Vivere con pienezza come persone LGBT, nonostante l’omotransfobia che ci circonda
Articolo di Bryan Washington pubblicato sul sito del mensile The New Yorker (Stati Uniti) del 13 agosto 2021, liberamente tradotto da Innocenzo Pontillo
Quando ero più giovane, l’omofobia che sperimentavo era indistinguibile dalla vita quotidiana, ma in Texas, negli anni ’90, non era una cosa di cui valeva la pena parlarne.
Una volta in quinta elementare, davanti a una folla di genitori sorridenti, un allenatore sportivo ci informò con calma che avevamo giocato la nostra prima partita di calcio come un branco di finocchi.
Un’altra volta, alle medie, ero seduto in mensa per pranzare con un altro ragazzo ritenuto abbastanza frocio, quando il nostro pasto è stato interrotto dal lancio, sul nostro tavolo, di una bottiglia d’acqua aperta piena di piscio
Al liceo, quando ormai l’argomento che ero una persona queer era ormai un pettegolezzo piuttosto comune, ho ricevuto per una settimana e-mail scritte, un po’ troppo bene per essere opera di un ragazzino, che mi preannunciava la mia inevitabile discesa all’inferno.
Nella maggior parte dei giorni che ho vissuto da giovane, lo stigma che circondava il mio essere queer, creava intorno a me un clima a dir poco claustrofobico.
Fino a quando sono arrivato all’università, dove ho finalmente trovato una comunità, l’ansia alla base del mio essere queer, l’ho vissuta praticamente in ogni situazione immaginabile, ed era veramente inquietante e fastidiosa.
Ma nonostante tutto avevo ancora delle cotte e avevo ancora degli amici. Avevo un lavoro, ero stressato dai voti e andavo in bicicletta al mio negozio preferito per comprare il cibo per i gatti.
Ogni volta che sono costretto a raccontare queste storie ai miei amici etero, rispondono con uno sguardo scioccato, accompagnato da scuse o da una momento di silenzio imbarazzato, che dura per tutto il tempo che ritengono opportuno.
Quando l’argomento viene fuori tra amici bianchi e queer, mi offrono sempre un cenno di assenso.
Ma quando ne parlo con amici queer di colore, e in particolare con amici queer neri, si limitano a sbuffare leggermente, o alzano le spalle, o fanno un movimento col polso, prima di raccontarmi l’esperienza simile, che loro stessi hanno subito.
Quindi, sorrideró sempre della macabra, sorprendente prevedibilità dell’omofobia, perché poche cose sono più noiose di essa. Nella sua distruttività, nella sua paurosa malizia, nella sua nascente violenza, rispecchia altri stigmi con la loro profonda mancanza di immaginazione.
(…) Ultimamente, una buona parte del mio tempo è dedicata a raccontare storie d’amore queer. È un privilegio assai delicato, ed è possibile solo grazie a coloro che hanno scritto le proprie storie prima di me.
Scrivo storie di persone queer che racconto con cura, attenzione e rispetto, senza il bisogno di far conoscere solo le loro tante lotte o i loro traumi. (…)
Le storie che scrivo non sono quelle in cui non esiste la violenza, la disinformazione o lo stigma dell’omofobia, perché sarebbero assai lontane dalla verità, ma non sono l’obiettivo principale del mio raccontare.
Raccontarsi e raccontare la vita delle persone queer è per me un modo per combattere lo stigma, ed è essenziale per favorire il cambiamento, anche se non equivale ad avere una legge contro le discrimazioni, un’equo compenso o l’accesso alle cure mediche. Fornire accesso ai servizi salvavita alle persone emarginate non equivale ad avere uno Stato di diritto.
Ma non si tratta solo di combattere la palese omofobia che alcuni personaggi pubblici hanno recentemente messo in mostra, perchè è possibile combattere per tutte queste cose contemporaneamente, perché così deve essere.
Una storia è una cosa e la vita vissuta può essere un’altra. È raro che passi più di qualche giorno senza che un mio amico venga molestato o insultato.
Una settimana fa, diversi amici su Instagram, in diverse parti del globo, hanno postato di essere stati molestati per strada lo stesso giorno.
Un’altra settimana, mentre io e il mio ragazzo stavamo facendo un barbecue fuori città di Houston, un uomo ha visto noi due e i nostri pantaloncini da corsa e ci ha sputato addosso.
Un’altra settimana, un autista, a proposito del parlare a vanvera, ci ha detto che non era poi così male che così tante “bandiere dei froci” stessero spuntando nel quartiere. Gli ho detto che ero responsabile di almeno una di quelle bandiere (dopo essermi accertato che il percorso che stavamo facendo corrispondesse a dove intendevo andare), dopo di che è rimasto in solenzio, finché non siamo arrivati a destinazione, quando mi ha detto di fare attenzione e di non prendere l’Aids.
L’altro fine settimana, io e alcuni amici queer abbiamo bevuto qualcosa in un bar. Eravamo tutti vaccinati da mesi e, sebbene il rischio della variante Delta è ancora grande, abbiamo pensato di provare a trarre il massimo piacere da una birra all’aperto finché potevamo.
Il patio era affollato, ma eravamo distanziati ma mentre il linguaggio del corpo – mani sulle spalle, dita sulla vita, labbra sulle orecchie – era in gran parte assente, le risate non lo erano e ogni tavolo viveva in un suo piccolo universo, collegato all’orbita più grande degli altri.
Le chiacchiere rimbalzavano da un tavolo all’altro, come potrebbero farlo in un paese che cerca attivamente di uccidere i suoi cittadini più emarginati e ogni volta ci riesce sempre di più.
Quindi abbiamo esultato e riso, perché quelle cose sembravano, in un quel momento, lontanissime da ognuno di noi.
Testo originale: The Thing About Homophobia