Una sola parola per l’Italia di oggi: vergogna!
Commento di padre Enzo Bianchi tratto dalla Stampa del 6 ottobre 2013
Ogni giorno incontrando uomini e donne, cittadini del nostro Paese, subito dopo il saluto accolgo le manifestazioni di sofferenza e di fatica nel loro mestiere di vivere quotidiano. Questo malessere e questa sofferenza si sono accentuati vertiginosamente negli ultimi anni, e di volta in volta emergono quale indignazione, protesta, rabbia, domanda su come e dove siamo finiti. Raramente si manifesta un sentimento che invece in me sovrasta tutte le altre reazioni: la vergogna.
Sì, io provo vergogna, la provo come uomo, e può darsi che la mia fede cristiana accentui questo sentimento, ma io la vivo semplicemente in quanto uomo.
E così «vergogna!» è quasi una litania che spontaneamente nasce dal mio cuore e a volte diventa anche esclamazione verbale in mezzo agli altri.
La vergogna è un’emozione complessa, connotata da valenze di diverso segno, ma – non dimentichiamolo – è un regolatore dei comportamenti umani, uno strumento per salvaguardare se stessi e la convivenza nella società. La vergogna è un’emozione sociale e relazionale, indispensabile per l’umanizzazione, o per lo meno per la pratica di azioni decenti. La vergogna è anche un deterrente che ci induce a vietarci atteggiamenti e azioni, appunto, vergognosi. Vergognarsi è un atto profondamente umano e, mi si permetta di dire, nobile.
Quando ci accorgiamo del male fatto, di essere colpevoli, di aver manifestato di fronte e in mezzo agli altri il male che ci abita, noi ci vergogniamo e il nostro volto è stigmatizzato dal rossore, dal desiderio di non essere visti in quel momento di epifania del nostro aver agito male. Per Darwin «il rossore in volto è l’espressione più specificatamente umana del volto».
Nella mia educazione, quando ero sorpreso a compiere ciò che è male, venivo avvertito con una severa parola: “Vergognati!”.
Ma oggi questo sentimento presenta molti segni di scomparsa: ci si vergogna di vergognarsi, e quindi si enfatizza proprio l’apparire, l’esibirsi, l’essere più presenti e l’accrescere la notorietà. Sicché anche il pudore, che coinvolge la responsabilità personale e agisce come segnale e freno onde evitare la vergogna, sembra venire a mancare.
Ultimamente più volte in interventi pubblici, orali o scritti, ho gridato semplicemente: «Vergogna! Vergogna!», e confesso che ho trasalito quando ho sentito questo grido sulla bocca di papa Francesco, raggiunto dalla notizia della nuova strage nel nostro Mediterraneo: centinaia di stranieri bruciati e affogati prima di raggiungere le nostre spiagge di Lampedusa. Vergogna!
Come cittadino italiano, come appartenente all’Europa, mi vergogno, perché io sono responsabile della loro morte; perché ormai i morti nel Mediterraneo, ai quali ho dedicato già sette anni fa un libro sull’accoglienza degli stranieri, sono più di 20.000, e questa ecatombe continua…
Vergogna perché continua a essere in vigore una legge che dichiara reato la clandestinità anche nel caso non sia stato commesso nessun crimine, e che addirittura ostacola i soccorsi dichiarandoli favoreggiamento: così gli immigrati vengono trattati come spazzatura e scarto da respingere e buttare a mare.
Vergogna per l’ipocrisia dei nostri governanti che, invece di assumersi le dovute responsabilità, conferite loro da noi cittadini che li abbiamo eletti perché governino con discernimento e giustizia, celebrano solo con retorica la loro omertà e la loro incapacità.
Vergogna per il cinismo che abbiamo lasciato crescere, anche quando si manifestava nella forma di un razzismo indegno di un paese che ha conosciuto l’emigrazione e il disprezzo verso i suoi emigranti.
Papa Francesco era andato a Lampedusa e aveva innalzato il suo grido, ma sono passati ormai tre mesi e nulla è cambiato. E noi con un “rifugiato” ogni mille abitanti, mentre in Svezia sono 9, in Germania 7, nei Paesi Bassi 4,5 –come fa notare sempre con passione civile Gian Antonio Stella –, vorremmo praticare addirittura i respingimenti, in violazione della Convenzione di Ginevra del 1951 e della stessa nostra Costituzione. Passeranno pochi anni e, finita questa emergenza, si istituirà «una giornata della memoria» per queste vittime e ci si chiederà: dov’eravamo noi italiani e i nostri governanti?
E a questa vergogna occorre aggiungere l’altra vergogna per la situazione che viviamo a livello politico nel nostro Paese. Si è giunti a parlare di pacificazione, là dove prima devono essere dette le parole giustizia, uguaglianza, legalità, senza il prevalere di interessi personali e di gruppi che contraddicono gravemente il bene comune. La declinazione della pace è doverosa e legittima quando è frutto della giustizia. Sì, la barbarie è avanzata a grandi passi nella nostra società e all’orizzonte continuano, senza troppi disturbi, manovre per una possibile tirannia in un assetto democratico debole.
Vergogna! Ma, ohimè, questa vergogna noi la ribaltiamo sugli altri, anziché patirla in noi stessi. La vergogna la facciamo provare agli altri: innanzitutto proprio agli immigrati e quindi ai poveri che bussano alle porte dell’occidente o vivono tra di noi. Colpevolizziamo e criminalizziamo il povero in quanto povero perché – come scrive Martha Nussbaum – «i poveri vengono abitualmente evitati e indotti a vergognarsi, vengono trattati come persone di scarso valore».
La loro povertà è stigma di una malattia contagiosa: criminalizzando una condizione personale (la clandestinità), chiediamo a molti stranieri di nascondersi, di vergognarsi, di scomparire. Senza accorgercene abbiamo assunto – dice papa Francesco – «la cultura dello scarto». Valgono ancora per noi le parole scritte da Henry Fielding in un memoriale del 1753: «La sofferenza dei poveri è notata meno dei loro reati, e per questo riduce la nostra pietà nei loro confronti.
Periscono di fame e di freddo in mezzo a noi, ma gli occhi dei benestanti li vedono soltanto quando chiedono l’elemosina, quando rubano e quando delinquono». Sì, come uomo e come cittadino provo vergogna!