Per il Vescovo Bode è tempo di riconoscere i segni dei tempi anche sul matrimonio e l’omosessualità
Intervista di Stefanie Witte pubblicata sul sito del giornale Neue Osnabrücker Zeitung (Germania) il 10 gennaio 2018, traduzione di finesettimana.org
Franz-Josef Bode, vescovo cattolico di Osnabrück (Germania), invita a riflettere sulla benedizione delle coppie dello stesso sesso. Nell’intervista, il vescovo Bode parla anche della presenza di preti stranieri nella sua diocesi e del diaconato femminile.
Signor Vescovo, nell’omelia di inizio anno, Lei ha chiesto di riconoscere i segni dei tempi anche a proposito di matrimonio e sessualità. Cosa intende dire concretamente?
Mi riferisco a questioni fondamentali inerenti il matrimonio e i rapporti di coppia. Ad esempio, anche se il “matrimonio omosessuale” è chiaramente diverso dal concetto di matrimonio sacramentale della chiesa cattolica, ora è una realtà politica. Quindi dobbiamo chiederci come incontriamo coloro che fanno questa scelta e che sono, anche parzialmente, coinvolti nella chiesa. Come li accompagniamo pastoralmente e liturgicamente? Come possiamo essere vicini a loro?
Quali possibilità vede?
Si deve sempre pensare a quale è stato il cammino precedente della chiesa. Qualcuno potrebbe dire: cosa hanno a che fare queste unioni con la chiesa? Il fatto è che spesso nella chiesa cattolica una relazione omosessuale viene classificata innanzitutto come un peccato grave. Perciò dobbiamo pensare a come valutare in maniera diversa una relazione tra persone dello stesso sesso. C’è in queste unioni così tanto di positivo, buono e giusto che fa sì che noi dobbiamo tenerne conto maggiormente? Ad esempio, si può pensare a una benedizione per queste coppie, che non deve essere confusa con una cerimonia di matrimonio.
È stato già fatto abbastanza su questo argomento?
Voglio dire che nella chiesa cattolica dobbiamo ancora discuterne in modo dettagliato. Il silenzio e il considerarlo un tema tabù, sino a ora, non ci hanno aiutati ad andare avanti e ci lasciano disorientati.
Un’altra sfida è la mancanza di preti e le comunità che si riducono. Come pensa di contrtastare questa tendenza?
Se in futuro continueremo ad avere pochissimi candidati all’ordinazione, tanto più dovremo consentire e sollecitare tutti i fedeli a parlare della loro fede e ad assumere maggiore responsabilità. I battezzati e i cresimati non devono semplicemente aspettare un prete o un diacono, ma devono poter parlare della propria fede e comprenderne il significato. Parliamo molto di strutture, ma la domanda più profonda sta dietro: in che rapporto stanno le persone con una fede che dà una risposta alle loro domande esistenziali?
Come pensa di riuscire a realizzare questo?
In primo luogo, formando dei gruppi di volontari, in modo che la comunità continui ad avere un volto anche senza la presenza costante di preti a tempo pieno. In secondo luogo, i coordinatori pastorali devono alleggerire sempre di più i parroci affrontando loro le questioni relative all’organizzazione e al personale. Questo sarà ora attuato in circa 20 comunità della mia diocesi.
E, terzo, vogliamo iniziare a nominare degli incaricati parrocchiali che devono assumere funzioni di direzione nelle comunità. Un prete accompagnerà quindi una unità pastorale, ma non è necessario che sia sempre presente. A proposito, questi incaricati parrocchiali possono essere chiaramente anche delle donne.
Affrontiamo l’argomento donne. Lei ha più volte invitato a parlare del diaconato femminile. Dal 2016 c’è una commissione su questo tema in Vaticano. Ma l’argomento non sembra essere particolarmente sentito…
La questione è più complessa di quanto si pensi. Per prima cosa il diaconato – cosi come ora lo conosciamo per gli uomini – non può essere semplicemente trasferito alle donne. In secondo luogo, la Commissione Vaticana sta studiando a fondo la tradizione. Ma penso che non si debba solo far riferimento alla tradizione. Dobbiamo anche tener conto del fatto che oggi le donne svolgono in larga misura attività di grande responsabilità nella Chiesa.
Mi auguro che su questo ci sia un dialogo tra esperte di questo tema e i vescovi incaricati dell’argomento nella Conferenza episcopale tedesca e, per quanto possibile, anche avere un contatto con il gruppo che si occupa di questi temi a Roma. Alla fine, sarà un concilio o un sinodo a dover prendere una decisione sulla questione.
Come reagiscono i suoi colleghi vescovi della Conferenza episcopale tedesca sull’argomento?
Fondamentalmente considerano assai rilevante la questione del diaconato femminile. La serietà della ricerca teologica non può essere messa in discussione. Ma credo che anche la Conferenza episcopale debba discutere maggiormente di questo argomento.
Un altro tentativo di tappare le falle è portare preti stranieri da noi. A volte i fedeli si lamentano degli ostacoli linguistici e delle differenze culturali. Anche la diocesi di Osnabrück utilizza sacerdoti indiani da circa dieci anni. Quali conclusioni ne trae oggi?
Innanzitutto siamo contenti che ci siano i sacerdoti indiani – circa 30 preti sono presenti nella diocesi di Osnabrück. Accanto a loro abbiamo anche circa 150 suore indiane. Senza di loro, non saremmo in grado di mantenere l’organizzazione diocesana nella sua forma attuale. Il problema non è né il colore della pelle, né la differenza culturale. La più grande difficoltà è la barriera linguistica. Proprio come sarebbe molto difficile per noi imparare l’indiano, per alcuni preti è difficile la pronuncia precisa nella nostra lingua. Per quanto riguarda la cura pastorale, i preti sono generalmente molto aperti, ma anche in questo talvolta ci sono delle barriere.
Come si procederà in futuro su questo tema dei preti indiani?
Sono convinto che non possiamo rimediare alla nostra penuria importando preti dal vasto mondo. Tutti i Papi dei decenni scorsi parlano dell’inculturazione del Vangelo – cioè dell’adattamento alle condizioni culturali esistenti. Ciò vale anche per noi e per la nostra situazione. Inoltre si pone il problema del rapporto numerico. Attualmente, su circa 150 preti qui da noi, 30 vengono dall’India. Non vogliamo superare questo livello.
Ci sono, a questo riguardo, cose che Lei oggi farebbe diversamente da come avrebbe fatto all’inizio?
Sì – abbiamo imparato dall’esperienza. Ad esempio che occorre costantemente migliorare le competenze. Non basta aver imparato una lingua. Bisogna costantemente progredire linguisticamente. Un conto è fare una predica. Ma poi, nelle conversazioni di tipo pastorale e nella confessione, non c’è più un testo scritto a disposizone. Allora le cose diventano più difficili. Inoltre ci vuole anche un aggiornamento culturale. Se si vuole lavorare qui, bisogna adeguarsi alle situazioni locali. E questo riguarda anche il comportamento nei confronti dei laici.
Passiamo ad un altro argomento: l’anno di Lutero è terminato. Che cosa pensa che rimanga dell’avvicinamento ecumenico?
La commemorazione della Riforma è stato un anno positivo per l’ecumenismo. Abbiamo fatto grandi celebrazioni insieme e direi che il livello su cui si situano le relazioni è cresciuto. Su questa base si potrà parlare più facilmente anche di argomenti più difficili.
Quali?
In primo luogo si tratta del modo in cui intendiamo l’unità. Poi bisogna riflettere sull’eucaristia e sul ruolo della Chiesa, e anche sui matrimoni interconfessionali e sul problema dell’ospitalità eucaristica. Spero proprio che quest’anno faremo un passo avanti. Anche su questioni etiche complesse, sarebbe utile se trovassimo un migliore accordo.
I vescovi tedeschi non possono però semplicemente decidere da soli su certi argomenti. Quale influenza ha la chiesa cattolica tedesca sul tema dell’ecumenismo?
Credo proprio che la chiesa universale guardi con attenzione al paese dove è nata la Riforma. Su questo, la teologia è molto differenziata. Le chiese europee e in particolare la chiesa tedesca svolgono a questo riguardo un ruolo particolare.
Testo originale: Franz-Josef Bode im Interview Osnabrücker Bischof: Über Segnung von Homo-Ehe nachdenken