La mia vita in transizione. I “percorsi silenziosi” di Sonia
Dialogo di Katya Parente con la docente Sonia Zuin
Una sorta di fil rouge lega Francesca Andrea Perinetti di cui qui potere leggere la bella intervista che ci ha concesso, e Sonia Zuin, l’ospite di oggi: entrambe docenti MtF, che hanno fatto coming out, e con grande coraggio e determinazione hanno iniziato la propria transizione superati gli “anta”.
Nello specifico, Sonia insegna al Politecnico di Milano e ha al suo attivo due libri di poesia (Percorsi silenziosi, Le Mezzelane Editrice 2019; LGBTQ, Le Mezzelane Editrice 2021). Ma ora diamo spazio a lei.
Un articolo che parla di te s’intitola “Sonia Zuin, docente del Politecnico diventata donna”. Credo che non corrisponda pienamente alla realtà…
Non direi che non corrisponda alla realtà, ma solo che è un articolo che fotografa con onestà il mio complesso percorso attraverso un format di dimensioni molto contenute.
Ci racconti un po’ di te? Chi è Sonia, e qual è il tuo percorso umano?
Accidenti… con la massima nonchalance sei partita con la domanda a cui non riesco a dare una risposta! Chi è Sonia? In realtà non lo so bene neanch’io, anche se tutto sommato penso di conoscermi bene. Non mi sto contraddicendo, ma solo cercando di dire che so di avere una personalità complessa e con molte sfaccettature.
Agnese, un’amica “della cricca della poesia”, come chiamo io il gruppo di persone che ho conosciuto da quando ho pubblicato la mia prima silloge, ha detto una volta che dentro di sé abita un intero condominio. Trovo particolarmente azzeccata questa immagine, perché anche da me abitano tantissime persone. Io penso di conoscerne molte, alcune molto bene e altre un po’ di meno, ed è per questo che mi risulta molto difficile sintetizzare chi è Sonia.
Per sommi capi potrei dire che sono una donna molto curiosa, e che subisce un fascino particolare per la novità; sono un’inguaribile ottimista (e sono ben contenta di esserlo), ma so cosa vuol dire il vuoto esistenziale e la mancanza di prospettive; sono fortemente idealista (Imagine di John Lennon è il mio faro culturale), ma allo stesso tempo sono una persona molto pragmatica nell’approccio con i problemi. Sono molto razionale, ma certe decisioni le ho prese quasi senza valutarle, perché dentro di me sentivo che “quella era una cosa da fare” (ad esempio, entrare in una associazione di soccorso sanitario); in questi casi, l’analisi delle motivazioni è solo rinviata, difficilmente è assente, difficilmente rinuncio a cercare di far luce dentro di me.
Su certe cose veramente importanti, tipicamente quelle che riguardano i miei valori e le mie convinzioni più profonde, sono intransigente e difficilmente mi arrendo, ma su tanti altri aspetti della vita sono decisamente accomodante. Sono tenace e perseverante, e in genere molto paziente. Raramente mi arrabbio, se non altro per un motivo egoistico, dato dal fatto che odio arrabbiarmi, ma quando succede qualcosa che supera il limite di sopportazione divento aggressiva (ovviamente solo dal punto di vista verbale).
In conclusione, potrei dire che sono tutto e il contrario di tutto. Penso che avere una personalità ricca di sfumature sia soprattutto un bene, perché dentro di me ci sono tanti strumenti e tante sfaccettature che mi aiutano a comprendere la complessità del mondo circostante, ma è sicuramente faticoso. È come essere in cammino con un sacco pieno di oggetti di ogni tipo: prima o poi forse ti serviranno tutti, ma quando si è stanchi penso sia legittimo il desiderio di avere un piccolo sacchetto con dentro giusto le poche cose indispensabili. Anche perché è sempre lì a rodere il dubbio che probabilmente vive meglio ed è più sereno chi si muove agile e con poco peso sulle spalle…
Sonia è sbocciata. E Andrea, che fine ha fatto?
Andrea è molto amico di Sonia, ed è il suo fidato consigliere. La mia parte analitica e razionale fa capo a lui, mentre Sonia ha portato in dote l’empatia e il piacere del dialogo con le persone. Ha portato il sorriso e il desiderio di relazionarsi con gli altri. Sonia e Andrea si completano, e questa è una mia grande fortuna.
Perché hai intrapreso il tuo percorso di transizione così tardi?
Penso fondamentalmente per due motivi: da una parte, a posteriori, posso dirti che ho fatto una fatica indicibile a vincere la mia transfobia interiorizzata, che mi impediva di accettarmi veramente.
Dal punto di vista intellettuale non avevo nulla contro le persone transgender, ma semplicemente e a livello inconscio io non volevo esserlo. Di conseguenza, mi sono aggrappata con le unghie al mio ambiente tradizionale e alle sicurezze che ne derivavano, riuscendo per una vita ad accettare che mi piaceva indossare la gonna, ma a non vedere dentro di me l’esistenza di Sonia.
Alla fine ho capito che ognuno di noi è capace di credere a qualunque cosa, anche a quelle più assurde, se ha un motivo sufficientemente valido per farlo. Io di motivi validi ne avevo ben tre: la transfobia interiorizzata, l’affetto per i miei figli e il profondo rapporto con la mia ex moglie. Sonia, inconsciamente, era la prima a non volersene andare dalla sua famiglia, non solo per i figli, ma anche per non perdere il suo grande amore, ossia la mia ex.
Io ho potuto vivere una vita insieme a lei perché Andrea è eterosessuale, ma Sonia è lesbica. Entrambi si erano innamorati di lei: Andrea ufficialmente, Sonia in background. Queste sono cose che ovviamente ho capito solo in anni recenti.
Penso che ci sia ancora una grande confusione tra identità di genere e attrazione sessuale. In genere le persone credono che, iniziando un percorso di affermazione della propria identità interiore, sia automatico sentirsi attratti verso il genere opposto a quello verso il quale si transiziona. In realtà, se l’attrazione verso le donne o gli uomini è sincera, non c’è motivo che cambi iniziando la transizione.
Penso che possa succedere solo quando una relazione è mantenuta per convenzioni sociali, per abitudine, o come copertura di una omosessualità (rispetto al genere biologico) nascosta ai più; in questi casi, l’inizio della transizione porta non solo all’affermazione della propria identità interiore, ma anche al coraggio di manifestare le proprie inclinazioni sessuali e affettive vere.
Molto spesso le persone transgender eterosessuali (ad esempio, una donna transgender attratta da un uomo) hanno un passato cisgender omosessuale. Capisco che ci si possa perdere in questo discorso… per questo motivo vale la pena ricordare che sono dette cisgender le persone che non hanno un problema di disallineamento tra l’identità interiore e l’identità biologica.
Aggiungo l’ulteriore considerazione che nella nostra società è minore lo stigma verso le persone omosessuali rispetto a quelle transgender: in poche parole la vita delle donne lesbiche e degli uomini gay è tendenzialmente più facile rispetto a quelle delle persone che sentono il bisogno di transizionare.
Di conseguenza è minore la paura di esporsi, di fare coming out e delle conseguenze sociali; inoltre è molto più facile camuffarsi, qualora si preferisca non dichiarare pubblicamente la propria omosessualità (per quanto possa essere deprecabile doverlo fare per evitare il rischio di mobbing nel mondo del lavoro, o di atteggiamenti di rifiuto da parte della comunità).
Per tutti questi motivi è più facile vincere la propria omofobia interiorizzata rispetto alla transfobia interiorizzata. Immaginiamo ora un ragazzo adolescente che non ha consapevolezza di avere un problema di identità di genere, ossia che la sua vera identità è femminile, e immaginiamo che sia eterosessuale il suo vero io femminile ancora inconscio.
Quando la pulsione sessuale incomincerà a farsi sentire, è probabile che questo ragazzo riuscirà a vincere più facilmente la propria omofobia interiorizzata, perché più debole rispetto alla propria transfobia. Di conseguenza, è probabile che farà il primo passo verso l’affermazione del proprio io accettandosi come ragazzo gay. Se però la sua vera identità interiore è femminile, è probabile che ad un certo punto della sua vita maturi la consapevolezza di dover iniziare un percorso per l’affermazione del suo vero io. Transizionando verso il genere femminile, rimarrà ovviamente invariata la sua attrazione per gli uomini, e diventerà quindi una donna eterosessuale. Non conoscendo la storia di questo ragazzo, si potrà pensare che l’attrazione verso il genere opposto a quello verso il quale ha transizionato sia una conseguenza della transizione stessa…
Quasi tutte le persone transgender eterosessuali che conosco hanno fatto un percorso simile a quello che ho descritto, con una prima fase vissuta come ragazzo gay o ragazza lesbica.
Hai due figli e un’ex moglie. E al telefono mi hai accennato che siete ancora una famiglia…
Non siamo una famiglia nel senso tradizionale del termine, perché viviamo in due case differenti, ma io non penso che essere una famiglia voglia dire condividere gli spazi, cenare la sera e fare vite indipendenti senza il minimo dialogo e piacere nello stare insieme.
Ci sono purtroppo numerose famiglie tradizionali, costituite da persone etero cisgender, in cui i rapporti tra i coniugi, o tra i genitori e i figli, sono tesi e completamente deteriorati. È una famiglia? Ufficialmente sì, ma dal punto di vista umano e affettivo direi di no.
Da anni si parla molto di modelli di famiglia, e la parte più reazionaria e conservatrice della nostra società condanna con un approccio molto ideologico le cosiddette famiglie arcobaleno. Io sono convinta che non esista un modello di famiglia adatto a crescere bene i figli, ma solo adulti che si vogliono bene e che sanno assumersi la responsabilità di essere genitori, ossia persone di riferimento in cui i figli trovano affetto, sostegno, consigli, modelli di comportamento, a volte anche complicità.
I rapporti tra noi quattro sono sempre stati molto buoni, e questo è stata una fortuna, perché altrimenti sono sicura che non avremmo retto l’onda d’urto devastante conseguente al mio percorso di genere. È stato facile? Ovviamente no, è stato terribilmente difficile e doloroso. Ma grazie al comune desiderio di fare il possibile per salvaguardare i rapporti tra di noi, ce l’abbiamo fatta.
Sia chiaro: non è stata un’operazione al ribasso, ma la consapevolezza che avremmo perso tutti se avessimo fallito, e che non ci sarebbero stati tre vincenti e un perdente. È ovvio che tutti abbiamo sofferto, sicuramente in modo diverso, e che tutto questo dolore ce lo saremmo evitato con piacere, ma questo è stato sicuramente anche un periodo di crescita per tutti e quattro.
Mia moglie ha avuto un ruolo fondamentale, perché tanto ci siamo accapigliate prima (ma solo perché nessuna voleva rinunciare all’altra, ma nessuna poteva dare all’altra quello che aveva bisogno), tanto è stata determinate nel fare il possibile affinché il mio ruolo, la mia credibilità e, se vogliamo spendere una parola impegnativa, la mia autorevolezza, non venisse meno. È stata veramente mitica, e ha dimostrato un’intelligenza sicuramente al di sopra della media.
Onestamente penso che lo abbia fatto per tutelare i nostri figli, comprendendo che lo scontro con me e la denigrazione del mio percorso avrebbe avuto alla lunga un impatto devastante nei loro confronti. Ma penso che lo abbia fatto anche perché aveva capito che la mia era una vera necessità, a cui non potevo sottrarmi.
Io ho fatto di tutto per rendere la mia transizione meno traumatica possibile, non solo non imponendo loro l’utilizzo del genere femminile, ma anche attraverso un’estrema gradualità del mio look (ancora adesso, dopo più di quattro anni, è veramente raro che mi vedano con un abito o con una gonna, preferendo di gran lunga i pantaloni quando sono con loro).
Per loro ho posticipato per tanto tempo passaggi che avrei fatto ben prima, se fossero dipesi solo da me: ad esempio, la tinta dei capelli e una pettinatura più femminile – per almeno un anno avevo semplicemente i capelli lunghi – e gli orecchini (perché mi avevano detto che i primi mesi non avrei mai potuto toglierli). Ancora adesso non metto lo smalto sulle unghie, anche se mi piace molto, per lo stesso motivo.
Forse sono esagerata, ma volontariamente ho rinunciato a dettagli esteriori che sicuramente mi avrebbero fatto piacere, soprattutto all’inizio, quando era veramente forte il bisogno di affermare l’identità femminile, perché per me era prioritario agevolare il percorso della mia ex e dei nostri figli.
E sul fronte del lavoro, come hanno reagito i colleghi alla tua transizione?
Sicuramente con grandissima sorpresa, perché nessuno lo avrebbe mai immaginato: ad eccezione di mia moglie, non avevo mai confidato a nessuno, sorella e genitori compresi, che dentro di me c’era qualcosa che mi avvicinava sempre di più al mondo femminile. Tolto questo aspetto, importante ma non così condizionante, probabilmente perché lo riuscivo a gestire, io conducevo una vita normalissima, i cui pilastri erano la mia famiglia, il lavoro, tanti amici e parecchi interessi.
Decisi di parlare con ognuno dei miei colleghi, perché non potevo pensare di liquidare il discorso con una comunicazione ufficiale fatta con il direttore del Dipartimento, anche se la legge me lo permetteva, perché i rapporti umani non si costruiscono in base a quello che è stabilito dal diritto.
Avevo rapporti così consolidati con molti di loro che sentivo il bisogno di spiegare cosa provavo, cosa era successo, quali erano state le esigenze e le motivazioni che mi avevano portato a prendere una decisione così sofferta e radicale, ma allo stesso tempo a ognuno di loro chiedevo come pensavano che avrebbero reagito.
I lunghi anni di scontro con mia moglie mi avevano infatti fatto capire che non ero solo io a dover fare una transizione, ma anche tutte le persone con cui interagivo. Ovviamente transizioni molto diverse dalla mia, ma non per questo meno difficili o dolorose. Inoltre, io la iniziavo per una mia necessità, e spinta dal desiderio di far vivere una parte fondamentale del mio io, mentre gli altri la subivano.
Alcuni colleghi e amici, forse la maggior parte, una volta superato lo shock per la sorprendente comunicazione, hanno accolto Sonia con grande facilità e naturalezza; per altri è stato più difficile, ma in realtà il loro percorso è stato solo più lungo, e forse più sofferto e doloroso, ma ho sempre avuto l’appoggio incondizionato di tutti.
È sorprendente, ma anche estremamente illuminante, quello che mi hanno detto un carissimo collega e un altrettanto caro amico, che però non si conoscono: “Andrea, se senti il bisogno di iniziare questo percorso, hai tutto il mio supporto, ma è come se mi strappassero una parte di me…”. Entrambi avevano espresso quasi con le stesse parole quello che per loro era una perdita dolorosa.
Altri colleghi mi hanno invece sorpreso per la facilità con qui hanno accolto Sonia. Tutti hanno apprezzato molto il riguardo di parlare con ognuno di loro, e a qualche collega con cui avevo meno confidenza è venuto naturale aprirsi e confidarmi episodi o problemi personali che probabilmente, senza la mia comunicazione, mai avrebbe condiviso con me. A tutti ho lasciato il tempo di metabolizzare l’accaduto, e non ho mai imposto il genere femminile o il nome Sonia. Ovvio che a me dava fastidio quando qualcuno usava ancora il maschile, ma non l’ho mai fatto notare, o al massimo ogni tanto la mettevo sul ridere, giusto per ricordare che prima o poi li aspettavo tutti al traguardo…
Era chiaro sin dall’inizio che non mi interessava imporre con la forza del ricatto l’uso del femminile per crogiolarmi in un “Sonia” posticcio, ma che la soddisfazione di sentirmi chiamare con il nome femminile in modo spontaneo sarebbe stata impagabile. Se questo voleva dire aspettare anche un anno o due, non sarebbe stato un problema: io ero lì che volevo arrivare. Anche perché a me bastava il fatto che, forma femminile a parte (che è stata un lungo parto solo per qualche collega), con tutti la sostanza dei rapporti interpersonali era di evidente accettazione di Sonia senza la minima riserva.
Sei attivista e impegnata in politica. Ci racconti questa tua avventura?
Mai avrei pensato che un giorno mi sarei impegnata per la rivendicazione dei diritti di chi si riconosce nella comunità LGBT+, che sarei stata coinvolta in una lista civica, o che sarei entrata in un’associazione di soccorso sanitario, perché questi sono bisogni e interessi di Sonia. Qualcuno, estraneo al mondo delle persone transgender, potrebbe pensare che la necessità di transizionare stia solo nel desiderio di andare in giro con la gonna e gli stivali, o nel farsi crescere la barba e indossare la giacca e la cravatta, se il percorso è opposto a quello che ho fatto io. Questi sono dettagli e libertà che ovviamente fanno piacere, sono importanti affermazioni della propria identità, perché i vestiti sono soprattutto un codice sociale, ma la transizione coinvolge l’io più profondo di una persona; portarlo alla luce, farlo vivere nella quotidianità, invece che relegarlo alle proprie fantasie, può avere conseguenze enormi.
Non posso dire di essere una persona diversa da prima, ma sicuramente posso affermare che sono molto più ricca di prima: Sonia ha portato in dote l’empatia, l’emotività, il piacere di relazionarsi con le persone, aspetti questi che Andrea ovviamente non riusciva a esprimere.
L’attivismo, l’impegno politico e il volontariato sono solo le conseguenze del mio arricchimento interiore, o meglio, del mio completamento. Sono attività che sento il bisogno di fare perché, detto molto onestamente, mi fanno stare bene, mi gratificano. Diffidare di chi fa volontariato appiccicandosi il marchio della santità e giustificandosi con il fatto che lo fa gratis, o che lo fa per gli altri… Se si è onesti si dovrebbe ammettere che si fanno queste attività perché in un modo o nell’altro ci gratificano: l’attivismo, per quel poco che riesco a fare, ma tutto sommato anche la politica, gratificano il mio senso di giustizia sociale (che ho sempre avuto, anche se Andrea non ha mai sentito il bisogno di attivarsi).
Il volontariato ha invece un impatto emotivo che mai avrei immaginato: sostenere psicologicamente una persona anziana in PS mentre è in attesa del triage, o nel trasporto in ambulanza, anche solamente tenendole la mano e guardandola negli occhi, attiva uno scambio emotivo così intenso tra due esseri umani, la cui vita si è casualmente incrociata per solo un’ora, che arricchisce entrambi. A questo punto non importa se sono le tre di notte, o se è sabato pomeriggio e avresti potuto impiegare il tuo tempo in modo diverso, non importa se quando torni vedi la tua casa sempre in disordine perché non hai il tempo per riordinarla: quando torni, ti togli la divisa e sai che hai fatto qualcosa di importante per te e per gli altri. Una goccia nel mare, è ovvio, ma il mare è fatto proprio di tante gocce.
La politica o l’attivismo non hanno questo coinvolgimento emotivo, perché attivano soprattutto la mia parte razionale, analitica, e tutto sommato il mio idealistico senso della giustizia. Tutte queste attività mi hanno permesso di conoscere persone molto valide, che stimo, che mi hanno arricchita, e con cui in qualche caso è nato un rapporto di amicizia importante.
Qual è il tuo rapporto con la fede, e in genere con la spiritualità?
Mia madre è cattolica, e con una fede profonda. Ho avuto un’educazione religiosa tradizionale, ma non sono praticante, perché non ho il dono della fede; dato che cerco di essere una persona coerente, non prego e non vado in chiesa, perché sarei falsa. Gli studi scientifici mi hanno fatto capire però che i nostri sensi ci restituiscono una piccola frazione della realtà (ad esempio, gli occhi e i nostri sensori termici percepiscono una ristrettissima banda delle onde elettromagnetiche, le orecchie un ristretto campo di frequenze acustiche), ma noi esseri umani siamo terribilmente uomo-centrici e pensiamo che quello che percepiamo sia la realtà.
Ampliando il discorso, sono convinta che la realtà vada ben oltre quello che è conoscibile e misurabile da noi, non per motivi dipendenti da tecnologie e conoscenze non ancora acquisite, ma per i nostri limiti intrinseci e insuperabili. Un astrofisico fece l’esempio di un ipotetico essere bidimensionale che, vivendo in un mondo piatto, non potrà mai osservare quello che sta sopra o sotto di lui; potrà al massimo intuire che quello che vede potrebbe essere una porzione della realtà.
Questo discorso porta automaticamente al tema del divino e del senso della vita e della morte. Qui però mi fermo, perché non ho il dono della fede. Ma è ovvio che per me è un tema importante a cui periodicamente torno, perché trovo veramente senza senso che la nostra vita, con tutto quello che comporta dal punto di vista emotivo, sia il frutto di una pura casualità. Che senso avrebbe il dolore, la sofferenza, ma anche l’amore, la gioia, la felicità, l’istinto di conservazione della specie che ci spinge a riprodurci continuamente, se avesse solo avuto origine da una delle infinite ricombinazioni casuali della materia?
In conclusione, ho una mia spiritualità, anche profonda e importante, ho la sensazione dell’esistenza di qualcosa che va oltre a noi e che dà senso a quello che facciamo, fatica e sofferenza compresi, ma a cui non riesco a dare un nome e una caratterizzazione: penso infatti che Gesù, Buddha, Allah o Vishnu siano sono le rappresentazioni culturali del nostro innato bisogno del divino.
Non dimentichiamoci infine che tutte le religioni hanno da sempre un’importante valenza sociale ed educativa, perché indicano quale debba essere il comportamento virtuoso degli uomini affinché dopo la morte il loro destino non sia quella della dannazione (declinato nei diversi modi e linguaggi propri delle differenti religioni). Non sono assolutamente una studiosa delle religioni, ma a me sembra che, se togliamo la finalità ultraterrena di questi insegnamenti, dal punto di vista laico quasi tutte le religioni ci indirizzino verso comportamenti che mirano non solo al benessere spirituale delle persone, ma anche alla solidarietà reciproca e alla concezione di un’umanità che tutta insieme è in viaggio su questa terra nella nostra esistenza materiale.
In conclusione, sento vicino e del tutto condivisibile la parte sociale e spirituale, ma non teologica, soprattutto della religione cattolica e del buddhismo (senza con questo voler minimamente addentrarmi nel tema di quanto il buddhismo sia dottrina o filosofia di vita, e quanto religione, perché esula del tutto dalle mie competenze).
Discorso completamente diverso è come il potere politico abbia sempre utilizzato le religioni e il bisogno del divino degli uomini per esercitare un controllo sulle persone. Tutto questo però non ha niente a che vedere con la spiritualità e il misticismo, ma con le miserie tipicamente umane.
Quello che fa male (anche se in realtà dovrei utilizzare espressioni ben più forti e incisive) non è tanto vedere il politico che sfrutta la religione per un tornaconto elettorale, o comunque personale, ma constatare la connivenza con il potere politico di qualche apparato ecclesiastico (mi riferisco a qualunque religione), contiguità che troppo spesso tradisce del tutto il dettato e l’insegnamento religioso.
Numeri e formule matematiche da una parte, poesia dall’altra. Non ti senti una sorta di dottor Jekyll e mister Hyde?
Direi proprio di no, anche perché l’approccio razionale è tipico di Andrea, la creatività è più di Sonia, ma entrambe sono espressioni del mio io. E poi io ho avuto la fortuna di coniugare il lavoro di ingegnere in un modo molto particolare e creativo, perché all’università non si deve solo conoscere la teoria, le equazioni e sapere sviluppare i modelli matematici, ma è fondamentale avere la capacità di immaginare quello che al momento o non esiste, o non è ancora stato ipotizzato come causa di un problema o come possibile sua soluzione. La differenza è che al Politecnico la creatività si esplica in un contesto logico-razionale, mentre in poesia il supporto è il mio vissuto e le emozioni che ho provato.
Anche se la mia scrittura è molto istintiva e immediata, quasi come se fosse un flusso di coscienza che prende forma in modo sostanzialmente autonomo attraverso una sequenza di versi e di immagini, in realtà esiste una fase di rielaborazione e di limatura del testo che ha una base razionale.
Questo tema, visto in un’ottica più generale, si lega a riflessioni a me care: sono infatti convinta che la nostra realtà interiore, e di conseguenza anche le relazioni interpersonali, siano caratterizzate da un’estrema complessità, che però spesso non accettiamo, o neghiamo, o non vogliamo vedere, semplicemente perché è molto più facile gestire la semplicità. Un conto però è percepire la complessità di una situazione, ma avere anche la capacità di sintetizzarla nei sui aspetti più importanti per individuare le priorità e i temi prioritari, riservandosi di tornare successivamente al dettaglio di tutte le implicazioni; un altro è negare la complessità. Questo vale in politica, nelle relazioni sociali e nella consapevolezza di chi siamo.
Ho passato una vita non volendo vedere l’esistenza di Sonia, perché evidentemente il mio lato femminile era deflagrante nel contesto della mia vita. Ma alla fine, quando ho dovuto imparare ad accettarla, Sonia mi ha donato una ricchezza che non pensavo di avere. Tutto questo è costato un’enorme fatica, non solo a me, e ancora adesso mi costa la fatica di scoprire chi sono e di continuare ad armonizzarmi con il resto del mio io. Chi più, chi meno, penso però che tutti abbiano una loro ricchezza interiore, ma temo che a volte si abbia paura di vederla (non sto ovviamente alludendo a un percorso di affermazione della propria identità di genere).
Il mio invito caloroso è quello di liberarsi di queste paure, di abbandonare modelli stereotipati di comportamento che spesso sono in grado di filtrare quello che siamo, perché fanno emergere solo determinati aspetti della propria personalità, e di guardarsi dentro con coraggio e curiosità.
Credo che Sonia sia una persona assolutamente incredibile: limpida, tenace, buona, la cui conoscenza mi ha fatto bene al cuore. La sua storia riempie di gioia e di speranza – la speranza di poter essere se stessi, circondati dal rispetto e dall’empatia di chi ci sta vicino e di impegnarsi, ciascuno a modo suo, per il benessere di tutti.