Una lenta primavera gay sboccia nel cinema arabo
Considerazioni di Pier del 26 aprile 2013 pubblicate sul blog Il grande colibrì
Quanto sia stato importante il cinema e lo spettacolo per l’accettazione dell’omosessualità in Occidente non lo si ripete mai abbastanza. E allora è lecito sperare che qualcosa di analogo possa accadere anche nei paesi a maggioranza musulmana. Quest’anno il Torino GLBT Film Festival “Da Sodoma a Hollywood” ha dedicato a questo tema un’interessante carrellata di film, riuniti nella sezione “Mezzaluna rosa”, ed una piccola tavola rotonda, coordinata dallo scrittore Alessandro Golinelli. A questo incontro hanno partecipato il belga Guy Lee Thys, che al festival ha presentato il suo “Mixed Kebab”, il regista arabo-inglese Basil Khalil (“Non ho mai parlato di omosessualità nei miei film e non penso che lo farò in futuro, mi occupo di altri temi”) e Farian Sabahi, docente di Storia dei paesi islamici a Torino.
La rassegna ha presentato, oltre a film occidentali, a volte pieni di stereotipi ed equivoci, come “Mixed Kebab”, anche opere di registi orientali, come l’iraniano “Facing mirrors” di Negar Azarbayjani o il libanese “Out loud” di Samer Daboul, e documentari che hanno dato voce direttamente agli omosessuali marocchini (“I am gay and Muslim” dell’olandese Chris Belloni) e a quelli perseguitati in Palestina dalle famiglie e in Israele dalla polizia (“The invisible men” dell’israeliano Yariv Mozer, che racconta la storia di Abdu Rawashda, intervistato da Il grande colibrì). “I film occidentali non cambiano granché la cultura dei paesi musulmani” ha spiegato Khalil. Concorda anche Sabahi: “E’ importante che si producano e che vengano distribuiti film su questi temi anche in questi paesi, anche a costo di fare concessioni alla censura”.
Produrre film che parlino di sessualità, infatti, è molto difficile nei paesi islamici, come denuncia Khalil: “La censura è sempre più severa e bisogna essere davvero creativi per aggirarla”. Se alcuni registi, rischiando il carcere, cercano di gabbare le autorità di controllo anche depositando sceneggiature fasulle che poi non seguiranno, di solito il cinema arabo si limita ad alludere alla diversità sessuale senza parlarne esplicitamente.
Anche se la paura della censura a volte può essere eccessiva, come dimostra un episodio raccontato da Guy Lee Thys: “Volevamo girare la scena dello hammam, dove due uomini si massaggiano, in Belgio, perché pensavamo di non poterlo fare in Turchia. Invece i proprietari degli hammam belgi, tutti di origini maghrebine, non ci hanno dato l’autorizzazione e abbiamo girato in Turchia senza problemi”.
L’episodio dimostra anche le differenze sorprendenti tra le comunità musulmane nei paesi islamici e quelle presenti in Europa, che spesso risultano più arroccate in un’interpretazione dogmatica e tradizionalista dell’Islam, anche per difendersi (nel modo peggiore) alla chiusura ostile che incontrano nel Vecchio continente. Come racconta Sabahi, pur in modo sommario, “una tipica famiglia musulmana a Teheran iscrive i figli a corsi di informatica o a scuole di equitazione, mentre in Europa li manda a studiare il Corano”. D’altra parte, chi è solito visitare un paese a maggioranza musulmana è abituato a vedere le donne immigrate che, tornando nel paese di origine, si chiudono qualche minuto nel bagno dell’aereo per indossare il velo. Tutte scelte e gesti che meriterebbero riflessioni complesse.
Intanto in Medio oriente e in Africa settentrionale, grazie soprattutto a Internet e alle televisioni satellitari, le informazioni sull’omosessualità circolano sempre di più. Con effetti ambigui: “E’ vero che le persone nei paesi arabi non hanno mai avuto così tante notizie, conoscenze e modelli di riferimento, ma è altrettanto vero che la maggiore visibilità delle idee e delle forze laiche sta spingendo i tradizionalisti religiosi a diventare sempre più compatti, a combattere con sempre più forza” spiega Khalil. Sabahi aggiunge: “Come spiega bene il documentario di Belloni, il problema non sembra essere tanto la religione, quanto la cultura e soprattutto il clima familiare, spesso caratterizzato dall’ipocrisia”.
In definitiva quale sarà l’eredità che le persone LGBTQ potranno trarre dalle primavere arabe? Il loro futuro nei paesi a maggioranza musulmana sarà più rosa o più nero? Gli ospiti della tavola rotonda torinese rispondono con un ottimismo non troppo convinto. “Probabilmente le primavere arabe avranno un esito positivo tra qualche anno” ha detto Sabahi, aggiungendo che “il metro per giudicarle è il rispetto delle donne e delle minoranze religiose, etniche e anche sessuali. E questo rispetto ancora non c’è”.
Khalil parte invece da un esempio: “Una tv libanese trasmette una serie di sketch che ha come protagonista una coppia gay. E’ una serie che ha molto successo e questo è significativo, anche se si tratta di una rappresentazione comica e ricca di stereotipi.
Ecco, io penso che tra dieci anni anche le televisioni degli altri paesi avranno programmi simili e magari tra venti o trent’anni inizieranno a presentare figure positive e serie di omosessuali. I cambiamenti ci sono e sono positivi, ma sono anche molto lenti…”