Vegliamo insieme! Non più vittime, non più vittimismo, è tempo di essere testimoni
Riflessioni di Federica Mandato del gruppo Ressa di Trento del 21 aprile 2011
I neri americani utilizzavano, nel periodo della schiavitù nei campi degli stati del sud, le canzoni spiritual e gospel in parte per farsi forza durante le persecuzioni e le fatiche quotidiane, in parte per pregare e in parte per comunicare con codici non comprensibili ai ‘bianchi’ alcune modalità per scappare.
In alcuni testi che richiamano la stella polare, o il fiume, o altri luoghi geografici, sono contenuti in realtà dei messaggi che sottintendevano dove era possibile trovare la libertà, ad esempio negli stati del nord, o oltre il guado del tale corso d’acqua, attraverso la pianura e con l’uso di alcuni stratagemmi.
Essere minoranza (non per forza in senso numerico) perseguitata all’interno di un contesto collettivo che non dà spazi di visibilità senza rischi di persecuzione, implica lo sviluppo di dinamiche comunicative e di pensiero sottotraccia, come ora avviene in Cina o in altri stati solo in apparenza democratici.
Ma gli stessi neri delle piantagioni, hanno atteso un Martin Luther King e altri esponenti come lui per uscire dal sottobosco dei messaggi codificati e arrivare alla luce di una protesta visibile e chiara, a testa alta e a piena voce.
Oggi vi è un presidente americano di colore nello stesso paese che pochi decenni prima vedeva impiccati per mere rivendicazioni razziste i neri agli alberi dell’Alabama o del Missouri.
L’Italia, la Russia, l’Iran e tutti gli stati che hanno la pena di morte o l’ostracismo sociale per chi ha un’identità affettiva diversa dal ‘dogma’ tradizionale, o semplicemente non sono ancora arrivati a un riconoscimento civile delle unioni omo-affettive, vedranno mai attuarsi un processo di civilizzazione degno di questo nome?
I neri americani hanno molti martiri per la ‘causa’, che ricordano con opportuna deferenza e in parte mitizzano.
E’ doveroso ricordare chi ha perso la vita o la ragione o l’anima per la violenza morale e fisica, come ricordare che ogni volta che questa violenza, anche per indifferenza, viene perpetrata, le vittime non sono solo i corpi che giacciono a terra, ma tutti coloro che hanno circondato quella persona e non hanno avuto gli strumenti e i modi per aiutarla, accoglierla, farsi interrogare da essa prima di gesti fatali.
Pregare per l’anima delle vittime ha valore se ciò è accompagnato da un atteggiamento diverso nella vita, anche rivolto alla ‘pericolosa’ visibilità di sé.
Ma molti sono i chiamati e pochi gli eletti, chi ha la forza e la possibilità di manifestare se stesso senza timore è guida e luce per tutti coloro che nell’ombra attendono di prendere tra le mani con dignità la propria storia personale e mi chiedo se queste non siano già vittime. I neri non potevano scegliere di essere ‘invisibili’, così molte altre ‘categorie’ oggi invise al perbenismo collettivo.
Il versetto scelto per le veglie (di preghiera per le vittime dell’omofobia) di quest’anno parla di ‘profano’ e ‘impuro’.
Termini terribili, categorici, che non lasciano spazio al minimo ragionamento razionale o a giustificazioni: impuro è qualcuno che non può nemmeno essere toccato o avvicinato senza rischio di un ‘contagio’ morale o fisico; profano è qualcuno che agisce o è sentito agire con intenzione dissacratoria verso la morale costituita nei secoli e condivisa da una comunità.
Il versetto fa riferimento a un incontro di Pietro con il centurione Cornelio, dopo essere giunto a Roma.
E’ interessante leggere alcune righe precedenti in cui Pietro, che ha fame lungo il viaggio, viene invitato da un angelo a mangiare ciò che trova.
“Ma Pietro rispose: «Non sia mai, Signore; io non ho mai mangiato nulla di profano e d’impuro». E la voce disse ancora: «Quel che Dio ha purificato, tu non lo chiamar profano»”.
Dio è il purificatore non la regola o i riti sacri, Dio mette la vita umana prima della legge e delle tradizioni.
Da questo Pietro stesso coglie il senso delle parole di Dio e in seguito, a casa di Cornelio, usa le parole del versetto che per intero è: «Voi sapete che non si conviene a un Giudeo l’unirsi o accostarsi a uno straniero; ma Dio m’ha insegnato a non chiamar profano o impuro alcun uomo. Perciò chiamato, venni senza esitanza». Ossia tutti sono degni di accogliere Dio nella loro vita.
Dio stesso sovverte le usanze ritenute fino a quel momento sacre e immutabili, nel momento in cui si sta formando una nuova comunità che da lì in poi sarà una comunità cristiana, una derivazione dall’ebraismo per alcune cose, ma cristocentrica.
Lasciando perdere le derive teologiche e le critiche storico-bibliche su quel periodo narrato negli Atti degli Apostoli, ciò che possiamo cogliere noi contemporanei è di non lasciarci definire dalla voce degli uomini e dalle categorie dei sistemi sociali e collettivi.
Dio vede più in là. Dio ci chiama per nome e ha un segno di grazia e amore per ciascuno. Ogni cuore è puro abbastanza per ‘convertirsi’ a Dio. La dignità è conferita dall’essere viventi, non dall’essere giudei o cristiani o banchi o eterosessuali o europei anziché altro.
Va evidenziato come questo atteggiamento tutto mirato nella narrazione al proselitismo, ora sia allargabile ad un messaggio più ‘laico’ e universale.
Ogni uomo è degno per vivere l’amore secondo le sue capacità, desideri e dinamiche nel momento in cui ciò non nuoce al vivere civile e non è un atto di violenza.
Potrebbe essere considerata una forzatura, ma Dio chiama al suo cospetto ogni uomo, di qualunque condizione sociale o spirituale. Dio ha braccia più accoglienti della legge o della ‘gerarchia’ religiosa o delle stesse comunità.
Perché l’accoglienza divina non resti solo un miraggio celeste, è compito di chi si è sentito vittima ridestare le coscienze e ribaltare il giudizio stesso su di sé.
Ed è compito di chi si riconosce in queste parole evangeliche renderne testimonianza anche con atti concreti nella società.
Gesù ha mandato i suoi discepoli nel mondo, il mondo li ha fatti rintanare nelle catacombe, ora è tempo di uscirne nuovamente!