Unioni omosessuali: Rifiuto? Misericordia? Riconoscimento?
Riflessioni di padre Pablo Romero B., S.J. pubblicate sulla Rivista dei gesuiti Mensaje n° 639, Santiago de Chile, giugno 2015, pp.14-18, liberamente tradotte da Dino
Quali “nuove parole” ci si potrebbe aspettare, in modo più o meno realistico, da parte del Magistero della Chiesa riguardo alla vita delle persone omosessuali? Ci troviamo a metà del Sinodo sulla famiglia. Nel mese di ottobre dell’anno scorso si è tenuta una prima riunione e al termine di essa sono state rese note le sue conclusioni nella Relatio Synodi. La riflessione continuerà almeno fino alla riunione di ottobre 2015 e per questo, come ha affermato il portavoce della sede apostolica, “è importante non sopravvalutare l’attuale testo”. Comunque rimane lo strascico delle discussioni, del documento e delle votazioni pubblicate in anteprima.
In particolare queste ultime mostrano una evidente mancanza di consenso, tra gli altri aspetti, su come affrontare la pastorale con persone omosessuali. Il testo finale non ha risposto alle aspettative di chi attendeva “parole nuove” rispetto a quanto è già stato detto su questo argomento, ed è facile pensare che di questo sia responsabile il terzo di vescovi che non si è trovato in accordo con la stesura dei paragrafi dedicati a questa pastorale.
Quali “parole nuove” ci si potrebbe aspettare quindi, con maggior o minor realismo, da parte del Magistero della Chiesa riguardo alla vita delle persone omosessuali? Credo che queste parole potrebbero riguardare due ambiti. Il primo è quello dell’atteggiamento. Molti si aspettano parole che tentino di esprimere in forma migliore i doverosi “rispetto, misericordia e delicatezza” che lo stesso Magistero proclama nel Catechismo della Chiesa cattolica (CCC) (n° 2357).
Alcuni lamentano la mancanza di affermazioni, peraltro indiscutibili da un punto di vista dottrinale, e che hanno questo tenore: “Gli omosessuali sono benvenuti nella Chiesa”, “Vogliamo ascoltarli”, “Essi non debbono provare vergogna per quello che sono”, “Hanno molti doni da elargire”. Di fatto sappiamo che molte di queste espressioni sono state discusse durante il sinodo, ma nessuna di esse è riuscita ad essere presente nel testo finale. Eppure esse farebbero un gran bene. E poi alcuni di noi sognano, in questa linea, che la Chiesa chieda perdono.
In questo campo da parte sua c’è stata negligenza pastorale e complicità nel provocare esperienze di omosessualità connotate dai toni cupi e dalla sofferenza. E infine si spera che vengano onorati quegli omosessuali che, pur in mezzo all’ostilità che la Chiesa dimostra, le sono rimasti fedeli ed hanno continuato a contribuire alla sua crescita. Da essi, tutti abbiamo da imparare.
L’altro ambito di “nuove parole” attese si riferisce direttamente al giudizio riguardo alle unioni omosessuali. E’ possibile dire qualcosa di più di quanto è già stato detto? E’ un’illusione pensarlo? Le prossime pagine di questo articolo hanno lo scopo di presentare ciò che è stato affermato fino ad oggi e, soprattutto, ciò che si potrebbe sperare venga detto in futuro.
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Ciò che è stato detto fino ad oggi: il rifiuto del Magistero
Credo che quanto affermato dal Magistero riguardo a ciò che chiama “atti omosessuali” sia noto a molti. E lo è sia per la sua chiarezza che per l’insistenza nell’essere ripetuto, usando praticamente le stesse parole in ogni documento degli ultimi quarant’anni. I concetti espressi dal Magistero possono elencarsi in vari punti: un giudizio nei confronti dell’atto, una giustificazione principale, altre giustificazioni rilevanti e un giudizio sulla colpevolezza. Di seguito presenterò una breve sintesi di tutto questo, come un ricordo di quanto già sapete:
a) Il giudizio nei confronti dell’atto omosessuale.
Non è mai stato manifestato alcun dubbio in qualsiasi documento del Magistero sul fatto che l’atto omosessuale “non possa in nessun caso ricevere approvazione” (CCC, n° 2357). La prima volta che tale atto venne inquadrato in questi termini è stata nella dichiarazione della Congregazione della Dottrina della Fede (CDF) del 1975 “Persona umana”, al punto n° 8. E in questo testo si aggiunge: “Non può essere usato alcun metodo pastorale che riconosca una giustificazione morale a questi atti”. La volta successiva è stata nella “Lettera sull’attenzione pastorale alle persone omosessuali” della stessa congregazione. Questa volta, nell’anno 1986, viene ripetuta la prima formula e nel punto n° 15 si specifica che “Nessun programma pastorale autentico potrà includere organizzazioni nelle quali si associno tra loro persone omosessuali, senza che venga stabilito in modo chiaro che l’attività omosessuale è immorale”. Nell’anno 2003, infine, in un contesto di discussione sul riconoscimento civile, la CDF ripeterà lo stesso giudizio.
b) La giustificazione principale
Si potrebbe dire che la principale giustificazione utilizzata dalla Chiesa per il rifiuto è stata la seguente: secondo l’oggettivo ordine morale, queste relazioni sono “atti privi del loro ordine necessario ed essenziale”, o sono “per la loro intrinseca natura, disordinati” (CDF, 1976, n° 8). E quale sarebbe questo ordine trasgredito? L’atto sessuale sarebbe orientato, per natura, alla procreazione e per questo esige complementarietà. Al contrario, l’attività omosessuale “non esprime un’unione complementare capace di trasmettere la vita, e pertanto contraddice la vocazione ad un’esistenza vissuta in quella forma di autodonazione che, secondo il Vangelo, è l’essenza stessa della vita cristiana” (CDF, 1986, n° 7). L’argomento del Magistero è quindi lo stesso utilizzato per rifiutare tutte le relazioni sessuali non aperte alla procreazione, anche se in questo caso il suo giudizio è ancor più negativo perché l’atto omosessuale esclude di per sè la possibilità di procreare.
c) La giustificazione derivante dalla continuità con la tradizione delle Scritture.
Il Magistero ha messo in risalto il fatto che si possa incontrare lo stesso rifiuto nel corso della tradizione della Chiesa e che quindi l’atteggiamento che essa mantiene venga a trovarsi in perfetta continuità con le Scritture. Anche quando si riconosca che, specialmente in riferimento a queste ultime, la Chiesa di oggi proclama il Vangelo ad un mondo molto diverso da quello antico, “esiste un’evidente coerenza nelle stesse Scritture riguardo al comportamento omosessuale” (CDF, 1986, n° 4).
Non si tratterebbe pertanto di frasi isolate delle Scritture, avulse dal loro contesto (concetto difeso da una parte considerevole dei teologi biblici), ma di una coerenza di giudizio presente in diversi passaggi dell’Antico e del Nuovo Testamento e che affonda le sue radici nella stessa teologia della creazione che troviamo nella Genesi: “Gli esseri umani sono, di conseguenza, creature di Dio, chiamate a rispecchiare, nella complementarietà dei sessi, l’unità interna del Creatore. Essi realizzano questo compito come se fossero un’unica persona, quando cooperano con Lui nel trasmettere la vita, mediante la reciproca donazione sponsale” (CDF, 1986, n° 6). Il Magistero ha inoltre rimarcato che questo stesso giudizio è presente in molti scritti ecclesiastici dei primi secoli e “è stato accettato unanimemente dalla Tradizione cattolica (CDF, 2003, n° 4).
d) Il giudizio riguardo alla colpevolezza.
Se il giudizio oggettivo riguardo all’atto omosessuale sembra chiaro, quale giudizio c’è riguardo alla colpevolezza personale? Nella dichiarazione della CDF del 1975 si fa una distinzione tra l’atto omosessuale oggettivamente contrario alla morale e la colpevolezza della persona. Quest’ultima, si afferma nella dichiarazione, deve essere “giudicata con prudenza” (CDF, 1975, n° 8), sebbene, come già segnalato, non debbano essere impiegati metodi pastorali che riconoscano una giustificazione morale. Nella lettera del 1986 si insiste sul rispetto, rimarcando però il concetto che non ci deve essere una giustificazione morale. Davanti ad una posizione giustificatrice che argomenta una mancanza di libertà e di alternative da parte della persona omosessuale, la CDF difende due cose, nel n° 11: non si deve generalizzare a partire da casi particolari -questi ultimi possono sia ridurre che aumentare la colpevolezza- e bisogna evitare la presunzione “infondata e umiliante” della mancanza di libertà.
Come possiamo vedere, il tono in cui è formulato il giudizio del Magistero concede poco spazio all’interpretazione. Anche quando in qualche dichiarazione si riconosce che la colpevolezza debba essere giudicata con prudenza, l’accento è posto sul fatto che queste unioni non possono in nessun caso essere giustificate da un punto di vista morale.
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La misericordia o l’unione omosessuale come “male minore”
Quando ci si riferisce a “nuove parole” a livello di dottrina, alcuni pensano che il richiamo ad un “giudizio prudente” riguardo alla colpevolezza personale debba aprire la strada ad una più decisa manifestazione di misericordia per quelle persone omosessuali che si sono unite in relazioni di fidanzamento e convivenza.
Questo invito alla misericordia affonda le sue radici nell’esperienza di aver conosciuto la sofferenza di persone omosessuali durante il loro percorso di vita, percorso che molte volte viene segnato da:
– un orientamento sessuale scoperto già in età precoce, che non è scelto nè voluto.
– un contesto sociale ostile all’omosessualità, con scherno, disprezzo e anche esclusione dal lavoro e maltrattamenti fisici a chi rivelava di essere omosessuale o ne era soltanto sospettato.
– un contesto ecclesiale in cui tutto questo si ripeteva: la stigmatizzazione, insistendo sul concetto che l’orientamento omosessuale era una “malattia”, i maltrattamenti fatti attraverso discorsi svilenti; e l’esclusione, stavolta ecclesiale, per chi rendesse pubblico il proprio orientamento, e ancora di più per chi decidesse di viverlo. Questo portava con se due “pesi” aggiunti: il carico religioso del “peccaminoso” e l’autorità di chi lo affermava.
– un contesto famigliare nel quale potevano ripetersi le stesse dinamiche, con aggiunta per il bambino-giovane-adulto omosessuale la sofferenza di non voler arrecare dolore alle persone che tanto amava.
– un’esperienza omosessuale che, nei contesti delle epoche passate, ha sopportato il peso della lotta contro se stessi, la solitudine, la doppia vita e il rischio.
Molti di coloro che chiedono più “misericordia” hanno ben presenti storie come queste o ancora più drammatiche, come quelle di adolescenti che hanno finito per suicidarsi. Da qui scaturisce una sana compassione che dice: “basta con tutta questa ingiusta sofferenza”.
D’altra parte,guardando il futuro scelto dal Magistero per ogni omosessuale, che è quello del celibato, molte persone lo riconoscono come un carico ingiusto e un’offerta di percorso irreale o per lo meno non valida per tutti. Pur giudicando il celibato come una vocazione, esso richiede strutture di appoggio per essere vissuto in modo sano e fecondo. Strutture che nè la società nè la Chiesa forniscono all’omosessuale.
Inoltre, l’esperienza del celibato presuppone una disposizione che non è di tutti. Pretendere il celibato per tutti sembrerebbe eccessivo ed escluderebbe dalla comunità ecclesiale una buona parte degli omosessuali. Osservando Gesù, che cercò l’inclusione degli emarginati del suo tempo, molti non possono accettare serenamente il rifiuto del Magistero verso tutte le unioni omosessuali.
Cosa significa allora la richiesta di “misericordia”? Oltre a “nuove parole” che esprimano un nuovo atteggiamento, come detto all’inizio, consiste nella speranza che a livello dottrinale si proclami che “non tutte le unioni omosessuali sono condannate e ingiustificabili dal punto di vista morale”.
E’ irreale aspettarsi che questo avvenga a breve o medio termine, tenendo conto delle dichiarazioni degli ultimi decenni? Non lo sappiamo. Una simile evenienza contraddirebbe varie affermazioni della CDF. E questo rende difficile che possa concretizzarsi a breve.
Ma non è impensabile un cambiamento di atteggiamento, che potrebbe realizzarsi ricorrendo ad altri principi di giudizio morale che hanno una lunga tradizione nella Chiesa, molto più di quelli evidenziati in queste dichiarazioni. Ne ricordo almeno tre che entrano in gioco:
a) La dottrina del male minore. Si può continuare a credere che tutte le unioni omosessuali sono di per sè qualcosa di indesiderabile. Ma se l’alternativa è un male più grande e intollerabile, come potrebbe essere una vita sessuale disumanizzante, o una solitudine psicologicamente non sopportabile, alcune unioni omosessuali, in particolare quelle monogame, potrebbero essere tollerate come “male minore” e non essere oggetto di condanna. Di fatto, nella dichiarazione della CDF che parla della colpevolezza soggettiva è sottinteso un concetto come questo appena espresso, dato che essa fa allusione alla “impossibilità di vivere la vita celibe”.
In realtà chiede di non “generalizzare i casi particolari”. La questione a questo punto sarebbe di vedere se stiamo effettivamente parlando di casi molto particolari o non piuttosto della situazione generale.
b) Il ruolo della coscienza. La precedente questione dei due mali in gioco, vista ora dalla parte della persona omosessuale che cerca di valutare quale sia la cosa migliore da farsi, ci porta a riconoscere l’importanza della propria coscienza. Di nuovo, anche quando l’omosessuale possa riconoscere che la vita omosessuale attiva non sia l’ideale, la sua stessa coscienza non potrebbe portarlo ad accettare queste relazioni soltanto a determinate condizioni?
In questo modo non diventerebbe responsabile della propria vita e del richiamo alla ricerca in essa del bene e della verità? Ricordiamo che il Concilio Vaticano II nella sua costituzione pastorale Gaudium et Spes rivendica il ruolo privilegiato della coscienza personale nella ricerca della verità (n° 16), anche per la propria dignità di persona (n° 17).
c) Eroismo non esigibile. Infine, la dottrina del male minore si aggancia ad un’altra chiave di giudizio morale che gode di lunga tradizione. Supponiamo che effettivamente il confronto tra questi due mali oggettivi possa portare alla conclusione che sia possibile una vita celibe, ma con un costo umano molto grande.
Davanti a ciò il Magistero certamente potrebbe perorare il valore del celibato per gli omosessuali, ma potrebbe forse pretenderlo per tutti come l’unica risposta morale corretta? Se così fosse,il celibato non sarebbe per molti una vera vita eroica e, anche se desiderabile, non esigibile?
Un atteggiamento “misericordioso” che si può chiedere al Magistero ecclesiale potrebbe andare in questa direzione, e come abbiamo accennato, si interseca con questioni difese dalla tradizione della Chiesa. Anzi, forse in occasione delle formulazioni future, basterebbe una diversa accentuazione che evidenziasse quello che la CDF del ’76 aveva affermato, ma ha avuto ritegno ad annunciare pubblicamente per non generalizzare: la relativizzazione della colpa soggettiva.
Avere misericordia non significa tacere un male compiuto, ma accogliere la fragilità umana. Ha a che vedere con il concetto che “non possiamo far tutto”, e che la morale traduce con “nel limite del possibile”. La compassione che accompagna questa misericordia non consiste nel distogliere lo sguardo da un certo gruppo umano o in un disprezzo della sua libertà.
La compassione è il collegamento con persone concrete e storie sacre che meritano un unico trattamento, a maggior ragione se molte di esse sono state marcate dalla sofferenza. Gli ultimi interventi del papato e la riflessione di moralisti e pastori che ci sono state negli ultimi decenni e che vanno in questa direzione, fanno sì che non sia un’illusione pensare a queste “nuove parole”.
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La speranza nel riconoscimento dell’amore omosessuale
Tutto quanto affermato finora, pur se necessario e benvenuto, risulta insufficiente per un’ampia maggioranza di donne e uomini omosessuali cattolici e non cattolici. E ancor più per coloro che hanno finito per accettare il loro orientamento sessuale con un sano orgoglio come parte della propria identità e di quello che sono invitati a condividere.
La lotta pubblica, che però in precedenza era già avvenuta all’interno della stessa persona, è stata giustamente quella di non concepire il proprio orientamento come un disordine che doveva essere represso, sublimato o, nel migliore dei casi, “tollerato”, ma come uno dei modi di provare sentimenti che contribuisce a realizzare la persona stessa in quanto tale. Qui non stiamo parlando di una caratteristica marginale di una persona, caratteristica di cui un eventuale giudizio valutativo è privo di importanza.
Nell’orientamento sessuale si esprimono desideri di accompagnare ed essere accompagnati, di essere contenuti e di contenere, così come di comunicazione, affetti e progetti di vita, e molte altre cose.
L’orientamento sessuale non si riduce al semplice piacere fisico. Pertanto, affermare che questo orientamento non è una cosa buona, significa riferirsi a tutto questo modo di sentire che rafforza la vita di questa persona dal suo profondo. Così, anche se sicuramente si possono fare distinzioni tra la condizione e l’espressione sessuale, la separazione fatta dal Magistero tra “ti accetto come persona”, e “ma la tua omosessualità è un male” o anche “tutti i tuoi atti omosessuali sono peccato”, per molti risulta una violenza, e credo a ragione. Alla fine, non c’è quindi una vera accettazione.
Del resto, il non riconoscere l’omosessualità come un bene si oppone ad una certa Etica del dono perché in questo modo si disconosce ciò che si è ricevuto. E’ come se non si riuscisse a comprendere che l’orientamento sessuale è una di quelle cose nella vita che semplicemente vengono ricevute. Secondo una certa cosmovisione laica, la sua origine sarebbe il caso o la “natura”.
Secondo la cosmovisione cristiana, l’origine dell’orientamento è Dio, sia perché “Egli ha voluto così” e anche perché “Egli invita ad accoglierlo come un dono”. Quest’ultima interpretazione ha ricevuto un importante appoggio quando la stessa Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) nel 1990 ha depennato l’omosessualità dall’elenco delle malattie.
Ma, anche se non lo avesse fatto, non è forse Gesù stesso nella sua praxi evangelica che invita a relazionarsi con il “ricevuto” in un modo affettuoso e amabile? E come afferma San Paolo, non siamo davvero invitati ad “inorgoglirci” nella nostra debolezza (2 Co 12, 19)? Piuttosto che chiedersi “dell’origine di questo” (dell’orientamento omosessuale, ndr), che è sempre misterioso, non è più importante pensare invece come esso possa essere “un’occasione affinché la gloria di Dio agisca” (Gv 9, 3)?
In ogni caso, l’amore per se stessi della persona omosessuale passa anche attraverso la stima e la gioiosa approvazione di questo modo di provare sentimenti. Non ci potrà essere accettazione di se stessi come un dono se non si riconosce che anche il proprio orientamento sessuale lo è. Per la maggioranza degli omosessuali questo processo è qualcosa di fondamentale.
A causa di esso si spiega che parte del processo evolutivo della persona omosessuale sia la rivendicazione “dell’orgoglio di esserlo”. L’espressione “sono omosessuale” diventa “sono gay”. Il termine è un anglicismo, in inglese “allegro”, e all’inizio si riferiva al modo di vivere “allegro” di coloro che esercitavano la prostituzione maschile. In seguito la parola fu adattata come acronimo di “Good as You” (buono come te).
Le due accezioni si riferiscono ad una rivendicazione pubblica della “allegria” o “orgoglio” di essere omosessuali che, contemporaneamente, diventa una missione di trasformazione culturale affinché si passi dall’omofobia all’apprezzamento della differenza e all’accettazione grata di ciò che la vita o Dio donano.
Allora, può forse essere visto positivamente un “modo di provare sentimenti”, una certa gamma di desideri, e non la loro realizzazione? Ipoteticamente, sì: quando questi desideri finiscono per produrre danno. Ma è questo il caso? L’OMS ha già chiaro che no. Ma in precedenza, sono stati gli stessi gay a sperimentare che in molti casi la vita vissuta in coppia, in particolare “con questa persona concreta” è stata un regalo, un dono di Dio, una manifestazione della cura, della predilezione, del fatto che “la mia vita per Lui è importante”, del concetto che “io sono qualcuno che può essere amato”, e occasione per dimostrare che la “mia” omosessualità può far felice un’altra persona ed essere espressione dell’azione dell’amore di Dio.
Questa è la convinzione di molti. Nessuno li può smuovere dall’idea che “questa persona”, “questa relazione”, “questi anni”, sono qualcosa da festeggiare, da ringraziare, sono cose di cui essere felici e che vogliono condividerlo.
Questa coscienza personale che il mio sentimento omosessuale è un’esperienza amorosa che “mi” ha nobilitato, reso felice e ha reso felici altre persone, contrasta in modo drammatico con la coscienza del Magistero che invece ritiene che sia un disordine oggettivo, che in essa non ci sia amore, che non faccia parte del piano di Dio. A questo punto non c’è altro che una frattura.
Ciò che per uno è stato parte della sua storia di salvezza, per l’altro è parte della sua disumanizzazione. Chi ha ragione? Per quanto “formata” possa essere la coscienza, per quanto si dica che essa non debba agire “autonomamente” e debba obbedire alla Verità, questa Verità si mostra in un luogo diverso da quello indicato dal Magistero. L’agire in modo degno consiste nell’agire in accordo con questa coscienza (Gaudium et Spes n° 17).
Ora, è vero che la convinzione personale richiede di essere confermata nella comunità ecclesiale. E questa inoltre giudica e riconosce se in un rapporto c’è amore. Perciò, nel suo esame può considerare la “natura dell’atto sessuale”, ma si deve fare attenzione che questa concezione non sia talmente ristretta da escludere da ciò che è ritenuto buono realtà complete della vita. Se si considera che è requisito essenziale di “ogni” atto sessuale l’apertura alla trasmissione della vita e pertanto la complementarietà genitale, è evidente che non ci sia spazio per l’atto omosessuale.
Ma se consideriamo l’atto sessuale in un progetto di fecondità che non si riduca alla procreazione, e consideriamo la complementarietà in un senso più completo, si aprono le porte per il riconoscimento della sua validità. Questo toglie forse naturalità all’atto sessuale? Credo di no. Riguardo alla fecondità-non procreativa, il Magistero non considera l’atto sessuale che avviene fuori dai periodi naturali di fertilità?
Non giudica forse positivamente anche l’atto sessuale di due persone che per età o per varie situazioni personali non sono in grado di procreare? E’ chiaro che, anche se una delle fondamentali finalità dell’atto sessuale è la procreazione, la sessualità umana per il suo forte senso simbolico va molto al di là di essa. In quanto alla complementarietà, è un requisito essenziale una complementarietà genitale? E cosa avviene con persone che a causa di un’invalidità non possono più realizzare questa complementarietà? Non possono forse manifestarsi affetto anche ricorrendo all’amore erotico nelle sue varie forme?
Alcuni diranno anche che l’atto sessuale presuppone una certa stabilità e anche che esige il matrimonio come progetto definitivo di unione. Bene, l’apertura al ritenere buone queste unioni ci sprona a ricercare le forme migliori di sostenerle.
In ogni caso, il giudizio della comunità ecclesiale deve considerare non soltanto una determinata concezione della “naturalità” delle cose, ma anche il racconto e la testimonianza delle persone. Non basta a giustificare moralmente un’azione il solo fatto che la persona che la realizza la creda buona, ma nemmeno si può dare un giudizio morale senza ascoltare l’interessato. E l’esperienza di molte comunità ecclesiali e di molte famiglie è quella di vedere come tante persone omosessuali che hanno fatto un percorso in coppia, non solo dicono di sentirsi amate e di essere cresciute, ma lo si capisce anche al solo vederle!
Le vediamo come se nella loro vita avessero trovato un tesoro e lo festeggiassero. Di solito inoltre, questo sentirsi amati le rende inclini ad una maggiore generosità e ricerca di condividere quello che stanno ricevendo gratuitamente. Non è raro che da qui desiderino anche lottare per i diritti di altri e in questo siano disposte a mettere a rischio la vita e la reputazione. E questi non sono forse dei segni che qui c’è amore? E’ ovvio, ma vale la pena ricordarlo, che non tutte le unioni omosessuali saranno unioni d’amore.
Proprio come avviene per le unioni eterosessuali, in esse possono prevalere rapporti di potere o di puro interscambio egoistico che disumanizzano la sessualità. A questo punto dobbiamo focalizzarci sul fatto che ci sono comunque molte unioni omosessuali nelle quali l’amore è davvero presente.
E’ realistico pensare ad un riconoscimento dell’amore omosessuale da parte del Magistero? Personalmente vedo tre grosse difficoltà perché questo possa avvenire, per lo meno nei prossimi anni. Da una parte vorrebbe dire retrocedere nel percorso tracciato negli ultimi anni in materia, e anche collocarsi in un paradigma di definizione dei fondamenti della morale diverso da quello impiegato nella questione sessuale. Questo non è impossibile, ma è un processo lento che richiede anche una rinnovata visione del valore della tradizione, dove ci possa stare anche l’evoluzione.
La Verità ci è stata rivelata, ma noi continuiamo a cercarla. Dall’altra parte probabilmente comporterebbe una tensione importante o una rottura con una parte della comunità ecclesiale che si opporrebbe a questo riconoscimento. A questo punto credo che ci voglia anche una rinnovata visione del ruolo del Magistero e del tipo di giudizi che esso dovrebbe impiegare pensando alla Chiesa universale.
Infine, presuppone una trasformazione interiore della Gerarchia, che comunque è lenta a realizzarsi. La Gerarchia infatti proviene da tutte le parti del mondo e in alcune di esse si sta ancora discutendo se l’omosessualità sia o meno un delitto. Questo condiziona molte opinioni e i processi di emancipazione risultano non solo molto lenti, ma anche molto diversi.
Così, quello che in molti speriamo succeda a livello del Magistero è che almeno inizi un cammino di affermazioni dal tono nuovo. Si sollecitano “nuove parole”, benché queste possano essere insufficienti e il debito rimanga ancora.
Parole che rispecchino un cambiamento di atteggiamento e un cambiamento nel modo di affrontare la questione. Nel frattempo, le comunità cristiane che hanno potuto conoscere il dono della vita che si fanno reciprocamente coppie di persone omosessuali continueranno a dare testimonianza della presenza dell’amore tra di loro.
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Testo originale: Uniones homosexuales: ¿Rechazo? ¿Misericordia? ¿Reconocimiento? (File PDF)