera color crema, una lunga tunica tradizionale, grosse scarpe nere. Passeggia avanti e indietro un po’ nervosamente mentre stende i tappeti da preghiera e aspetta che la porta al piano di sotto si apra. “La nostra moschea è diversa. Ho una visione un po’ diversa dell’Islam e può darsi che ci voglia un po’ per digerirla.” L’anno scorso ha vissuto una crisi: per tre settimane nessuno si presentò. “Ho detto `Dio, cosa devo fare?’.” Poi ha sentito una voce che gli diceva di essere paziente. “Ma la settimana dopo, e quella ancora dopo, non vidi nessuno.” La settimana seguente, mentre stava preparando il cibo per Iftar, il pasto serale con il quale i musulmani rompono il digiuno del mese di Ramadan, arrivarono 32 persone.
Il problema, in parte, è che il target di Abdullah sono le persone che spesso hanno abbandonato la fede, dice Urooj Arshad, 37 anni, un pakistano americano membro della Muslim Alliance for Sexual and Gender Diversity, che si considera un musulmano culturale e secolare. “Ma non abbiamo altri che lui: non c’è nessun altro negli Stati Uniti che fa il lavoro che fa lui” aggiunge Arshad, che lavora a Washington sui diritti LGBTQ. Stasera, mentre Abdullah cantilena il richiamo alla preghiera, arriva una sola persona. Se ne va in fretta dopo la prima preghiera, si inchina mentre ringrazia l’imam.
“Ha aperto gli occhi a molta gente”
C’è un posto dove Abdullah è sempre festeggiato: in casa della coppia islamo-quacchera per la quale ha collaborato alla cerimonia di nozze. I due si sono conosciuti nove anni fa in Medio Oriente e si sono poi trasferiti a Washington, dove si sono sposati davanti a 300 ospiti. Ora hanno una figlia di 10 mesi. Nel salotto è appeso un certificato di matrimonio scritto in arabo. Comprende un versetto del Corano di genere neutro che recita: “E tra i Segni di Lui c’è che ha creato per voi le vostre metà, affinché voi possiate vivere con loro in armonia, mettendo in voi e in loro amore ed affettuosità”. Secondo la tradizione quacchera tutti i testimoni del matrimonio hanno firmato il certificato. “La sua presenza al nostro matrimonio è stata una vera ispirazione. Ha aperto gli occhi a molta gente sulla possibilità di essere gay e musulmani senza nascondersi” dice J. C., avvocato. Il suo partner, M. Q., un grafico, aggiunge che incontrare Abdullah lo ha aiutato a riconnettersi con una fede che pensava non lo avrebbe mai accettato. Con la presenza dell’imam il loro matrimonio è diventato una cosa molto più grande di loro. “All’inizio pensavo ‘Wow, può esistere un imam gay?’. L’imam Daayiee offre speranza a molti” conclude M. Q.
Testo originale: Imam Daayiee Abdullah welcomes gay Muslims to worship, marry