“Una donna fantastica” di Sebastian Lelio
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Scheda di Luciano Ragusa proposta durante il cineforum del Guado di Milano il 11 Marzo 2018
Transessualismo e Transgenderismo al cinema. La traccia cinematografica inerente alla rappresentazione di personaggi transessuali e transgender, non differisce, in linea generale, dal percorso carico di stereotipi già evidenziato per lesbiche e gay in un altro contesto (si veda la scheda: «Quando il cinema diventa analisi sociale»).
Le diversità sessuali, il cross-dressing, le differenti identità di genere, sono state, per lo meno fino agli anni ottanta, espedienti filmici utili a veicolare caducità mentale, depravazione, violenza e illegalità. Ai cineasti e produttori, salvo casi particolari come A qualcuno piace caldo (1959), La dolce vita (1960) ed Europa di notte (1958), mancò la forza di proporre una visione che interrogasse i cliché tradizionali, allineandosi ad una fenomenologia del diverso sempre e comunque moralmente squalificante. Solo a partire dagli anni novanta, con un itinerario nonlineare, aduso a cascare nei “soliti sospetti”, i registi si sono posti il problema di raccontare storie che coniugassero stili di vita LGBT e ricerca della felicità, integrazione sociale e parità di diritti (cf. schede «L’omosessualità nel cinema italiano dagli anni 50»).
Da qualche anno, sia il grande che il piccolo schermo (si veda ad esempio la scheda su Transparent), propongono al pubblico vissuti transgender e transessuali dove nulla viene malamente semplificato, raggiungendo esiti squisitamente cinematografici di altissimo livello. Ricostruire trame, elenchi di film in cui sono presenti personaggi che appartengono alla galassia “T”, è un’impresa che, in questa piccola introduzione, non è possibile affrontare. É invece lecito proporre alcune pellicole che, assunte arbitrariamente come modello, mostrano un processo di liberazione dai propri pregiudizi da parte della “settima arte”.
A spopolare, negli anni 60’, sono i thriller psicologici in cui la personalità multipla diventa oggetto privilegiato di indagine. Visto il grande successo di Psyco (H. Hicthcock, 1960), su cui non c’è nulla da eccepire, molti registi scelgono l’espediente della molteplicità psichica per arrivare a un giudizio morale a dir poco scorretto: in Homicidal (W. Castle, 1961), una giovane infermiera che si occupa di una donna anziana paralitica, si scoprirà essere il nipote della stessa, il quale, tra ambiguità sessuale, e l’eredità della vecchia signora, compie omicidi per raggiungere il suo intento. Nella pellicola, viene bocciata qualsiasi possibilità di identità sessuali diverse dalla norma, perché irrimediabilmente figlie di una cattiva educazione.
Il filone Fantasy Horror non si esaurisce con l’approssimarsi degli anni settanta, tant’è che nel 1971, in Inghilterra, compare un lungometraggio intitolato Dr Jekill and sister Hyde (R. Ward Baker), evidente trasposizione cinematografica del romanzo di R. L. Stevenson. Quello che infastidisce è l’intento di indagare le perversioni sessuali del protagonista, che da uomo, attraverso le sue pozioni, si trasforma in donna omicida. Fortunatamente, il film sopra citato, è poco rappresentativo di un decennio in cui, la sperimentazione cinematografica, non ha eguali (si veda la scheda sull’omosessualità nel cinema italiano dagli anni cinquanta ad oggi): nel 1975 appare Rocky Horror Picture Show” di Jim Sharman, opera senza paragoni per la trattazione a trecentosessanta gradi di tematiche sessuali; nel 1970 compare in cartellone Il primo uomo diventato donna di Irving Rapper , in cui si racconta la storia vera di Gorge Jorgensen, che negli anni cinquanta, diventò Christine; infine, malgrado meriterebbe una trattazione a parte per via della sua complessità, va citato Un anno con 13 lune di Rainer Werner Fassbinder (1978), nel quale si raccontano gli ultimi giorni di vita di una transessuale.
Giunti gli anni ottanta ci si aspetterebbe una certa elasticità nella comprensione delle tematiche LGBT, ed invece, quasi magicamente, si torna indietro: ricompaiono travestiti e transessuali spietati assassini, come in Sleepaway camp (M. A. Simpson, 1983), oppure Vestito per uccidere (B. De Palma, 1980), pellicole in cui si evince la difficoltà dell’establishment cinematografico di capire come si possa vivere un’identità di genere, o un orientamento sessuale diverso da quello “etero”, senza che ciò implichi spargimenti di sangue. Solo nel 1986, in un film per la TV americana firmato da Anthony Page, viene introdotto il tema della parità dei diritti: in Una seconda opportunità si raccontano le vicende Renee Richards, una transessuale operata che, nel 1976, vince una causa per partecipare come donna ai tornei di tennis di tutto il mondo.
Arriviamo così agli anni novanta nei quali, il grande schermo comincia a parteggiare positivamente per la comunità LGBT: lungometraggi a tematica “T” si moltiplicano, sia in numero che in qualità, a tal punto che alcuni di essi andranno a fissarsi nell’immaginario cinematografico di tutti noi. La moglie del soldato (N. Jordan, 1992), Come una donna (C. Monger, 1992), Priscilla, la regina del deserto (S. Elliot, 1994), A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (B. Kidron, 1995), Stonewall (N. Finch, 1995), Different for Girls (R. Spence, 1996), La mia vita in rosa (A. Berliner, 1997), Boy don’t cry (K. Peirce, 1999), Flawless (J. Schumacher. 1999), Tutto su mia madre (P. Almodovar, 1999), sono classici che, in tutto il mondo, hanno aiutato il dibattito pubblico a schierarsi contro la transfobia e per le rivendicazioni di uguaglianza.
I buoni presupposti nati sul finire del vecchio millennio vengono traghettati nel nuovo, dove, ogni sfumatura relativa alla vita delle persone “T”, viene indagata con sempre più crescente rispetto, senza tralasciare nulla delle condizioni attorno al quale ruota la loro vita, negative o positive che siano. Sono circa cinquanta, ad oggi (ma la ricerca è sicuramente incompleta), i film, i documentari, le serie in cui concorrono protagonisti transessuali e transgender. Un elenco enorme che non possiamo certo riportare qui, dove ci limiteremo a segnalare alcune pellicole di valore incontrovertibile.
La prima segnalazione riguarda Dallas Buyers Club (J. M. Vallée, 2013), in cui spicca il personaggio di Rayon, che valse a Jared Leto un Oscar per la categoria Miglior Attore non Protagonista; Transamerica (D. Tucker, 2005), con una strepitosa Felicity Huffman, candidata all’Oscar e vincitrice del Golden Globe per la Miglior Attrice in un film drammatico; Tomboy (C. Sciama, 2011), che racconta la vita di una bambina che si finge maschio agli occhi dei coetanei.
Vince numerosi riconoscimenti internazionali, tra i quali, il Torino GLBT Film Festival e il Teddy Awards; Kinky Boots – Decisamente diversi (J. Jarrold, 2005), dove il proprietario di una fabbrica di scarpe, per salvare l’azienda, decide di produrre stivali per drag queen e transessuali; The Danish Girl (T. Hooper, 2015), ispirato alle vite dei pittori danesi Lili Elbe e Gerda Wegener. Tra i tanti premi vinti spicca l’Oscar come Miglior Attrice non Protagonista ad Alicia Vikander.
Una donna fantastica
La pellicola, scritta diretta e prodotta da Sebastian Lelio, è stata presentata in anteprima e in concorso al Festival di Berlino 2017, dove vince l’Orso d’Argento per la migliore sceneggiatura, il Teddy Award per il miglior film straniero, e la Menzione speciale Premio della giuria ecumenica; nel gennaio 2018 si aggiunge il Premio Goya per il Miglior film in lingua spagnola. Esce nelle sale cinematografiche cilene nel mese di aprile 2017, mentre in Italia, arriva nell’ottobre dello stesso anno. Il film, selezionato per rappresentare il Cile nella categoria Miglior Film in lingua straniera, vince, il 4 marzo 2018, il meritato Oscar, completando un percorso straordinario.
Trama
Venti sono gli anni che separano la giovane Marina dal suo amato Orlando, il quale, una sera, a causa di un improvviso malore, viene trasportato d’urgenza al pronto soccorso dove poco dopo muore. Dietro Marina cominciano a serpeggiare maldicenze e calunnie, fino a sospettarla di essere la causa della morte dell’uomo. La difficile elaborazione del lutto viene complicata dal divieto di partecipare al funerale di Orlando, oltre ad un rapido invito a lasciare l’appartamento in cui i due vivevano. Perché tanta violenza? Marina è una donna transessuale, condizione inaccettabile per la famiglia di Orlando.
Un tram che si chiama “turbamento”
Il personaggio tratteggiato da Sebastian Lelio, e splendidamente interpretato da Daniela Vega, non è, come si evincerebbe dal titolo, un’eroina d’acciaio che avanza senza macchia contro le avversità della vita. Marina è fantastica nella misura in cui, di volta in volta, è chiamata ad affrontare le proprie fragilità. I turbamenti provocati dal lutto di Orlando, e da una società borghese vistosamente schierata contro di lei, la costringono a salire su un tram al di sopra del quale, di fermata in fermata, sceglie di percorrere un altro pezzo di tragitto; fino al capolinea, rappresentato dal pieno rispetto per se stessa e per l’autenticità forte della propria relazione amorosa.
Più volte presa dalla tentazione di mollare tutto (il film comincia con una fuga), di desistere dall’intento di far valere i propri diritti di compagna riconosciuta, Marina intraprende la sua personale scalata fino a respirare l’aria rarefatta, ma più pulita, dei sentimenti veritieri. Una condizione psicologica complessa dunque, che trova pieno compimento nell’aria «Ombra mai fu», tratta dal Serse di Händel, cantata dalla protagonista, dove la potenza della musica infrange tutte le regole, comprese quelle dell’identità sessuale.
Scheda
Regia: Sebastian Lelio.
Sceneggiatura: Sebastian Lelio, Gonzalo Maza.
Genere: drammatico.
Montaggio: Soledad Salfate
Fotografia: Benjamin Echazarreta.
Musiche: Matthew Herbert.
Paese di produzione: Cile, Spagna, Germania, Stati Uniti d’America.
Casa di produzione: Fabula.
Produttore: Juan de Dios Larrain, Pablo Larrain, Ponzalo Maza, Sebastian Lelio.
Produttore esecutivo: Mariane Hartade, Rocio Jadue
Distribuzione Italia: Lucky Red.
Scenografia: Estefania Larrain.
Anno: 2017.
Durata: 100 minuti