Un Ramadan queer col mio vecchio Corano
Riflessioni* di Lamya H** pubblicate sul sito del trimestrale Tanqeed (Pakistan) nel dicembre 2014, liberamente tradotte da Giacomo Tessaro
Esco dal bagno e la vedo sfogliare il mio Corano. Stiamo facendo l’iftar [la rottura serale del digiuno durante il mese di Ramadan, n.d.t.] nel mio minuscolo appartamento newyorkese, noi due sole. Il difficile è fatto – cucinare all’ultimo momento, lo stress degli aromi del cibo durante le ore di digiuno, sparecchiare – e ora stiamo oziando sul mio divano con una ciotola di frutti di bosco. Faccio una capatina in bagno per non più di due minuti e, quando esco, eccola che sfoglia il mio Corano, quello che possiedo dai tempi del liceo, con le sue pagine consumate, le sue orecchie, le sottolineature e i commenti a matita. Guardare a quel Corano è un po’ come guardare quello che sono stata: l’epoca in cui ero ossessionata dall’idea di parlare con Dio, in cui ripetevo e sottolineavo in giallo tutti gli ʾadʿiyah [invocazioni, n.d.t.]; le pagine verso la fine, con le surat [capitoli, n.d.t.] che ho memorizzato, più sgualcite, più vissute; le parole sottolineate, che faccio fatica a capire appieno. Il complicato progresso della mia fede.
Devo essere visibilmente nervosa perché si ferma mentre sta voltando pagina.
“Niente in contrario se gli do un’occhiata?”
“No, certo che no” mi trovo a dire, perché… be’, perché lei mi piace molto, questa donna bella e brillante che sta qui, nel mio appartamento e, di tutte le cose che potrebbe fare, sta sfogliando il mio Corano.
A un certo punto si ferma. “Le sottolineature blu cosa vogliono dire?”
Esito a risponderle. L’Islam per me è una cosa del tutto personale ed è sempre stato difficile parlarne con chi sa che sono queer e con chi non ha il medesimo legame con la religione.
“Quelle sono le ayat [versetti, n.d.t.] che mi hanno detto qualcosa quest’anno.”
Si sistema meglio sul divano e legge il versetto sottolineato in blu che stava osservando mentre io mi mordicchio un’unghia nell’attesa. Quando ha finito mi guarda e le sfugge una semplice domanda: “Perché?”.
Be’, è una storia lunga. La storia di un gruppo di musulmane queer che in questo Ramadan si rifiutano di scindere le loro identità. Un gruppo di musulmane queer stufe di sentirsi fuori posto nelle moschee delle loro città, ma anche stufe di sentirsi stufe, stufe di aspettare che qualcosa cambi.
È cominciato tutto con un’idea ambiziosa: creiamo il nostro spazio, leggendo il Corano e rompendo il digiuno ogni giorno. I dettagli tecnici, tuttavia, si sono rivelati ardui da affrontare: dove faremo tutto questo in maniera intima ma anche accessibile, in questa città di grandi distanze e piccoli appartamenti? Come faremo a trovare il tempo nelle nostre giornate già così occupate? Cosa faremo da mangiare? Ma la cosa più difficile, ovviamente, è il come. Come ci avvicineremo al Corano? Come potremo fare spazio ai rapporti molto vari che abbiamo con la fede, con il trauma rappresentato, per alcune di noi, dalle interpretazioni più classiche? Come affronteremo questo testo e la voluminosa mole di tafsir [interpretazione, n.d.t.] che nessuna di noi ha studiato a fondo, secoli di esegesi che non sempre hanno qualcosa da dirci? Come leggeremo questo testo, che ci hanno insegnato a leggere attraverso le letture degli altri?
Abbiamo finito per trarre ispirazione da un laboratorio chiamato “Queering the Quran” (Leggere il Corano con la lente queer) tenutosi al ritiro dei musulmani LGBTQ, a cui alcune di noi hanno partecipato. Il moderatore del laboratorio, un caro amico, fa notare come a volte ci facciamo un feticcio del contesto originale del Corano: forse che il contesto non può essere l’oggi? E se lo leggessimo attraverso una lente personale, una lente che presuppone che Dio parla a noi qui, in questo istante? Questo metodo non vuole svalutare la nostra esperienza vissuta, né l’interrelazione della cultura e del contesto con l’interpretazione del testo; riconosce che certi versetti sono usati in senso oppressivo, ma va oltre. E così leggiamo. Di solito non più di un versetto o due al giorno. Leggiamo ad alta voce le varie traduzioni in inglese, talvolta ascoltiamo la recitazione in arabo e poi ci fermiamo alcuni minuti per raccogliere le idee e scriviamo le nostre riflessioni prima di discuterne. Ci stupiamo. Leggiamo attentamente, analizziamo, raccontiamo storie. Diamo voce al nostro disagio, talvolta alla nostra paura. Ammiriamo la bellezza. Dopo mangiamo, parliamo delle nostre giornate, chiamiamo su Skype le persone che non possono essere con noi fisicamente. Giochiamo a mafia [gioco di società, n.d.t.], ci accompagniamo l’un l’altra all’ospedale. Diventiamo amiche e creiamo una nostra famiglia.
Mentre costruiamo intimità e fiducia ci rifiutiamo sempre di più di glissare sui versetti difficili. Durante un iftar verso la fine del Ramadan il dubbio su quale versetto leggere aleggia nella stanza e il silenzio diventa più lungo del solito, così me ne esco con un’ayah che mi ha sempre causato problemi: “Le vostre spose per voi sono come un campo. Venite pure al vostro campo come volete, ma predisponetevi; temete Allah e sappiate che Lo incontrerete. Danne la lieta novella ai credenti!” (2:223). Questo versetto è considerato più o meno misogino a seconda delle traduzioni. Cadiamo in un cupo silenzio. Ci pesa, questo versetto.
Piano piano arrivano le risposte. Il contesto storico, dice con cautela una delle amiche, che descrive eloquentemente la nostra tendenza a mettere al centro di tutto la nostra esperienza del mondo, che quel versetto poteva voler dire qualcosa di diverso nel tempo e nel contesto particolari in cui fu rivelato, che poteva risultare rivoluzionario rispetto al modo in cui le donne venivano trattate prima.
Qualcuna contesta: “Ma il Corano ci dice di essere universale rispetto allo spazio e al tempo. Come la mettiamo con la tua interpretazione?”.
“E come la mettiamo con i modi concreti con cui questo versetto è usato per giustificare la violenza contro le donne?”
“Non necessariamente un versetto ha qualcosa da dire a chiunque e in qualsiasi epoca. In tutta la nostra esperienza quotidiana prendiamo e scegliamo ciò che ha qualcosa da dirci; perché non applicare questo filtro all’esperienza religiosa?”
E poi una voce tranquilla: “E cosa fare in quei giorni in cui queste giustificazioni non bastano?”.
La domanda ci zittisce, ci blocca. Qualche minuto e qualcuna dice, aspetta un po’. Perché vogliamo sessualizzare questo versetto? Vogliamo unire il cliché del gettare il seme con la metafora del campo? Questo campo è forse un luogo dove coltivare le emozioni piuttosto che l’atto sessuale? E se Dio ci stesse dicendo di concepire le nostre relazioni come dei campi, come qualcosa che richiede il nostro sforzo per fornirci nutrimento e crescita emotivi? Il suono dell’adhan [il richiamo alla preghiera, n.d.t.] esce da un telefonino. È una spiegazione confortante su cui fissarsi, un buon modo di finire.
Tutto ciò lo dico a questa donna, qui nel mio appartamento, che sfoglia il mio Corano. Questo è il contesto nel quale sono venuta a contatto con l’ayah sottolineata in blu che ha appena letto. Le racconto come, il giorno dopo, avessi acceso il mio iPod durante il lavoro per evitare la grande stanchezza dell’interagire con la gente durante il digiuno. Mi misi ad ascoltare il Corano per riempire il vuoto e per caso mi imbattei in questo versetto. Questo versetto che mi lascia senza parole e senza fiato, che riconosce le incertezze inerenti all’interpretazione, si schiera contro il letteralismo e ci ricorda di utilizzare il nostro giudizio. Una risposta.
“È Lui che ha fatto scendere il Libro su di te. Esso contiene versetti espliciti, che sono la Madre del Libro, e altri che si prestano ad interpretazioni diverse. Coloro che hanno una malattia nel cuore, che cercano la discordia e la [scorretta] interpretazione, seguono quello che è allegorico, mentre solo Allah ne conosce il significato. Coloro che sono radicati nella scienza dicono: “Noi crediamo: tutto viene dal nostro Signore”. Ma i soli a ricordarsene sempre, sono i dotati di intelletto.” (3:7)
Dico tutto ciò a questa donna che ascolta rapita, mi pone sfumate domande e fa battere più veloce il mio cuore pieno di clichés. È un immenso salto di fede. La cosa più intima che abbia mai fatto.
* I passi coranici sono tratti dalla versione UCOII di Hamza Roberto Piccardo.
** Lamya H è una scrittrice queer musulmana che vive a New York.
Testo originale: A Very Queer Ramadan