Che genere di Islam: le persone LGBT tra shari’a e nuove interpretazioni del Corano
Dialogo di Katya Parente con l’arabista e islamologa Jolanda Guardi
Oggi parliamo di un libro su musulmani e minoranze sessuali. A scriverlo è Jolanda Guardi, esperta di cultura araba e docente dell’università di Torino. Si intitola “Che genere di Islam: omosessuali, queer e transessuali tra shari’a e nuove interpretazioni” (editrice Ediesse, 2012, 206 pagine) e parla di un mondo che, di solito, noi occidentali riduciamo a dei cliché.
Perché in Occidente abbiamo una visione così monolitica dell’islam? Corrisponde a verità?
Le analisi sin qui fatte sulla stampa e dai media in generale presentano, a mio avviso, un difetto di partenza, ovvero partono per la disamina di quanto avviene in Medio Oriente dal paradigma hegeliano dell’ascesa dell’Occidente. Ciò significa che qualunque avvenimento abbia avuto luogo o ha luogo negli ultimi duecento anni in Medio Oriente, viene letto secondo un’opposizione con l’Occidente. Il discorso che vuole il Medio Oriente retrogrado, se non si uniforma a detto paradigma, si perpetua nel tempo, e perciò diventa vero.
Questo però fa sì che tutto ciò che non si conforma a questo modello dicotomico venga omesso dal discorso: alcuni commentatori addirittura esprimono scetticismo su eventi e posizioni che non si conformano a questo discorso, poiché mettono in discussione l’idea di un nemico da combattere, e costruiscono su questo la propria carriera. Un altro modo di esercitare la violenza, anche se non fisica.
L’atteggiamento è quello filologico, come ci ricorda un grande storico del Medio Oriente, Peter Gran. Tale atteggiamento, pur se messo in crisi già negli anni ’70 negli Stati Uniti, in Europa è ancora imperante e cioè: ciò che le persone dicono pensano e fanno è del tutto irrilevante, quel che conta è il passato, e l’essere attaccati ai testi nella conferma che un eventuale testo fornisce al discorso mainstream oggi, e cioè una visione di una cultura e di oltre un miliardo di persone come violente e sanguinarie. Ciò perché quello che viene proposto è un modello dicotomico, che oppone la modernità (intesa solamente come adottare il modello occidentale) al tradizionalismo (essere contro questa modernità). Chi non è a favore né contro è, secondo questo paradigma, fondamentalista, e viene incalzato da una richiesta a schierarsi ad ogni costo.
Sono convinta quindi che sia necessario dare spazio a diverse voci e narrazioni, per evitare che l’Oriente rimanga sempre l’oggetto di un sapere, pur approfondito, ma che rimane intrinsecamente orientalista, ossia in una sorta di sfera platonica che pretende di possedere la verità assoluta, ma che, cercando di cancellare quanto più possibile per arrivare a informazioni che escludono gli attori reali, diventa solamente una semplificazione astratta.
La parola chiave da tenere a mente è, al contrario, “complessità”: fino a pochi decenni fa il progresso, la modernità, l’umanità, venivano definiti per esclusione. Da qui restavano escluse diverse categorie di persone: le donne, gli omosessuali, i neri, gli animali, e così via. Tutti questi gruppi erano considerati non-umani, per così dire non erano “laureati” in umanità. Con la caduta delle colonie, la fine dell’apartheid, le lotte femministe, le lotte per i diritti delle minoranze, e persino il controdiscorso sul regno animale, questi gruppi sono entrati nel discorso, per continuare la metafora stanno per laurearsi in umanità.
Ma il gruppo dominate (bianco, occidentale, eterosessuale, patriarcale) se costretto, seppur a malincuore, a tenere conto di queste diversità dal suo modello esclusivo, diversità che lo rendono meno lineare e più complesso, cerca di definirsi ancora per esclusione. E allora ha bisogno di un nuovo abietto che, nel nostro caso, è la/il musulmana/o.
Ciò detto, per costruire un produzione diversa della conoscenza rispetto al Medio Oriente, credo sia necessario imparare le lingue locali, andare in questi luoghi, avere contatti con le persone, e non con le istituzioni in via esclusiva, Rivedere la storia di alcuni Paesi, decostruendo alcuni punti di riferimento che sono funzionali a un discorso di opposizione come unica possibilità di relazione. Riconoscere soprattutto agentività ai popoli arabi. Superare la dicotomia, che ignora le diversità etniche, nazionali e di classe, e che presuppone falsamente una cultura islamica pura che non esiste, considerando l’esistenza invece di assetti e contesti locali.
Una seria autocritica al nostro modo di studiare e di leggere la realtà è necessaria, altrimenti è perfettamente inutile parlare di diritti umani, che anch’essi, tra l’altro, sono i diritti umani dell’Occidente.
Nell’islam esiste un atteggiamento univoco nei confronti dell’omosessualità?
Direi proprio di no. Anche qui vale lo stesso discorso, esistono molte sfumature nell’“atteggiamento”; altra cosa sono le singole legislazioni nazionali, che tuttavia discendono da posizioni politiche volte perlopiù, da un lato a ottenere consenso da gruppi di potere, dall’altro a esercitare una forte repressione politica. Con questo voglio dire che ascrivere legislazioni repressive nei confronti dell’orientamento sessuale non ha nulla a che vedere con la religione in sé, che può essere un fattore interveniente solo in quanto i gruppi di potere religioso spesso creano solide alleanze con il potere politico, ma anche questa non è una prerogativa dei paesi arabo-musulmani.
Cosa dice a questo proposito la shari’a?
È molto difficile rispondere in breve a questa domanda. La shari’a è la legge desunta dalla parola di Dio, e come tale esistono diverse interpretazioni, così come su qualunque argomento, anche sugli atti omosessuali. Esistono opinioni discordi già in epoca classica, e dunque spesso si tratta solo di far emergere una certa linea interpretativa piuttosto che un’altra. La linea prevalente va di pari passo con il tipo di regime politico al potere.
Oggi esistono anche nuove interpretazioni e, come per qualunque religione, ogni volta che c’è una nuova lettura si crea un filone interpretativo nuovo. L’obiettivo e la speranza è che le nuove interpretazioni si impongano alla maggioranza. Le società musulmane non rinunciano al proprio universo valoriale – scelta legittima -, perciò qualunque cambiamento deve passare per questa via. Voglio dire che proposte di cambiamento che si pongano al di fuori dell’ermeneutica hanno poche probabilità di essere accolte, al momento.
È vero che l’omofobia è stata importata dai colonizzatori?
È vero solo in parte, nel senso che è vero che l’irrigidimento di alcune posizioni, non solo relativamente a questo aspetto, si sono verificate sotto l’influenza del colonialismo che, trovandosi di fronte a pratiche differenti dalle proprie, le ha bollate come immorali. È tuttavia vero anche che abbiamo testimonianze dai testi di condanna dei rapporti omosessuali.
Qui, a mio parere, è anche necessario fare una precisazione: non dobbiamo cadere nell’errore di pensare che nell’impero arabo-musulmano i rapporti omosessuali fossero la norma, nel senso che le testimonianze letterarie, ad esempio, costituiscono un preciso genere letterario, e non possono essere considerate documenti storici. Certo, il fatto che questo genere esista, e parli di omosessualità maschile e femminile, significa che quantomeno c’era una certa libertà nel discorso, che sicuramente il colonialismo ha contribuito a stigmatizzare.
Come si è evoluta l’idea dell’omosessualità nei secoli?
Non so se capisco bene la domanda… se si intende nei Paesi arabi, in ogni caso, credo che ci sia stato un passaggio da considerarla una pratica sessuale come le altre, a una maggiore coscienza rispetto all’orientamento sessuale. Questo ovviamente è un percorso che è comunque comune a diverse culture.
A che punto siamo oggi?
Dal punto di vista legislativo, l’omosessualità è reato in praticamente tutti i Paesi musulmani, in alcuni casi punibile anche con la morte. C’è però una maggior presa di coscienza e più attivismo (anche a rischio della vita), l’argomento è più volte passato in televisione, anche se spesso per stigmatizzarlo, e però questo significa che se ne parla. Il percorso da fare è lungo e difficoltoso, certamente. Maggior apertura si ha a volte nelle comunità musulmane in Paesi a maggioranza non musulmana, che possono contribuire in qualche modo ad “accerchiare” dall’esterno l’opinione pubblica, che a sua volta può influire sulle politiche di governo. L’importante credo sia non pretendere dalla comunità di bruciare le tappe, e sostenere sempre le sue scelte.
Ringraziamo la professoressa Guardi, che ci ha esposto in maniera chiara e succinta il rapporto tra marginalità sessuale ed islam nei Paesi arabi. Per chi volesse saperne di più, soprattutto a proposito dei musulmani queer all’estero, consiglio, ad esempio, questo articolo e questo. Un altro utile strumento, in tal senso e il portale Il grande colibrì , che si occupa di persone LGBT nel mondo e che ha una sezione specifica dedicata all’islam.