Una notte al Getsemani: che fatica non sentirsi mai abbandonati!
Riflessioni di Giuseppe M. del Progetto Giovani Cristiani LGBT
Quale uomo non ha mai sperimentato l’esperienza della solitudine? Quel momento di estrema sofferenza, in cui ci mancano persino le parole per poter raccontare quello che stiamo vivendo, e in cui anche se le trovassimo, non avremmo nessuno a cui rivolgerle?
E Gesù… avrà mai provato nella sua esistenza terrena la sofferenza che a volte la vita riserva a noi? E solo vero Dio o anche vero uomo? E “solo” il Figlio di Dio o è anche veramente uomo? Conosce le cose “da dentro”, così come le conosciamo e viviamo noi “umani” o no?
Il Venerdì Santo ci racconta che Gesù conosce benissimo l’ora buia della solitudine e dell’angoscia, che sa cosa si prova quando non ci si sente compresi da nessuno, quando si è profondamente soli. Ha vissuto anche Lui il suo Getsemani.
C’è un Getsemani fuori dalla città vecchia di Gerusalemme, sul Monte degli Ulivi.
C’è un Getsemani dentro la nostra camera, di sera, quando a fine giornata la nostra vita si è alleggerita e restiamo da soli, a contatto con i nostri bisogni più profondi, che a volte non abbiamo decifrato fino in fondo neanche noi.
C’è un Getsemani grande quanto una vita, nell’animo di tanti ragazzi e ragazze omosessuali, che ancora non riescono a rispondere al “Vieni fuori” di Cristo e non hanno nessuno a cui confidare il motivo del proprio malessere.
C’è un Getsemani nel nostro cuore quando non ci sentiamo amati come vorremmo, anche se magari chi ci ama ci sta mettendo tutto se stesso.
C’è un Getsemani che cresce rigoglioso in noi quando ad ogni “Come stai?”, accumuliamo rabbia e rancore, perché ci aspettiamo che chi ce lo chiede sappia già tutto -“Sto male”- e che ci dica le precise parole di cui abbiamo bisogno, come se fossero il frutto di un nostro dettato immaginario.
Cosa proviamo a fare in quei momenti, prigionieri dei nostri Getsemani? Quello che ha fatto Cristo: chiedere supporto agli amici più cari. Gesù nel suo orto degli ulivi ha chiesto compagnia a Pietro, Giacomo e Giovanni. Che, come sappiamo, si sono addormentati. La solitudine di Cristo non è stata dunque lenita da nessuno.
Gesù ha sperimentato l’angoscia più tremenda della sua esistenza: la paura della morte, la paura della sofferenza, la disperazione. Ed è stato così grande questo dolore che ha provato dentro di sé, che ha sudato sangue: in medicina si chiama ematoidrosi la manifestazione particolarissima in cui la tensione interiore fa rompere i capillari, mentre il sangue si mescola col sudore. Il Vangelo non censura affatto l’angoscia di Cristo.
Gesù conosce tutto ciò, per questo può comprendere la nostra sofferenza.
Soltanto chi ci è passato può capire l’inferno, e Cristo per amore nostro ha attraversato questo inferno; non lo ha fatto con gli effetti speciali della “divinità”, ma con tutta la fragilità e la debolezza del suo essere veramente uomo.
Per rendersi solidale con la nostra sofferenza non ha deciso di spiegarcela. Ha deciso di caricarsi di quella sofferenza, di viverla in prima persona.
Allora Lui sa come si sente un uomo o una donna quando non trovano vie d’uscita.
Conosce quei momenti bui in cui ci sentiamo soli, in cui non troviamo più le parole, in cui anche gli amici, le persone che ci vogliono bene si sono addormentati, o semplicemente non hanno gli strumenti per esserci accanto.
È ogni notte quella del Venerdì Santo: la notte di un amore che si frantuma, la notte di una perdita irreparabile, la notte di chi scopre che le cose si rovinano e non corrispondono mai al nostro desiderio di infinito…
L’uomo-Dio ha avuto paura, per questo tutti gli uomini possono avere paura.
Cristo non ha eliminato la paura, ma ci ha permesso di abitarla.
Non ci ha liberati dalla paura, ma ci ha liberati dalla paura di avere paura.
Non a caso l’invito più frequente di Dio quando entra nella storia è “non temere”. Nella Bibbia l’espressione è presente ben 365 volte, una per ogni giorno dell’anno. E perché mai non dobbiamo più temere? È fondata questa rassicurazione?
In quella notte, Cristo si trova faccia a faccia con il Padre, e lo chiama come nessun ebreo ha mai fatto, col nomignolo affettuoso dei bambini: “Abbà” cioè Babbo, Papino.
L’espressione è talmente importante per i cristiani che si è conservata intatta nella sua forma originaria: “Abbà”.
È raro che nel Nuovo Testamento le espressioni aramaiche non vengano tradotte in greco e proprio dove questo non è accaduto, è rimasta come “registrata” la voce di Gesù, che chiama Dio papino.
Tale scelta linguistica invita anche noi ad avere con Dio un rapporto come quello di un bambino con il suo papà, che dice “papà” e dice “babbo” e che usa cioè espressioni che evocano affetto e calore, qualcosa che ci proietta nel contesto dell’età infantile: l’immagine di un bambino completamente avvolto dall’abbraccio di un padre che prova infinita tenerezza per lui.
“Abbà” mi hanno abbandonato tutti, mi resti solo Tu.
Gesù può dirci che non dobbiamo temere nulla, perché ha parlato con Abbà: “ho paura di morire -gli ha detto- ma non sia fatto quello che voglio io, ma quello che vuoi tu”.
“Signore io non capisco perché sto vivendo questo. Non capisco perché sono arrivato a questo punto. Non capisco perché non trovo vie di uscita. Se puoi cambia. Tu puoi cambiare tutto, tu puoi risolvere tutto, tu puoi liberarmi dall’angoscia. Però non fare secondo quello che penso io. Accada secondo quello che è la Tua volontà, perché io so che la tua volontà è sempre meglio di quello che io penso. Nella tua volontà c’è il vero bene per la mia vita”.
“Non so come prenderai sul serio la mia preghiera, ma sono certo che lo farai. È questo l’importante. Non è importante che io me ne accorga, o che si faccia secondo quello che io penso essere la maniera migliore. Ciò che conta è sapere che Uno che mi ama non rimarrà fuori da ciò che mi fa soffrire. Non sono capace di capire ciò che è meglio. Io penso sia questo, ma fai Tu perché tu puoi molto più di ciò che io capisco.”
Soltanto quando nella nostra angoscia troviamo il coraggio di pronunciare “Abba, Padre”, ci ricordiamo che se c’è un motivo per cui vale la pena vivere, anche una cosa difficile, anche il buio, la solitudine, l’angoscia… è perché abbiamo un Padre a cui possiamo raccontare tutto.
Solo nella nostra notte impariamo a dire Abbà, l’unico nome che ci salva dal buio, che spezza la nostra solitudine e ci raggiunge proprio lì dove ci sentivamo irreparabilmente soli e perduti, perché solo quella supplica radicale ci porta dritti nel cuore di Dio.
Di un Dio che è andato a manomettere proprio l’ingranaggio della solitudine dentro di noi, distruggendo la possibilità stessa del sentirci soli. La verità è che noi non siamo soli, anche quando ci sentiamo soli: questa è la novità del cristianesimo.
Ed è questa la fede che chiediamo a Dio di donarci, per poterla usare nei nostri Getsemani: saper disobbedire all’evidenza delle cose, saper applicare una logica più grande di quella, stringente, che abbiamo davanti ai nostri occhi; disobbedire alla bestemmia che ci fa disperare rispetto alla presenza del Padre e del suo amore nella nostra vita.