Viaggio nella chiesa cattolica che vuole “guarire” i gay
Reportage di Michele Sasso pubblicato sul settimanale L’Espresso del 10 dicembre 2015, pp.86-89
«Il mio nome è Michele e sono una persona con attrazione per lo stesso sesso». La formula d’ingresso recitata come un mantra è quella usata alle sedute di “Courage”, una rete internazionale di apostolato cattolico per curare l’omosessualità ed essere un buon cristiano.
I gruppi sono nati nel 1980 a New York su spinta del cardinale Terence Cooke e riuniscono gay e lesbiche con un unico scopo: incoraggiare i suoi membri all’astensione dal sesso e «vivere una vita casta secondo gli insegnamenti della Chiesa cattolica».
Dagli Stati Uniti la diffusione è stata immediata: Canada, Gran Bretagna, Sud America, Filippine e Vietnam. Oggi conta un network di 125 squadre di Dio in quindici paesi. Sbarcando anche in Italia. Si ritrovano a Roma, Torino e Reggio Emilia (presto anche a Milano dove il cardinale Angelo Scola ha lodato l’iniziativa) con un format di «dodici passi per il recupero», copiato dagli alcolisti anonimi.
Circoli di pochi, convinti ultracattolici che con la guida di un prete messo a disposizione dalla Curia si convincono che possono “guarire” e tornare eterosessuali. Sfidando il buonsenso e facendo leva sul proprio credo, i partecipanti si sottomettono con pignoleria alle indicazioni della congregazione per la dottrina della fede: «Come accade per ogni altro disordine morale, l’attività omosessuale impedisce la propria realizzazione e felicità perché è contraria alla sapienza creatrice di Dio».
Queste parole sono tratte dalla lettera sulla cura pastorale vergata da Joseph Ratzinger nel 1986, quando il futuro papa era il gran capo dell’istituto nato nel 1542 per vigilare sulle spinose questioni della morale e del credo i difendere la Chiesa dalle eresie.
Dopo quasi cinquecento anni nessun passo in avanti, nonostante l’apertura di Jorge Bergoglio che al primo viaggio ufficiale da pontefice ha spiegato:«Se una persona omosessuale è di buona volontà ed è in cerca di Dio, io non sono nessuno per giudicarla. Il catechismo dice che queste persone non devono essere discriminate ma accolte».
Dietro l’astensione forzata e le “teorie riparative” per curare l’omosessualità non c’è nessun fondamento scientifico né tantomeno psicologico, ma una sorte di sindrome di Stoccolma che affonda le sue radici nella teologia e affascina le gerarchie cattoliche.
Dagli anni Novanta hanno preso piede associazioni come Courage, Narth, Exodus, o l’europea Living Waters. Si danno da fare organizzando conferenze, offrendo consulenze, sedute psicoterapeutiche e seminari. Non è solo un fenomeno pittoresco americano. Fedeli, fedelissimi che con la forza di Cristo hanno la presunzione di guarire ogni male vero o presunto.
Per confrontarsi e fare proselitismo si sono ritrovati a Roma all’Università Pontificia San Tommaso. Ospiti d’eccezione due cardinali ultraconservatori: il guineano Robert Sarah (membro della congregazione per il culto divino) che alla vigilia del Sinodo sulla famiglia ha attaccato le aperture di Francesco con queste parole:«Le unioni omosessuali sono un regresso di civiltà».
Seduto accanto a lui l’australiano George Pell, capo della nuova segreteria economica per dare trasparenza ai conti del Vaticano e finito nello scandalo Vatileaks con l’accusa di di aver speso mezzo milione di euro in sei mesi in voli business class e vestiti su misura.
Insieme ai due big porporati c’è monsignor Livio Melina, ciellino di ferro, teologo e guida di uno dei più autorevoli think tank vaticani, l’istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia.
Ad ascoltarli in prima fila i seguaci italiani di Courage. Nella Penisola non operano vere e proprie filiali ma piccoli gruppi, legati alla Curia che approva e mette a disposizione una guida spirituale. Un leader diffonde il verbo attraverso blog, media cattolici o il passaparola. Si ritrovano ogni quindici giorni e formano delle piccole comunità.
Per entrare in uno di questi gruppi è stato sufficiente aprire un account di posta elettronica, inviare qualche mail, andare a Roma al seminario dell’università Pontificia San Tommaso e chiedere di partecipare ad un incontro. A Torino ci ritroviamo il 17 ottobre. È sabato sera e i dieci componenti arrivano da tutto il Piemonte, la Liguria ed anche Milano. L’appuntamento è all’istituto Maria Ausiliatrice, non lontano da Porta Palazzo, dove Don Bosco fondò il primo gruppo dei salesiani.
Prima di entrare mi tocca un colloquio di un’ora con il giovane coordinatore che mi svela la sua ricerca della felicità: «Solo quando mi sono svegliato una mattina con la pienezza di Dio ho capito che avevo un vuoto: non ero appagato dal mio compagno e dalle vita che facevo. Sesso, pornografia mi inquinavano la mente. Così ho deciso di liberarmi dalla “genitalità” dei miei gesti con la conversione alla castità. Ora sono guarito e tra due mesi mi sposerò con la mia fidanzata continuando però a vivere senza fare l’amore».
REPRESSIONE E SENSI DI COLPA
Io, con la mia storia inventata di represso ed ingenuo che solo alla vigilia del matrimonio decido di fare coming out supero “l’esame di ammissione” e posso partecipare alla serata. Il programma prevede la visione del film “Desire of the everlasting hills”: un documentario-verità di tre cattolici che «cercano di navigare le acque della comprensione, fede e omosessualità».
Finita la proiezione ci mettiamo in cerchio.
Primo atto: la recita della formula in cui si confessa l’attrazione per lo stesso sesso; poi, spiega il neo-casto, «si riflettere sui comuni motivi che ci hanno condotto qui e su chi ancora lotta dentro e fuori questa stanza». La parola gay è bandita, mi spiegano, si usa solo per indicare la lobby che ci sta dietro.
Per me, novizio, il primo compito è quello di leggere i documenti ufficiali di Courage e accettare le preghiere, la cura pastorale, il metodo e gli obiettivi, senza appello né tantomeno critiche: castità, preghiera, fratellanza, sostegno e testimonianza sono le uniche chance di salvezza.
Un particolare mi colpisce tra i fogli che mi mettono in mano: « Courage non è un posto per rimorchiare e la riunione è chiusa, riservata e c’è il divieto assoluto di effettuare registrazioni audio e video». Il pericolo è che gli attivisti della comunità Lgbt (Lesbiche, gay, bisessuali e transgender) possano intrufolarsi per contestare questa “cura pastorale” degna del Medioevo. O peggio: con la scusa della preghiera cercare compagnia maschile.
Devo tenere tutto a mente e appena posso andare in bagno a segnare gli appunti sul taccuino. Iniziano a parlare i presenti: siamo otto uomini e due donne. Dai venticinque ai sessant’anni.
C’è chi si sente «disconnesso da Dio» e confuso, chi ha letto tutti i libri di Joseph Nicolosi (lo psicologo americano autore delle deliranti teorie riparative per tornare ad essere etero) ma ancora si sente solo. Le ragazze vorrebbero mettere ordine nella propria vita ma vanno in crisi alla vista di un vecchio amore femminile.
Chi partecipa alle sedute naviga a vista tra le onde dell’istinto e degli impulsi sessuali e il porto sicuro della fede. Hanno dubbi e interrogativi giganti che non trovano nessuna risposta.
L. ha 52 anni e il suo primo approccio è stato la confessione:«Dopo anni di ammissione di colpa ho collezionato le risposte più varie, chi mi diceva: “Vieni a casa mia e ne parliamo stasera”, oppure “Sposati e non dire nulla” o mi identificavano con il demonio. Poi ho trovato un padre benedettino che mi ha messo davanti ad un aut aut: “Non ti assolvo più se non fai un passo in avanti per essere casto”.
Io mi chiedevo da tempo il senso del mio stare al mondo: i miei coetanei si godevano i nipoti io avevo ancora relazioni che mi lasciavano addosso solo disagio».
Per lui, come per tanti, la soluzione fai-da-te è arrivata via Web, sposando appieno le teorie di Courage: «Non serve la psichiatria, serve curare le spirito» mi dice ammiccando.
A fare la sintesi finale è don Livio, portavoce dell’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia e “consulente” spirituale: «La castità che sperimentiamo ci permette di vivere appieno i rapporti umani. È la forza di questo apostolato che dobbiamo portare nel mondo come una forte testimonianza del nostro successo. Io qui ho imparato l’ascetismo: solo grazie alla sofferenza si può raggiungere la salvezza».
Nel solco della dottrina cattolica intende l’uomo unicamente come peccatore. L’unico modo di essere accettato agli occhi del Signore per chi è lesbica, gay, bisessuale o transgender e allo stesso tempo credente. Nessuna indicazione concreta per chi soffre e reprime i propri istinti. Per chi cerca parole di conforto, amore e compagnia. La serata si chiude con una preghiera comune mano nella mano. Le dinamiche sono simili a quelle delle sette. Nei giorni successivi scatta un bombardamento continuo di sms, telefonate e inviti per non mollare il gruppo.
La risposta ai chiarimenti richiesti da “l’Espresso” al Pontificio consiglio per la famiglia – che gestisce questi temi e dà il suo ok per avviare i gruppi locali – arriva dal reverendo Andrea Ciucci. Ed è senza appelli:«Non siamo disponibili per questa intervista».
Il coming out di monsignor Krzysztof Charamsa è lontano anni luce. Membro della Congregazione per la dottrina della fede, due mesi fa ha fatto una rivelazione choc: «È il momento che la Chiesa apra gli occhi: la soluzione che propone ai gay, l’astinenza totale dalla vita d’amore, è disumana. Sono orgoglioso di esprimere finalmente la mia identità, libero da disumani pesi psicologici, ingiustificati sensi di colpa, accuse di malattia e di deviazione».