Verso il Sinodo 2015, tra ritardi, attese e speranze
Articolo di Lilia Sebastiani pubblicato nel quindicinale Rocca n.4 del 15 febbraio 2015
Non si vorrebbe essere pessimisti, tanto meno all’inizio del cammino intersinodale, ma a volte è difficile ignorare del tutto la vocina molesta che sussurra dentro di noi: tutto qui? Nei mesi che hanno preceduto il Sinodo 2014 il dibattito e le attese vertevano in modo speciale sulla possibile ammissione ai sacramenti dei divorziati risposati: potrebbe sembrare una prospettiva ristretta rispetto all’insieme così vasto delle problematiche familiari, ristretta anche per quanto concerne il numero di persone eventualmente coinvolte; ma ben comprensibile in questo momento, e decisiva anche per quelli che sono divorziati e non risposati – anzi anche per gli sposati non divorziati, anche per quelli che non sono sposati: infatti le scelte che verranno fatte non saranno neutre comunque quanto all’effetto, e saranno decisive quanto all’immagine di sé che la chiesa di Roma vorrà presentare al mondo.
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Semiaperture e semichiusure
Le aperture contenute nell’intervento del card. Kasper nel Concistoro dei cardinali già nel febbraio 2014 avevano fatto pensare a possibili cambiamenti (infatti sin da allora le voci più retrive del cattolicesimo italiano non avevano risparmiato attacchi e ironie); prudenti ma reali aperture si scorgevano anche nella Relatio post disceptationem (la indichiamo d’ora in poi con Rpd) redatta dal cardinale ungherese Pèter Erdö a metà dei lavori del Sinodo. Nella seconda settimana, però, il lavoro dei circuli minores – in cui i padri sinodali si raggruppano sulla base delle lingue o delle preferenze linguistiche di ognuno per discutere più liberamente – deve aver visto prese di posizione anche aspre. Il risultato è visibile nel documento (per ora) conclusivo, la Relatio Synodi, che indiscutibilmente segna un passo indietro rispetto alle prospettive pastorali che si potevano scorgere o sperare con fondamento all’inizio.
Nella Rpd si faceva cenno alla possibilità di consentire ai divorziati risposati l’accesso ai sacramenti preceduto da un cammino penitenziale sotto la responsabilità del vescovo diocesano, specificando comunque che si trattava di una possibilità non generalizzata, frutto di un discernimento da attuare caso per caso in modo graduale (n. 47). La Relatio Synodi approvata l’ultimo giorno, non registrava su questo punto la maggioranza qualificata di due terzi (la maggioranza semplice sì), argomentava in modo abbastanza simile benché più prolisso e, senza risolvere, riconosceva che «la questione è ancora tutta da approfondire» (n. 52): un’apertura, dunque, almeno quanto alla riflessione se non alla prassi.
Ci sembra invece molto positivo che sia stata bocciata, forse in questo caso proprio dai padri sinodali più avanzati, la strana proposta che i divorziati risposati, se ne sentono il bisogno, facciano la «comunione spirituale», detta anche «comunione di desiderio»…
A parte il fatto che questo è già possibile, visto che almeno i desideri sono liberi, e lo Spirito poi è libero anche rispetto al Sinodo, fare la comunione spirituale significa comunque essere in comunione, con Cristo e con la comunità dei credenti in lui; e se uno è in comunione, che senso avrebbe continuare a escluderlo dalla partecipazione aperta e visibile ll’Eucaristia, culmen et fons della vita cristiana?
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Un ‘fuori tema’ decisivo
Quello delle unioni omosessuali è senz’altro il punto in cui la Relatio Synodi appare più reticente. Nella Rpd la questione era affrontata con molta prudenza e riserva, sottolineando l’impossibilità di equiparare alla famiglia l’unione di persone dello stesso sesso (del resto è anche la posizione personale di papa Francesco), ma con alcune sottolineature significative e coraggiose: «… Si prende atto che vi sono casi in cui il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un appoggio prezioso per la vita dei partners. Inoltre la Chiesa ha attenzione speciale per i bambini che vivono con coppie dello stesso sesso, ribadendo che al primo posto vanno messi sempre le esigenze e i diritti dei piccoli» (Rpd 50).
Ciò significa la possibilità di ammettere questi bambini ai sacramenti dell’iniziazione e più in generale alla vita della comunità cristiana, anche se vivono in un contesto considerato irregolare. È chiaro che qui non si affronta per nulla, giustamente, la possibilità di concedere alle coppie omosessuali il diritto di adozione, ma solo il caso non infrequente in cui insieme alla coppia omosessuale viva il figlio di una/uno dei due partners.
Ora nella Relatio Synodi non solo scompare la possibile apertura, ma la stessa questione cambia connotati, anzi focus: non si fa più cenno alla dignità personale e affettiva (quindi anche spirituale) che tali unioni possono avere, invece abbastanza sibillinamente si parla di famiglie «che vivono l’esperienza di avere al loro interno persone omosessuali». Di colpo, dunque, al centro dell’attenzione non sembra più trovarsi la coppia omosessuale, bensì la famiglia ‘normale’ con figlio/ a omosessuale: una questione seria, a volte dolorosa, ma tutta diversa.
Sparita la coppia, restano i singoli uomini e donne, a cui si riconosce solo il diritto di venir trattati con rispetto, cioè di non essere discriminati per le loro tendenze. Notiamo che, come in altri pronunciamenti precedenti, non si parla di persone «che vivono una relazione omosessuale», solo di persone «con orientamento omosessuale», quasi sottintendendo implicitamente (e in passato è stato detto a chiare lettere) che la semplice ‘inclinazione’ non può considerarsi peccaminosa, a patto che chi l’avverte in sé attui un’opzione integrale per la castità. Ma si può imporre a qualcuno la castità a vita?
E comunque visibile l’imbarazzo degli estensori del documento, che a un certo punto ha condotto a un vero e proprio blocco espressivo, al non dire letteralmente più nulla come Sinodo, trincerandosi dietro un’affermazione (sull’impossibilità di stabilire analogie anche remote con matrimonio e famiglia) già presente nell’Instrumentum Laboris dello scorso giugno, così come la necessità di non discriminare, di trattare con rispetto, si trovava già in un documento del 2003 (1).
La riflessione deve procedere, la comunità dei credenti deve farsene carico, e non vi è fede, non vi è comunità senza attenzione alle persone nella loro situazione concreta. È stato detto: il Sinodo è dedicato alla famiglia, la famiglia dichiaratamente è solo quella formata dall’unione di un uomo e di una donna, perciò non vi è l’obbligo – nemmeno l’opportunità, direbbe qualcuno – di considerare le unioni omosessuali.
In un senso molto stretto, molto ‘tecnico’, si potrebbe anche sostenere. Non soddisfa però la coscienza cristiana: la chiesa non può disinteressarsi del disagio degli omosessuali credenti né delle loro sempre più pressanti domande, né della crescente solidarietà dell’opinione pubblica nei loro confronti. Anche senza adoperare la parola matrimonio, che si riferisce a realtà diverse, non sarebbe coerente con la centralità della persona né con l’imperativo fondamentale della carità rifiutarsi di riconoscere la bontà e la potenzialità santificante di unioni stabili e fedeli fondate sull’amore.
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Guardando il futuro
Non si può negare che la Relatio Synodi su molti punti costituisca un arretramento, speriamo non definitivo, rispetto alle aperture sperate (e anche semplicemente rispetto alla Rdp, uscita dalla Sala Stampa vaticana una settimana prima); tuttavia qualche elemento di progresso è avvertibile non solo quanto ai contenuti del Sinodo, ma al modo di ‘essere’ e ‘fare’ Chiesa. In questo soprattutto si ritrova lo stile di papa Francesco.
In primo luogo, com’è stato rilevato tante volte, nella coraggiosa scelta di trasparenza che lo ha indotto a volere la relazione finale del Sinodo pubblicata integralmente in tutti i suoi 62 punti, compresi i tre che, non avendo ottenuto la maggioranza di due terzi non si possono considerare approvati; corredando la relazione con indicazione precisa dei voti a favore e sfavore per ogni punto, ciò che consente a ogni lettore di farsi un’idea degli orientamenti dell’aula sinodale e della fatica del dibattito.
Non è un dettaglio, ci sembra molto coraggioso (oltre che rispettoso delle diverse posizioni) ammettere che anche all’interno del Sinodo possono esservi difficoltà a capirsi, può esservi discordia, e non solo dei vescovi tra loro, ma anche nei confronti del papa: in altri tempi forse una cosa del genere sarebbe stata impensabile.
Consideriamo molto importante anche il suo discorso finale al Sinodo, particolarmente per l’accenno alle «tentazioni» che possono ostacolarne il cammino. Ma questo discorso sulle tentazioni richiede una riflessione a parte, su cui forse torneremo in futuro.
Un lavoro importante resta davanti a noi, un lavoro in cui i laici, come singoli e come associazioni, non devono limitarsi a un ruolo di spettatori.
Intanto nel mese di dicembre sono state inviate agli episcopati nuove domande (46, questa volta): le risposte, insieme alla Relazione finale del Sinodo 2014, costituiranno i Lineamenta della seconda fase (2015). Le risposte anche laicali dovranno essere inviate alla segreteria del Sinodo attraverso le diocesi – a quelle dell’anno scorso invece era almeno in teoria possibile rispondere individualmente e direttamente – e questo costituisce senza dubbio un limite; senza contare che potranno rispondere solo quelli che hanno un ruolo nella chiesa locale e una sufficiente dimestichezza con i suoi piani pastorali e le sue attività.
Delle nuove domande si potrebbe ripetere, in linea di massima, quanto già si disse delle prime: poco felici quanto allo stile e al linguaggio, troppo spesso sottintendono la certezza anticipata della risposta o implicitamente la suggeriscono. Quasi sempre possono apparire rivolte non a raccogliere punti di vista, ma a ribadire la visione tradizionale su tutti i punti oggetto di dibattito, chiedendo solo «che cosa si fa», nei vari luoghi, per far passare quella visione. Devo però ringraziare di cuore un amico teologo per avermi fatto notare qualche spunto di positività che non ero riuscita a cogliere nella mia lettura, attenta sì ma forse troppo sconfortata a causa dello stile assai ‘curiale’ e ufficiale di quello scritto.
Nella seconda parte, ad esempio, troviamo una domanda che, nella sua apparente genericità, può contenere una richiesta precisa e quasi una promessa: «Come aiutare a capire che nessuno è escluso dalla misericordia di Dio e come esprimere questa verità nell’azione pastorale della Chiesa verso le famiglie, in particolare quelle ferite e fragili?» (dom. 20, rif. a Relatio Synodi n. 28).
La domanda 35 poi chiede se e come la comunità cristiana sia «pronta a prendersi cura delle famiglie ferite per far sperimentare loro la misericordia del Padre». L’idea soggiacente non può essere semplicemente quella di raccomandare rispetto e benevolenza, e un po’ di aiuto ove occorra: infatti non ci sarebbe bisogno di mettere in piedi due Sinodi per questo, basta essere cristiani e persone civili.
Nelle note che accompagnano le nuove domande, solo allo scopo di facilitarne il collegamento con i vari numeri della Relatio Synodi, non vi è in genere molto da notare, ma forse un’eccezione è costituita da questa frase, che apre le domande sulla terza parte: «Nell’approfondire la terza parte (…) è importante lasciarsi guidare dalla svolta pastorale che il Sinodo Straordinario ha iniziato a delineare, radicandosi nel Vaticano II e nel magistero di Papa Francesco. Alle Conferenze Episcopali compete di continuare ad approfondirla, coinvolgendo, nella maniera più opportuna, tutte le componenti ecclesiali (…). È necessario far di tutto perché non si ricominci da zero, ma si assuma il cammino già fatto nel Sinodo Straordinario come punto di partenza» (corsivi nostri; è chiaro che la svolta pastorale di cui si parla può riguardare solo l’ammissione dei divorziati risposati all’Eucaristia, poiché su tutti gli altri punti non si registrano svolte di rilievo).
Nella domanda 38 si afferma la necessità di un ulteriore approfondimento della pastorale sacramentale a riguardo dei divorziati risposati, «valutando anche la prassi ortodossa» (che, come si sa, concede un nuovo matrimonio dopo il fallimento irreparabile del primo); anche questa considerazione di natura ecumenica potrebbe rivelarsi di grande peso, ed è noto quanto papa Francesco desidera che siano tolti il più possibile i motivi di divisione rispetto alle chiese del mondo ortodosso.
L’ultima parola sulle tematiche dibattute nella sessione straordinaria e in quella ordinaria del Sinodo sarà ovviamente di papa Francesco il quale, nell’omelia della messa con cui ha concluso il Sinodo straordinario e beatificato Paolo VI, ha ripetuto che non bisogna aver paura «delle novità», «delle sorprese di Dio».
Ma anche in vista di quella sua parola, come di tutta l’opera di rinnovamento ecclesiale da lui avviata, è necessario offrirgli in tutti i modi possibili e in spirito di dialogo un appoggio leale e affettuoso, partecipe e qualificato, e dunque mai privo di senso critico.
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(1) Congregazione per la Dottrina della fede, Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali, 4