Scrittori e saggisti hanno scritto molto sulla vita e sull’arte di Virginia Woolf (1882-1941). La biografia del nipote Quentin Bell, intitolata Virginia Woolf, resta, ancora oggi, un testo insuperabile per chiarezza e ricchezza di dati e lì ritroviamo la “vera” Virginia, al di là delle molte ipotesi che la sua vita e la sua opera hanno suscitato nel corso degli ultimi sessant’anni.
Molto è stato scritto sulla sua famiglia, sul suo rapporto di grande amore con la madre, (Julia, scomparsa quando Virginia aveva solo 13 anni) su quello con l’amato padre, Leslie Stephen, sul grandissimo affetto tra Virginia e la sorella Vanessa, pittrice di talento e ingiustamente misconosciuta, sul suo rapporto con il marito Leonard Woolf, sull’amore tra Virginia e Vita Sackville-West, su Virginia e il femminismo, il socialismo, sul suo stile letterario del tutto nuovo e rivoluzionario, sui suoi rapporti con amici ed artisti, sul suo suicidio, sui suoi disturbi psicologici a cui i moderni psichiatri non sanno ancora dare un nome, sul suo carattere schivo e tenace, sulla sua dedizione alla scrittura…Di solito si ritiene che il decennio aureo della sua creatività letteraria sia stato quello dai 40 ai 50 anni, in cui Virginia pubblicò i suoi capolavori, in cui la sua situazione psicologica ebbe un netto miglioramento, in cui si impegnò attivamente sul piano sociale e visse il grande amore per Vita. Anche se, è bene notarlo, anche le opere precedenti e posteriori a questo decennio sono molto belle ed interessanti. Tuttavia i critici ritengono più importante questo periodo perché da esso Virginia approdò ad un nuovo, imprevedibile stile letterario.
A 40 anni, nel 1922, Virginia pubblicò La camera di Jacob, il primo romanzo in cui abbandonò uno stile classico per un altro in cui erano essenziali gli stati d’animo, le sensazioni, i pensieri, i ricordi più che la trama, i fatti, le azioni.
Questo stile o modo, che Virginia stessa saggiamente non definì mai un “metodo”, in quanto era scaturito spontaneamente da lei dopo una lunga, estenuante ricerca, venne così denominato dal critico William James, fratello del celebre scrittore americano Henry James, che lo chiamò stream of counsciousness (flusso di coscienza).
Era qualcosa di radicalmente nuovo che faceva tabula rasa con tutta la letteratura precedente e in cui emergeva la frammentarietà dell’essere umano di fronte alla modernità e al nuovo secolo. Kandiskj aveva “inventato” la pittura astratta, Picasso il cubismo, Schoenberg la musica atonale: l’artista del XX secolo era alla ricerca di nuove forme per esprimere la sua anima e l’angoscia di un secolo colmo di speranze e di grandi dolori, un secolo in cui la lotta tra civiltà e barbarie, socialismo e fascismo, umanesimo e spietato sfruttamento del lavoro divenne cruenta, fino ad entrare in una nuova era: quella dominata dalla scienza e dalla tecnologia, in cui, sia in senso positivo sia in senso negativo, noi viviamo oggi quasi gli albori.
Anche Marcel Proust, “recluso” nel suo appartamento parigino, aveva scoperto qualcosa di affine, nel suo capolavoro Alla ricerca del tempo perduto, edito tra l’inizio del Novecento e gli anni Venti, il dublinese James Joyce aveva scritto Ulisse e Virginia Woolf nel romanzo La camera di Jacob trovò un modo “diverso” per esprimersi creativamente. Tuttavia non abbandonò, per sempre, uno stile più classico, a cui, ad esempio, ritornò nel romanzo di fine anni Trenta, intitolato Gli anni.
A 43 anni Virginia pubblicò Mrs Dalloway, un capolavoro, in cui in una stupenda giornata di giugno una serena Lady inglese, Clarissa Dalloway, gira per le strade di Londra tra il presente e il fluire spontaneo del passato, e in cui ritornano le persone amate nel passato: il suo innamorato Peter, l’amata Sally, il mondo di “ieri” riemerge in una stupefacente Londra anni Venti, descritta come nessuno avrebbe saputo.
Clarissa incrocia casualmente ma non conosce personalmente, passeggiando nelle strade centrali di Londra, la sua “ombra”, come direbbe forse uno psicoanalista junghiano, un giovane, Septimus Warren Smith, traumatizzato dalla guerra, dichiarato “pazzo”, seguito con apprensione dalla dolcissima Lucrezia, la moglie italiana. Septimus si suiciderà poco prima della fine del romanzo.
Si presume che Virginia abbia descritto i sintomi della “follia” dell’ex soldato ispirandosi parzialmente alla sua presunta “follia”. Virginia non era “pazza”: era solo rimasta traumatizzata dalla scomparsa della madre e dagli abusi sessuali che aveva subito, da bambina, dai due fratellastri.Nello stesso anno del romanzo, 1925, incominciò l’importante storia d’amore tra Virginia e Vita, e due anni dopo vide la luce un altro romanzo-capolavoro Gita al faro, rarefatta e incredibile rievocazione dell’infanzia della scrittrice, in cui prende forma la splendida, evanescente, forte figura di Mrs Ramsay, ispirata alla madre a cui Virginia avrebbe voluto assomigliare: ideale di bellezza, di saggezza, di femminilità sempre anelato e vissuto nel ricordo con indicibile dolore, terribile assenza e grande nostalgia.
Del 1928 è Orlando, romanzo scintillante, allegro e divertito, in cui un giovane aristocratico cinquecentesco, coraggioso e melanconico, aspirante poeta, soffre del crudele tradimento di una graziosa e volubile principessina russa fino a diventare, verso il 1700, ambasciatore in Persia e tramutarsi, dopo un misterioso sonno, in una fanciulla, dopo aver conosciuto i personaggi più incredibili: la regina Elisabetta I, poeti, commediografi, naviganti, osti di taverne, prostitute, dignitari, principi, zingari, musici.
Orlando è dedicato ed ispirato a Vita. Il romanzo contiene molti messaggi segreti rivolti a Vita, che solo in parte si possono decifrare.
Orlando ebbe uno straordinario successo: il/la protagonista, spavaldo e sensibile, non conosce né la morte, né il passare del tempo, è uomo e poi donna in un rutilante susseguirsi di stati d’animo e descrizioni di epoche. Orlando è stato felicemente definito “un prezioso intarsio” (dalla studiosa Nadia Fusini) e anche “la lettera d’amore più lunga mai scritta al mondo” (da Nigel Nicolson): è un hommage a Vita e ben poche donne, eccetto postumamente la Beatrice di Dante e la Laura di Petrarca, sono state immortalate sulla pagina scritta in modo tanto grandioso.Non è impossibile che questo felicissimo decennio letterario di Virginia sia collegato anche all’amore per Vita. Amore ricambiato dall’aristocratica, che guadagnava molte sterline scrivendo libri piacevoli ma non capolavori, dai titoli accattivanti per il grande pubblico come Seduttori in Ecuador e La signora scostumata, aveva un marito diplomatico e conservatore come il notissimo Harold Nicolson, con cui andava perfettamente d’accordo e con cui aveva in comune l’orientamento bisessuale, due figli, alcune relazioni (con varie donne e pochi uomini) meno importanti di quella con Virginia, una passione per i viaggi in Oriente.
In Adorata creatura, il carteggio tra Virginia e Vita (ma che contiene prevalentemente le lettere di Vita) emerge una Vita Sackville West simpatica, consapevole di non essere una grande scrittrice, amante dei pettegolezzi, veramente innamorata di Virginia di cui comprendeva pienamente il carattere fragile e lo straordinario talento.
Leonard, con molta intelligenza, accettò pienamente l’amore tra la moglie e Vita e, in un certo senso, lo favorì con riservatezza e discrezione.
Egli adorava Virginia fin dalla prima volta in cui l’aveva vista e, nonostante tra di loro non vi fosse nessuna attrazione fisica, il loro amore era molto grande e vi era un ammirevole sodalizio intellettuale.
Virginia aveva accettato nel 1912, dopo un anno da quando le era stata rivolta, la proposta di matrimonio che Leonard le aveva fatto e aveva chiarito, in una fondamentale lettera, che lo amava ma che i suoi baci la esasperavano.Leonard che, sia detto per inciso, era eterosessuale, scrisse, con commozione, nelle sue memorie, che quando Virginia gli aveva detto inaspettatamente che anche lei lo amava fu il giorno più bello della sua vita. Il loro amore si situa tra quegli amori spirituali fortissimi che paiono quasi un “destino”.
Tra Leonard e Vita vi era simpatia reciproca e un rapporto cordiale. L’amicizia, l’amore e poi l’amicizia tra le due scrittrici durò fino alla morte di Virginia, che si suicidò nel 1941.
Molti anni dopo Vita scrisse sul suo Diario il profondo dolore che le aveva causato la scomparsa dell’amata Virginia e la grande mancanza che aveva di lei. Sono forse le righe più commoventi che questa autrice abbia mai scritto.
I suoi romanzi, che sono divertenti e molto mondani, non rendono l’idea della sua interiorità. Al di là della Lady inglese, della ragazza anticonformista e ribelle che era fuggita in Francia con una ragazza e che aveva assunto un falso nome maschile, al di là della giovane donna abituata alla sontuosità del castello di Knole di 365 stanze, al di là della moglie di un eminente diplomatico, elegante e chiacchierona, della signora che adorava i cani, in quelle poche, schiette righe emerge la Vita più vera, quella che Virginia intuì ed amò appassionatamente e ritrasse splendidamente in Orlando.
Solo una scrittrice che possedeva la grazia, la profondità e la delicatezza di Virginia poteva ideare un libro come Orlando, in cui è evidente la gioia che provò nel scriverlo e nel dedicarlo all’adorata Vita (così Virginia chiamava Vita).
Del 1929 è l’importante saggio Una stanza tutta per sé, frutto di due conferenze, in cui Virginia sostenne quanto l’indipendenza fosse essenziale per le giovani donne, e che resta uno dei testi femministi più letti e citati nel mondo.
Del 1931 è Le onde, la sua opera, forse, più complessa, in cui non vi è più trama ma solo i pensieri di sei personaggi. In quell’anno Virginia difese anche pubblicamente un mediocre romanzo, a tematica lesbica, il famosissimo Il pozzo della solitudine della scrittrice Radclyffe Hall, rischiando il suo “prestigio” per la sacrosanta difesa della libertà dell’artista. Molti ancora si ricordavano di suo padre, uno dei più eminenti studiosi inglesi e che ebbe il titolo di Sir.
Dello stesso anno è quello che Virginia definì un divertissement (cioè un divertimento): Flush, che viene considerata un’opera minore della scrittrice senza, a mio parere, esserlo.
Qualche anno prima Vita aveva regalato ai coniugi Woolf un cocker spaniel, di nome Pinkus, e Flush è la storia di un altro cocker spaniel realmente esistito. Flush è un cocker nato nel 1842 nella casa di campagna di Miss Mary Mitford, scrittrice inglese nota ma spesso al verde, amica della poetessa Elisabeth Barrett.
Flush vive i primi mesi in campagna, felice e libero, finché la buona Miss Mary non lo dona all’amica che vive “reclusa” nella casa paterna londinese. A casa Barrett, a Wimpole Street, regnano il lusso e gli agi, vi sono ingombranti mobili e sfarzosi tappeti, oggetti indiani e specchiere dorate, ma la vita non è felice per Elisabeth, che ha circa quarant’anni.
Poetessa famosa, vive un profondo disagio psicologico che le impedisce di uscire di casa, una specie di agorafobia scatenata, pare, da una brutta caduta da cavallo. La casa con il tirannico padre e i nove fratelli – tra cui spicca la sorella Arabella – e la governante, Miss Wilson, è una prigione dorata.
Tra la melanconica Elisabeth e il piccolo Flush nasce un grande amore. Sembra quasi che Flush incarni quella spontaneità ed istintività a cui Elisabeth ha rinunciato.
Per lei l’avventuroso Flush rinuncia alla libertà e trascorre interminabili inverni nebbiosi e assolate estati cittadine nella stanza dove la poetessa, distesa su un’ottomana, scrive assiduamente. L’empatia tra Elisabeth e Flush è completa, finché non giunge una lettera. Flush comprende subito, con il suo istinto canino, che quella lettera è diversa dalle altre. Poi ne giungono ancora e un giorno arriva lo scrittore di quelle lettere: il poeta Robert Browning, giovane, agile, avvenente, sicuro di sé.
Flush ascolta le appassionate conversazioni letterarie tra i due e cova un’immensa gelosia, tanto da morsicare, un giorno, il poeta.
Con estrema delicatezza Virginia narra come l’amore cambi: Elisabeth Barrett che trova il coraggio di abbandonare le sue paure e di fuggire con l’amato Robert a Firenze, naturalmente insieme a Flush. Pare una fiaba, e invece è una storia vera. Tutti i personaggi sono realmente esistiti.
Virginia li tratteggia con molta chiarezza, non vi è nulla di retorico o di melenso, in questo libro, che parla dell’amore di un cane verso una giovane donna e viceversa, e poi dell’amore di questa donna per un uomo più giovane di lei e viceversa. Il libro è anche un atto d’amore verso Londra, magistralmente descritta a metà Ottocento. È anche un j’accuse verso la tendenza, tutta inglese, a evidenziare le differenze di classe, alla grande miseria che affliggeva (e affligge) un paese monarchico e capitalista.
Soprattutto, Flush è un inno all’amore anarchico e ribelle che manda in frantumi le differenze sociali e le paure, facendo approdare Elisabeth, Robert e Flush a Firenze, che per gli inglesi è sempre stata il simbolo della bellezza e della libertà. (Un proverbio inglese di tanto tempo fa recitava che “i giovani inglesi a Firenze diventano cattolici o omosessuali”.
Forse la fama di Firenze come città gay, vera o falsa che fosse, poteva essere collegata al fatto che lì vissero nel Rinascimento grandissimi artisti gay come Masaccio, Donatello, Leonardo, Michelangelo e il grande filosofo Pico Della Mirandola.
In Flush non si parla di omosessualità, tema che emerge invece, con molta sensibilità, in una novella di Virginia, intitolata “Momenti di essere” che tratta del sentimento di un’adolescente, Fanny Wilmot, per una pianista, la gelida Miss Julia Craye, di cui Fanny s’innamora ascoltando una fuga di Bach, oppure nella vitale, allegra Sally di Mrs Dalloway che improvvisamente dà un bacio all’amica Clarissa – e la frase (castissima) che narra di questo bacio ad un party e della gioia di Clarissa venne censurata nell’edizione italiana del romanzo nel 1947 !Il tema dell’amore fra donne emerge anche nell’ammirazione della pittrice Lily per la signora Ramsay in Gita al faro e nel personaggio della disincantata Miss La Trobe nell’ultimo romanzo, pubblicato postumo, Tra un atto e l’altro.
Flush morì a Firenze in data sconosciuta. Elisabeth Barrett Browning, autrice, di molte opere di grande importanza tra cui Poems del 1844, Sonnnets from the portuguese (1850) e del bel poema Aurora Leigh (1857), recentemente stampato in italiano, morì anch’essa a Firenze nel 1861, dopo aver parteggiato per i garibaldini e i moti risorgimentali.
Il libro che Virginia Woolf definì, con modestia, un “divertimento” e nulla più è invece una breve e straordinaria opera sulla forza positiva e rivoluzionaria dell’amore.